I Monti di Pietà e i Monti di maritaggio

La storia dei Monti di Pietà è abbastanza nota. Sorti per accumulare risorse pubbliche da destinare alle piccole necessità di persone in difficoltà economica, questi istituti furono una risposta concreta ai bisogni di quanti, in periodi di scarsa circolazione di denaro liquido, per sopravvivere cercavano strade di accesso al credito, non potendo altresì rimborsare elevate somme di interesse. Ascoli Piceno e Perugia si contendono il primato di queste istituzioni, le cui prime forme sorsero nel XIV secolo, si svilupparono in modo concreto e organizzato in quello successivo arrivando, in un arco temporale plurisecolare, a diffondersi sull’intero territorio italiano. Le denominazioni odonomastiche di molti centri grandi e piccoli d’Italia sono lì a ricordarlo.

Bologna

Le sedi dei Monti di Pietà si trovavano nel centro cittadino, facilmente raggiungibili sia da chi abitava in città sia da chi viveva nel contado; l’entrata era però un po’ nascosta e defilata, oggi si direbbe per proteggere la privacy della clientela. Gli edifici dovevano essere grandi, capaci di ricevere e custodire per lunghi periodi i beni dati in pegno, preservandoli anche da possibili azioni criminali: chi non ricorda il film di Mario Monicelli I soliti ignoti in cui una sgangherata banda di ladri, capitanata da Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni, tenta l’assalto alla cassaforte del Monte di Pietà distruggendo una parete e finendo a mangiare pasta e ceci nella cucina di un appartamento?

Roma

La clientela che si rivolgeva ai Monti di Pietà nei secoli passati era povera ma non poverissima, dovendo essere in grado di presentare oggetti in pegno che valessero almeno un terzo della somma data in prestito. Era una forma di credito e non di elemosina, il tasso di interesse si aggirava intorno al 5%, decisamente al di sotto dei banchi privati, ma il carattere benefico delle istituzioni non venne mai meno. I Monti erano severi nel giudicare le necessità delle persone che cercavano di impegnare le proprie cose, pretendevano un giuramento sul reale stato di bisogno e anche sulle buone intenzioni successive, evitando di consegnare denaro a chi intendesse scialacquarlo in modo insensato, mantenendo così fede alla funzione sociale per la quale erano stati fondati. Era nei periodi di crisi, individuale o collettiva, che le persone si rivolgevano ai Monti di Pietà: più la crisi era grave e generale, più le attività degli istituti si rafforzavano e prosperavano. Se i problemi economici erano momentanei restava la speranza di riscattare in futuro l’oggetto e di tornarne in possesso, ma se la difficoltà era grave e soprattutto strutturale le possibilità di recupero per loro erano quasi nulle.

Roma, Portale d’ingresso del Monte di Pietà

La forma di soccorso dei Monti di Pietà si indirizzava sia verso i crediti di consumo per la quotidiana sopravvivenza, sia verso i prestiti d’impresa di cui necessitavano le piccole attività artigianali, non di rado a carattere familiare e gestite da donne. Era soprattutto nei frangenti più difficili che queste ultime entravano in contatto con questo istituto. Nei primi secoli di vita dei Monti di Pietà la percentuale delle donne che si presentavano con le loro cose, spesso raccolte in modesti fagotti, si aggirava tra il 7% e il 10%, mentre gli oggetti dati più frequentemente in pegno avevano caratteri femminili.

Jan van Grevenbroeck, Banco dei pegni. Monte di Pietà a Venezia, disegno ad acquerello e inchiostro, Manoscritto Costumi dei Veneziani, XVIII secolo, Venezia, Museo Correr

La contraddizione si spiega con il fatto che verosimilmente, nella maggior parte dei casi, era l’uomo a recarsi presso l’istituto, ma che gli oggetti da lasciare provenivano dai beni delle donne. Negli archivi di alcuni Monti di Pietà sono conservati parte degli elenchi delle persone che si rivolgevano per un aiuto economico. Da questi elenchi si riesce a desumere che venivano consegnati gioielli più o meno preziosi, biancheria (in genere lenzuoli, non sempre in buone condizioni), pezze di tessuto, capi e accessori di vestiario, anche queste il più delle volte consunti e tarlati. Sono queste le principali testimonianze di presenze femminili nei Monti di Pietà, dal Medioevo a tempi più recenti. Maria Giuseppina Muzzarelli, docente di Storia Medievale all’Università di Bologna, ha dedicato pagine interessanti a questo fenomeno, a metà tra le funzioni bancarie e quelle benefiche. Le vesti, i piccoli gioielli, i tessuti, i capi di abbigliamento provenivano spesso dalla dote maritale che, modesta già in partenza, in caso di difficoltà economiche si assottigliava ulteriormente, impoverendo i già magri patrimoni femminili; era quindi soprattutto delle donne il sacrificio, non sappiamo se fatto condividendo almeno in parte la decisione oppure no.

Cedola del Monte di Pietà di Roma, 1792

Nel corso dei secoli la percentuale delle presenze femminili all’interno degli istituti crebbe, così registrano i documenti conservati; quello che le carte non raccontano è invece la vergogna che le persone provavano varcando il portone d’ingresso dei Monti di Pietà. Doveva però essere un disagio forte se tra il XVIII e il XIX secolo cominciò a comparire una figura per l’intermediazione, molto spesso donna. Erano chiamate mediatrici a Genova, imprestiere a Milano, montiste a Bologna ma la loro funzione era la stessa: prendevano in consegna il bene da impegnare, anche anticipando il denaro al/alla cliente, ed entro tre giorni erano obbligate a portarlo al Monte di Pietà. Le montiste, che avevano una licenza per poter agire, giravano la città andando di strada in strada, di casa in casa, sapendo valutare la merce e basando le loro transazioni unicamente sulla fiducia che riuscivano a guadagnarsi tra le persone; alcune riuscirono ad aprire una piccola sede per svolgere gli affari. Affari che erano di modesta entità perché la clientela e gli oggetti erano umili; potevano eventualmente arrotondare ricomprando i pegni non riscossi nel corso delle aste, trasformandosi quindi in commercianti o venditrici ambulanti pronte a piazzare la merce alle migliori offerte.

Napoli, Ingresso del Monte di Pietà

Scrive Maria Giuseppina Muzzarelli che il rapporto con il Monte di Pietà era «un rapporto frequentemente doloroso, non risolutivo del problema di fondo al quale l’istituto pone al più una pezza. Ma anche un rapporto di reazione alla miseria. Le donne che portano direttamente le loro cose al Monte o che si spogliano di esse per lasciarle consegnare da altri in pegno sono un po’ il simbolo della dignitosa resistenza all’affondamento economico, sociale e morale opposta quotidianamente dai meno privilegiati». C’è però un altro aspetto, meno frequente, che va ricordato: quello delle donne che partecipavano con risorse economiche personali alla formazione dei capitali degli istituti di pegno. il cui carattere benefico e non solo economico ‒ non a caso erano chiamati anche Santi Monti di Pietà ‒ favoriva l’avvicinamento delle donne più abbienti, dedite in molti casi alla beneficenza e alla protezione delle persone più umili. I casi non erano molto frequenti, ma comunque esistevano.
Il fenomeno più ricorrente, soprattutto nell’Italia meridionale, è quello dei cosiddetti Monti di Maritaggio o Monti per il matrimonio, istituzioni i cui capitali derivavano da elargizioni private, donazioni e lasciti testamentari in denaro o in altri beni, destinati ad aiutare le ragazze di famiglie particolarmente bisognose, oppure orfane o trovatelle. A Bari già nel XVI secolo nacquero istituiti di maritaggio legati al culto di San Nicola, dotati di capitali importanti grazie a elargizioni generose tra le quali quella della regina e duchessa sovrana di Bari Bona Sforza d’Aragona, che donò 5.000 ducati.

Ritratto di Bona Sforza d’Aragona (1491-1558), Olio su tela, 1550 ca., Cracovia, Museo Museo Czartoryski

Queste forme di filantropia sociale provvedevano alla dote nuziale quando le giovani provenivano da famiglie molto indigenti, o erano prive del controllo familiare e senza la protezione di figure maschili che ne garantissero l’onorabilità salvaguardandone la verginità. Erano fanciulle definite “pericolanti”, la cui fragile condizione sociale era spesso l’anticamera di un futuro di prostituzione perché, prive di aiuti economici, senza personalità giuridica e senza possibilità di lavorare, il corpo diventava l’unico mezzo di sussistenza possibile. Con le cosiddette “doti di carità” si garantiva loro un futuro (da stabilire però quanto felice), si alleggerivano le famiglie povere di bocche da sfamare e si garantiva il controllo sociale e morale.
Diffusi un po’ ovunque, i Monti di maritaggio in qualche caso potevano aiutare anche le donne adulte rimaste sole (vedove, ripudiate, separate, malmaritate) la cui condizione era marginale, precaria e l’onore ugualmente in pericolo, e “le pericolate”, donne già cadute nella prostituzione o sulle quali si era abbattuto lo stigma sociale per aver avuto rapporti illeciti con uomini. In questi casi la condizione per ricevere il contributo dotale era la volontà manifesta di voler cambiare la propria vita. Si tratta di casi non frequenti, ma qualche esempio è giunto fino ai nostri giorni. È successo per esempio in Calabria, a Lauropoli, nella seconda metà del XVIII secolo quando la nobildonna Laura Serra, da Napoli, istituì doti nuziali di dieci ducati l’una per le «donzelle più oneste e bisognose, preferendo bensì le Orfane, e le pericolanti, e quelle ancora che fossero nubili […] con l’avvertenza di dare a ciascuna il denaro pochi giorni prima dell’effettuazione del Matrimonio, e ci comprenda la figlia di Anna la Schiava, e se vi fosse qualche Zitella, o Donna che faccia il cattivo mestiere, e che si volesse sposare per vivere onestamente da buona Cristiana, desidero che pure sia preferita». Dietro queste forme di maternage la sincera volontà di esercitare il bene conviveva con l’altrettanto forte desiderio di assicurarsi un posto nella luce eterna dell’aldilà, ma anche con un radicato sentimento di appartenenza al casato.

Firma della nobildonna Laura Serra, XVIII secolo

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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.

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