Pregiudizi di genere

Il secondo tavolo della mattinata del 20 ottobre del XII Convegno Nazionale di Toponomastica femminile è moderato da Livia Capasso; ed è incentrato sui pregiudizi nel mondo del lavoro e di come gli stereotipi di genere impediscano alle donne di sfondare il cosiddetto “tetto di cristallo”, ossia ottenere un reale avanzamento di carriera a causa di discriminazioni razziali e/o sessuali. 

Il primo intervento, Pregiudizi e stereotipi di genere in aula, è di Paola Di Nicola Travaglini: magistrata dal 1994, dal 2010 giudice penale presso la Suprema Corte di Cassazione e consulente giuridica della commissione sul femminicidio del Senato dal 2020 al 2021. Racconta di essere venuta in contatto con Toponomastica femminile dopo aver sentito la presidente Maria Pia Ercolini parlare di questo tema, e di essersi così resa conto della mancanza di nomi femminili nelle strade della sua città. Ammette poi che per molti anni non ha mai realmente visto la violenza contro le donne, poiché nessuno le aveva insegnato a comprenderla. Proveniente da una famiglia molto tradizionale e nata dopo la seconda ondata femminista, il contatto con questo tema è arrivato per lei molto tardi; un’influenza che oggi ritiene abbia effetti positivi anche nel proprio operato di magistrata. 

La violenza di genere, afferma, è richiamata fin dai cosiddetti “libri fondativi”. “Nome”, “norma” e “normale” sono tre parole che hanno la stessa radice. Si inizi da “nome”: chi nomina? Chi ha il potere di nominare? Chi stabilisce il valore di un significato e delle definizioni? Nella Genesi è l’uomo che viene incaricato di imporre nomi; la donna viene creata da una parte non vitale dell’uomo, dopo che il mondo, gli animali, gli oggetti, il Creato tutto è stato nominato e definito da lui. Le donne nascono quindi in un contesto in cui sono ospiti, dove subiscono il prodotto di quelle descrizioni. La cultura occidentale è piena di storie e miti dove le donne non nominano, bensì creano scompiglio; rompono quelle regole di un mondo a cui non hanno potuto contribuire divenendo a tutti gli effetti il “fuori dalla norma”. Il mito latino della Tacita Muta è quello di una donna a cui viene tagliata la lingua perché non denunci gli stupri subiti, è solo uno dei tanti esempi di apparati simbolici che abbiamo interiorizzato e che continuiamo a trasmettere come se fossero “normali.” 
Nelle lingue indoeuropee non vi è un termine unico per indicare il “diritto”; c’è invece per “ordine”, rispetto delle regole in cui vi è incluso anche il significato giuridico. Il filosofo Pierre Bourdieu nel suo libro Il dominio maschile studia come l’ordine sia fondato su gerarchia e sovra — ordinazione di genere, inscritto nel linguaggio e nel tessuto sociale, morale e religioso che si riproduce con modalità sempre diverse, adattandosi a tutto quello che tenti di scalfirlo. Come Priulla aveva già sottolineato, il linguaggio è una convenzione, non corrisponde realmente a regole grammaticali — per esempio, il femminile di “eroe” è “eroina”, un diminutivo. E ancora: per secoli il vestiario femminile ha impedito alle donne la libertà di movimento e ha imposto loro di portare nelle proprie borse oggetti di cui altri, e non loro, potevano avere bisogno. Tutto questo non è stato insegnato o spiegato a Paola Di Nicola, che per lungo tempo ha esercitato la propria professione con un bagaglio culturale che l’ha resa impreparata ad affrontare i casi di violenza di genere. 
La Convenzione di Istanbul del 2011 stabilisce per la prima volta nella storia dell’umanità giuridica che le donne in quanto tali sono portatrici di diritti. La nostra struttura giuridica è incentrata sulla persona e, tuttavia, è impreparata ad affrontare reati commessi da uomini in quanto uomini nei confronti delle donne in quanto donne. L’unica volta in cui esse sono nominate nel Codice Penale è nell’aggravante quando risultano incinte; solo quando opera nel suo ruolo tradizionale allora la donna è nominata, in tutti gli altri casi è sempre e solo una persona. La Convenzione di Istanbul è importante, quindi, in quanto riafferma la donna come soggetto giuridico riconoscendo la presenza di una violenza strutturale e culturale degli uomini sulle donne. Purtroppo, pare che molti dei Paesi firmatari non abbiano pienamente compreso cosa abbiano ratificato. I romani resero le donne portatrici della morale e dell’ordine da loro imposto, facendo loro interiorizzare l’apparato patriarcale e minacciando di togliere quel poco che avevano in caso di ribellioni. Questa premessa è fondamentale per comprendere quanto poco conosciamo della nostra società. Le avvocate e gli avvocati che si occupano di violenza sulle donne ogni giorno operano una deformazione culturale per contrastare un impianto che tende a ridimensionare le azioni dell’uomo a un mero sentimento e farne un’attenuante per la pena. Ciò nonostante i sentimenti non dovrebbero, almeno in teoria, mai entrare in un’aula di tribunale. Attraverso argomenti stereotipati si deformano i fatti e si sposta la responsabilità dal carnefice sulla vittima, un processo che eseguiamo regolarmente soltanto quando quest’ultima è una donna che subisce violenza. Si sono fatti moltissimi passi avanti anche da un punto di vista legislativo, ma c’è ancora una grande difficoltà dovuta a mancate competenze. 

Gli interventi successivi sono di Francesca della Ratta, presidente dell’associazione DifferenteMente Aps che si occupa della tutela dei diritti umani e dell’assistenza a persone con fragilità, e presenta un intervento dal titolo Pregiudizi di genere nell’avvocatura, incentrato sui problemi affrontati dalle avvocate nel perseguire la loro carriera a causa delle barriere culturali ancora persistenti, e Sabrina Bernardi, presidente dell’associazione SconfiniAmo Aps, avvocata civilista, da sempre interessata a diritti umani e questioni di genere, che nel suo intervento Pregiudizi di genere su lavoro parla di come gli stereotipi influenzino le pratiche di assunzione e le dinamiche nei posti di lavoro; Entrambi gli interventi si possono leggere qui

Prende poi la parola Concetta Gentili, rappresentante dell’Aiaf, Associazione italiana per la famiglia e i minori, con un intervento dal titolo Pregiudizi di genere in famiglia. La vittimizzazione secondaria è quello che rende le donne due volte vittime all’interno dei tribunali e negli altri luoghi della legge. Nella Costituzione, i Padri e le Madri costituenti scrissero l’articolo 29, che proclama la parità morale e giuridica dei coniugi all’interno del matrimonio. Un’idea rivoluzionaria, visto che nel Codice Civile dell’epoca le donne erano ancora sottoposte all’autorità maritale. Furono soprattutto le Costituenti che vollero l’articolo 29, fondamentale per ottenere parità all’interno della famiglia, quando si crea un divario tra quanto proclamato nella Costituzione e quanto viene poi applicato nei casi di tutti i giorni. Ad esempio, la Cassazione nel 1965 dichiarò lecito per il marito imporre alla moglie di non lavorare se questo la “distraeva” dai suoi doveri coniugali, perché la cura della famiglia doveva essere al primo posto, sopra ogni cosa. Era come se la famiglia fosse una creatura viva, che aveva il potere di limitare la libertà di metà della popolazione, anche quando le donne lavoravano in mestieri riguardanti la cura, rendendo gli uomini depositari delle loro relazioni esterne. Le donne e solo loro potevano essere responsabili del focolare domestico: L’ abbandono della casa era inteso come un crimine in sé per cui esse andavano punite, costrette a “volare basso”. Nonostante i progressi, gli effetti di questa mentalità non sono scomparsi: ancora oggi crea contestazione e dibattito una donna che reclama autonomia decisionale per sé e sul proprio corpo. La forza bruta, fattasi norma, ha costretto le donne alla sottomissione per decenni, grembi che camminano e null’altro; la scelta di non conformarsi agli stereotipi femminili continua ad avere costi enormi a livello sociale e personale. L’avvocatura femminista fa emergere queste contraddizioni, cambia la visione delle cose e fa crollare le fondamenta di un patriarcato che si aggrappa a qualunque appiglio per non scomparire. La parità oggi sembra declinata, invece, soltanto per mettere in discussione i traguardi faticosamente raggiunti da un conservatorismo che vuole che la famiglia “naturale” torni al centro della società — come se non se ne fosse mai andata — a scapito dei diritti di tutti e soprattutto di tutte. Le donne che si ribellano al sistema stanno venendo demonizzate, mentre i loro problemi reali sono negati o sminuiti. Bisogna continuare, quindi, a lavorare sul cambiamento.

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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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