Carissime lettrici e carissimi lettori,
niente rumore. Oggi è il giorno del silenzio. Per la tradizione della chiesa romana le campane sono legate. Tutto tace, in attesa della luce che verrà. Il Cristo, che è al centro della festività di domani, riposa nel sepolcro. Sarà alle donne che rivelerà la sua resurrezione: la Pasqua, trasportata, anche nominalmente dall’ebraico, dove indica il passaggio nel mar Rosso, oggi tormentato punto di dissidio.
«Il silenzio del Sabato Santo parte dal grido del venerdì, spiega un’edizione locale del quotidiano l’Avvenire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Un grido teso, in qualche modo, a colmare il silenzio tra il Figlio e il Padre. Un grido che riassume tutte le domande dell’uomo di tutti i tempi: il perché delle fragilità, delle debolezze, dei dubbi, dei non-sensi, della morte. Perché? Dopo quel grido — e lo scenario raccapricciante che ne deriva (il terremoto, lo squarcio del velo del tempio, il camminare dei morti usciti dalle tombe) — il silenzio del sabato giunge come una carezza divina sul volto smarrito di ogni uomo. Su quello degli apostoli, anzitutto, che — senza sapere cosa fare, senza capire — ritornano raminghi nel cenacolo, muti. Su quello delle donne, poi, che — in silenzio — attendono l’alba del giorno dopo, per andare, in lotta con i loro profumi e la loro pietà, a ungere il corpo del Maestro sepolto. Su quello di ogni altro, pure.»
Le donne prendono parte a questa tradizione. Quest’anno sono al centro dei riti della celebrazione pasquale. Iniziando dal Giovedì Santo, quando Francesco ha lavato i piedi alle detenute della casa circondariale del carcere romano di Rebibbia (quasi 370 detenute e 1 bambino). L’anno scorso Bergoglio era stato, per lo stesso rito, nel carcere minorile di Casal del Marmo. Questo Papa “nuovo” ha ripetuto la sua piccola/grande rivoluzione con la lavanda dei piedi e la Messa in Coena domini, Feria quinta in Coena Domini, in un carcere, in una “casa”, come ha sottolineato la Direttrice Fontana nel suo discorso di saluto e di offerta dei doni, e non in una chiesa. Così un cenno al femminile è stato anche per il rito della sera del Venerdì Santo. Durante la Via crucis al Colosseo una donna portando la croce ha ricordato le violenze subite da troppo tempo dall’”altra metà del cielo”.
Sono donne anche quelle presenti intorno al Cristo nei giorni del triduo che indicano la passione e resurrezione, dal venerdì alla domenica. C’è Maria di Magdala, Maria Maddalena, forse chiamata anche Magdala dal nome della cittadina che portava questo nome. Maria Maddalena appare tra le poche a poter assistere alla crocifissione e — secondo alcuni vangeli — è stata la prima testimone oculare e la prima annunciatrice dell’avvenuta resurrezione. Poi c’è Maria di Cleofa che prende questo nome per via del marito, vale a dire che era moglie di Cleofa o Clopa. Si pensava fosse sorella della Madonna, ma poi lo si è nettamente escluso. Forse erano cugine. Quindi c’è la madre del Cristo, Maria di Nazareth, la Madonna.
Tanto rumore, invece, bisogna farlo per le donne, per tutte le donne che hanno ricevuto violenza, soprattutto dai maschi. Per tutte le Giulie come quella a cui è dedicata la lunga lettera di Gino Cecchettin, suo padre, che da lei, scrive, di aver imparato tanto.
Il libro, Cara Giulia (Rizzoli) ha infatti come sottotitolo un viatico: Quello che ho imparato da mia figlia e lo scopo, e direi quasi la verità è guardare a un futuro sempre meno ossessionato dalla violenza puntando sull’educazione e la ri-educazione dei figli e dei genitori perché si ripeta sempre meno sulle donne, su tutte le Giulie che la subiscono, in tutte le sue rappresentazioni, fisiche, ma anche psicologiche, fino alla morte.
Milena Anzani, master of arts in Istituzioni dei diritti umani e della pace all’università di Padova e volontaria del Servizio civile nazionale scrive spiegando una sottile, ma determinante differenza tra due termini: «Le discriminazioni di genere, gli stereotipi sulle donne radicati nel substrato socio-culturale, la divisione di ruoli e l’esistenza di relazioni di potere disuguali tra donne e uomini sono fattori che costringono la donna a permanere in una condizione di subalternità in cui si alimenta il ciclo della violenza. I femmicidi/ femminicidi sono pertanto gesti estremi di violenza che sottendono una realtà complessa di oppressione, di disuguaglianze, di abusi, di violenza e di violazione sistematica dei diritti delle donne. I due concetti — spiega — si sono diffusi in Europa soltanto a partire dai primi anni del XXI secolo grazie da un lato alla divulgazione a livello mondiale dei gravi fatti di Ciudad Juárez, la città messicana divenuta dal 1993 teatro di innumerevoli sparizioni e uccisioni di donne, e dall’altro grazie alle lotte e alle proteste dei movimenti femministi, specialmente di quelli latino–americani, contro queste pratiche. I primi riferimenti ufficiali dei termini femmicidio/femminicidio si ritrovano all’interno della Risoluzione del Parlamento europeo (PE) dell’11 ottobre 2007 sugli assassinii di donne (femmicidi) in Messico e America Centrale e sul ruolo dell’Unione Europea nella lotta contro questo fenomeno, nonché nel Rapporto annuale sui diritti umani presentato dal PE nel 2010, in cui se ne ribadisce la condanna. Di femmicidio/femminicidio si discute poi nelle linee guida dell’Unione Europea sulla violenza contro le donne adottate dal Consiglio dell’UE nel 2008; nel giugno 2010 l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea, Catherine Ashton, esprimendo le proprie preoccupazioni sui femminicidi in America Latina, ha definito «tutte le forme di violenza di genere come aberranti crimini di femminicidio». E quindi spiega in dettaglio: “Il femmicidio, dall’inglese femicide, è un termine criminologico introdotto per la prima volta dalla criminologa femminista Diana H. Russell all’interno di un articolo del 1992 per indicare le uccisioni delle donne da parte degli uomini per il fatto di essere donna. Secondo quanto formulato da Diana Russell il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine. Forma estrema di violenza, il femmicidio trova pertanto il suo fondamento nella violenza misogina e sessista dell’uomo radicata nelle nostre società. Questo tipo di omicidio rappresenta un problema sociale che attiene alla dimensione dell’oppressione e della disuguaglianza tra uomini e donne, rilevando la complessa relazione tra la violenza e la discriminazione sessuale. Di fatto parlare oggi di femmicidio significa parlare di una questione legata alla nozione di genere, poiché si tratta di un omicidio diretto contro una donna in quanto tale» Poi Anzani passa a spiegare l’altro termine: «Diversamente, il termine femminicidio, dallo spagnolo feminicidio, racchiude un significato molto più complesso che supera la definizione ristretta di femmicidio, focalizzandosi soprattutto sugli aspetti sociologici della violenza e sulle implicazioni politico-sociali del fenomeno. Utilizzato nel 2004 dall’antropologa messicana Marcela Lagarde con lo scopo di attirare l’attenzione politica sulla drammatica situazione vissuta dalle donne in Messico, in particolare nella zona di Ciudad Juárez, il concetto di femminicidio è diventato oggetto di studio anche di altre attiviste dell’America Centrale come Julia Monárrez, Ana Carcedo e Monserrat Sagot, acquisendo ben presto una diffusione globale. Per Marcela Lagarde il femminicidio esprime la forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine, quali i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale, che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia … Il femminicidio, a differenza di quanto si possa comunemente ritenere, non si configura pertanto come un fatto isolato che accade all’improvviso, ma costituisce l’ultimo atto all’interno di un ciclo della violenza. In questo senso, il femminicidio individua una responsabilità sociale nel persistere, ancora oggi, di un modello socioculturale patriarcale, in cui la donna occupa una posizione di subordinazione, divenendo soggetto discriminabile, violabile, uccidibile. Sul piano dei comportamenti individuali, il femminicidio può essere visto come la massima espressione del potere e del controllo dell’uomo sulla donna, l’estremizzazione di condotte misogine e discriminatorie fondate sulla disuguaglianza di genere».
La violenza è dunque il punto specifico di ciò che è e intorno a cui ruota tutta la terribile situazione legata all’uccisione delle donne. Una violenza che si allarga spesso ai familiari, a chi sta ed è stato vicino alle vittime. Gino Cecchettin ricorda nel libro il momento iniziale (ma non è, secondo noi ancora finito) dell’accanimento sui social e non solo contro la partecipazione attiva, e non remissiva, della sorella Elena e del padre Gino che hanno scelto di guardare al proprio dolore puntando al futuro di una ricerca della fine di questo male. «Come era possibile in situazioni così dolorose attaccare le vittime? — si chiede Gino Cecchettin — Ma stava accadendo. Evidentemente, per quanto riguardava me, il sospetto che dopo la morte di una moglie e l’omicidio di una figlia trovassi le energie per dire ciò che penso invece che chiudermi senza reagire in camera mia schiacciato dal dolore. Mi sono interrogato su questo — riflette Cecchettin — mi sono chiesto come mai per alcuni sia più rassicurante l’immagine dell’uomo devastato che si piange addosso senza far nulla. È qualcosa che ha a che fare con la cultura e il mondo da dove veniamo, credo. Perché questi comportamenti passivi sarebbero più tollerabili? È un retaggio della cultura che abbiamo ereditato. Quella della pena e della persona sconfitta. Che, a guardar bene, è più innocua. Ma tu in questi giorni sei diventata un simbolo pubblico. Sei la mia Giulia. Ma non sei più solo questo».
Bisogna dunque fare rumore, tanto rumore. Non solo quello nelle piazze, bellissimo, con lo sbattere, in alto, delle chiavi, «per parlare ad altri genitori e alla generazione dei figli». È nel libro espressa la necessità, il dovere di agire, di guardare al futuro per educare e insegnare a educare. Per i genitori a fare in modo che si viva intensamente la vita con i figli e le figlie. Questo ci insegna il libro triste, ma per tanti versi sereno.
Giulia Cecchettin è stata un simbolo e una speranza che, con quel rumore creato da tantissime persone in moltissimi luoghi italiani, si riuscisse a fermare questa triste mattanza, a chiudere la conta di quei numeri terribili che nel libro si evidenziano all’inizio del quinto capitolo, a pagina 39: «Secondo i dati delle Nazioni Unite i femminicidi nel mondo nel 2022 sono stati 89.000. Questo significa 7416 al mese, 243 al giorno, quindici all’ora, cioè quasi uno ogni cinque minuti.» Vale a dire che nel tempo di lettura di qualche pagina del libro, come dice l’autore, o durante una delle azioni più svelte che facciamo in casa o al lavoro, in questo brevissimo lasso di tempo in cui siamo usi dividere l’orologio, muoiono uccise dalla mano di un uomo, di un maschio che ci ha detto di…amarci…, ben sedici donne, «donne deliberatamente uccise», come afferma Gino Cecchettin!
Un’altra donna, Ilaria Salis, è stata portata di nuovo in Tribunale, a Budapest, in catene. Nulla è cambiato, nonostante gli appelli autorevoli (tra questi quello dell’attivista egiziano Zaki). Tutto è orribile come qualche mese fa quando la storia, davvero poco chiara, di Ilaria Salis è stata palesata a noi e al mondo. Ma stavolta le catene, i ceppi alle caviglie e alle mani non sono state l’unico aspetto di questa udienza. Innanzitutto, le sono stati, inspiegabilmente, negati gli arresti domiciliari che soprattutto la famiglia sperava di ottenere: «perché giudicata ancora pericolosa e con il rischio di fuga» (!). Ma a ciò si sono aggiunte brutte minacce neonaziste rivolte all’interprete, all’avvocato e al gruppo di amici, fra cui Zerocalcare. «Vi spacchiamo la testa», che dette in un Tribunale di un Paese democratico sarebbero passibili di condanna. Ci sorprende dopo tutto ciò la risposta del ministro degli Esteri Tajani che ha detto: «Non politicizziamo il caso». Cosa significa? Ma, soprattutto, a che porta? Ci appare sempre uno stimolo a una campagna di odio che non fa bene in questo tempo pieno di gravi timori internazionali.
Un canto, una canzone si addice alla Pasqua. Abbiamo intitolato questo nostro editoriale con il titolo di una canzone di Francesco Guccini. Pensavamo, sempre del Maestro di Pavana, anche ad Auschwitz per il carico di reminiscenze che ci sono rispetto ai tempi, ai rimandi di sofferenze e alla speranza di resurrezione. Ma Dio è morto mi sembrava ancora più adatta, consona alle incertezze attuali dei giovani, proprio per la speranza di nuova vita e per la comprensione «di questa mia generazione preparata a un mondo nuovo e a una speranza appena nata». Una generazione, la sua (era 1965), la nostra, ma ne sono sicura, anche quella attuale, dei e delle giovani di oggi che lottano “senza armi”, per un pianeta più pulito e vivo.
Dio è morto — Francesco Guccini
Ho visto
La gente della mia età andare via
Lungo le strade che non portano mai a niente
Cercare il sogno che conduce alla pazzia
Nella ricerca di qualcosa che non trovano
Nel mondo che hanno già
Dentro le notti che dal vino son bagnate
Dentro le stanze da pastiglie trasformate
Dentro le nuvole di fumo
Nel mondo fatto di città
Essere contro od ingoiare
La nostra stanca civiltà
È un Dio che è morto
Ai bordi delle strade, Dio è morto
Nelle auto prese a rate, Dio è morto
Nei miti dell’estate, Dio è morto
M’han detto
Che questa mia generazione ormai non crede
in ciò che spesso han mascherato con la fede
Nei miti eterni della patria e dell’eroe
Perché è venuto ormai il momento di negare
Tutto ciò che è falsità
Le fedi fatti di abitudini e paura
Una politica che è solo far carriera
Il perbenismo interessato
La dignità fatta di vuoto
L’ipocrisia di chi sta sempre
Con la ragione e mai col torto
È un Dio che è morto
Nei campi di sterminio, Dio è morto
Coi miti della razza, Dio è morto
Con gli odi di partito, Dio è morto
Ma penso
Che questa mia generazione è preparata
A un mondo nuovo e a una speranza appena nata,
Ad un futuro che ha già in mano,
A una rivolta senza armi,
Perché noi tutti ormai sappiamo
Che se Dio muore è per tre giorni
E poi risorge,
In ciò che noi crediamo Dio è risorto,
In ciò che noi vogliamo Dio è risorto,
Nel mondo che faremo Dio è risorto.
Buona “resurrezione” delle idee e della speranza a tutte e a tutti.
«Disobbedire è la necessità per stare al mondo libera. Disobbedienza nel senso di imporre il proprio vissuto, la propria autodeterminazione, la propria libertà». Con queste parole di Pina Mandolfo, autrice del libro Lo scandalo della felicità. Storia della principessa Valdina di Palermo, intervistata in occasione della recensione al suo libro, apriamo la rassegna degli articoli di questo numero, in cui scopriremo tante donne disubbidienti. In Un Memorial per l’intitolazione a Giovanna Boccalini sarà la volta delle sorelle Boccalini, che nel 1933 fondarono la prima squadra di calcio femminile italiana riconosciuta dal Coni, il Gruppo femminile calcistico – Gfc, insieme ad altre calciatrici milanesi. Disubbidiente nel vestire ma soprattutto nella scelta di seguire studi matematici, all’epoca fortemente sconsigliati alle donne, fu anche Emmy Noether e il suo teorema, la poesia delle idee logiche. Ma si può disobbedire anche al pensiero unico patriarcale che ha costruito una mobilità tutta al maschile nelle nostre città. Ce lo racconta l’autrice di Donne e mezzi pubblici o perseguendo il sogno di Maria Rosa Coccia, la prima Maestra di Cappella. Una scelta di disubbidienza al pensare comune è anche viaggiare da sole in Paesi lontani. Per la nostra serie “Altra verso” ce ne parla l’autrice di Nei Balcani con Mary Edith Durham. E che cos’è se non disubbidienza virtuosa la giustizia trasformativa raccontata in La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere?
Si potrebbe disubbidire anche alla volontà di guerra, se solo il pacifismo internazionale femminile fosse maggiormente conosciuto e divulgato, soprattutto adesso che dell’inutilità della carneficina di questi ultimi due anni e soprattutto dell’arma spuntata delle sanzioni cominciano ad accorgersi anche i bellicisti della prima ora. Ne parliamo in Economia di guerra ed effetti boomerang sui cobelligeranti.
Per la nostra serie “Flash-back” leggeremo La gabbia, un racconto che in qualche modo parla di una disubbidienza mancata.
Cambiamo argomento e facciamo la conoscenza, nella nostra serie “Grandi assenti”, di Mela Koehler, illustratrice di cartoline, ma non solo.
Nella sezione Salute consigliamo la lettura di Tai-chi, perché no?, un invito alla morbidezza e alla fluidità dei movimenti, con benefici effetti per il nostro equilibrio .
Un piacere per lo sguardo e per lo spirito è anche andar per mostre, come ci racconta l’autrice di Una mostra fotografica celebra il lavoro femminile, fra passato e presente.
Nella Sezione “Juvenilia”, in attesa della premiazione del nostro XI Concorso, troviamo gli ultimi due lavori premiati nella edizione scorsa, descritti in Libri di testo, storie di grandi donne e intitolazioni per ricordarle.
Chiudiamo come sempre con la nostra ricetta vegana, presentando Polpette (kofta) di lenticchie, un piatto versatile e gustoso, augurando a tutte e tutti di consumare, in queste feste pasquali, cibi sani e sostenibili, con moderazione.
SM
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.
