Per quanto possa sembrare anacronistico è in corso una rumorosa crociata che scatena una fobia collettiva: ha l’obiettivo di segnalare la pericolosità dell’“educazione al gender” (espressione che da un decennio si diffonde in modo virale nel campo mediatico e politico).
Un’ombra minacciosa agitata anche da pulpiti autorevoli la rende tema ineludibile per chiunque lavori in ambito didattico. Sarebbe bene che se ne discutesse con cognizione di causa anche
nei media.
La scuola è diventata il bersaglio preferito della propaganda dei movimenti cattolici fondamentalisti collegati con gruppi dell’estrema destra (gli stessi che si mobilitano per il Family Day). Cercano di spaventare e confondere genitori spesso ignari, di intimidire docenti e dirigenti della scuola, di bloccare iniziative di formazione e di informazione.
È infatti nelle aule di Satana (sic) che, secondo i nuovi crociati, la potentissima lobby gender starebbe cercando di inculcare nelle menti delle giovani generazioni la temibile “ideologia gender” (o teoria gender, o genderismo, o dittatura gender, a piacere).
Il fenomeno non è solo italiano ma riguarda un numero crescente di nazioni, dalla Francia alla Germania, dalla Polonia alla Russia, dalla Colombia al Brasile, dal Messico all’Uruguay. Sono attraversate da dibattiti che riguardano da un lato la questione delle discriminazioni subite dalle persone omosessuali e l’opportunità di prevedere riforme giuridiche che contribuiscano a ridurre tali discriminazioni; dall’altro le questioni degli stereotipi sessisti e della violenza di genere e di come la scuola pubblica possa non solo non riprodurli, ma promuovere in contrasto le pari opportunità.
Le organizzazioni “antigender” stanno crescendo. Alcune sono state create di recente, altre sono attive sin dagli anni ’90. Ciò che hanno in comune è un programma reazionario e slogan costruiti intorno a parole/ombrello, eccessi verbali usati come clave e specchi deformanti a delineare un nemico spaventoso. Questa colla simbolica federa un vasto e diversificato fronte di conservatori dell’ordine sessuale etero normativo: alcuni sono nazionalisti e apertamente suprematisti, omofobi e razzisti, altri si concentrano solo sulla necessità di difendere la famiglia tradizionale.
Intorno a che cosa si coagula tanta ostilità? Come ha cercato di spiegare l’ordine degli psicologi, come hanno scritto l’associazione delle sociologhe e quella delle storiche italiane, la cosiddetta ideologia del gender è stata costruita dalle stesse persone che la criticano. L’uso polemico dei termini ‘teoria’ e ‘ideologia’, con l’etichettamento che ne consegue, mira a destituire un campo di studi dalla sua legittimità e ad occultarne la storia intellettuale e sociale. È l’espediente retorico conosciuto col nome di argomento fantoccio: si confuta un interlocutore proponendone una visione fallace o distorta.
Si sono propagate informazioni erronee, si è insinuato che nelle scuole i bambini si trovino ad adottare e ad acquisire pratiche masturbatorie, a conoscere e a usare metodi contraccettivi e ad avere rapporti sessuali precoci, a essere influenzati nel proprio orientamento sessuale, a voler cambiare genere.
Gender è la parola inglese per “genere”, inteso come genere sessuale. Da decenni la parola è associata non a un’ideologia ma ai Gender Studies, quelli che in Italia si chiamano studi di genere e mirano a individuare i dispositivi sociali attraverso cui a ogni genere sono stati e sono attribuiti compiti, ruoli e destini differenziati, storicamente costruiti e
solidamente naturalizzati.
«Gli studi di genere non intendono affermare che maschi e femmine non esistono o non sono differenti, ma che il sesso non è il genere. Cioè il sesso è un dato con cui si viene al mondo ma il genere è il valore, il colore, il ruolo, il significato, il carattere, i limiti e le aspettative che io attribuisco al sesso». Non sono parole di un’eretica ma della monaca benedettina e docente di teologia Benedetta Zorzi.
Questo vasto campo del sapere non ha dato vita a una teoria unificata (anzi spesso vive una vivace dialettica) ma a una costellazione di ricerche, strumenti concettuali e modelli scientifici in molti campi disciplinari, dalla medicina alla storia, alla psicologia, all’economia, alla giurisprudenza, alle scienze sociali e a quelle letterarie e linguistiche; sono ormai diffusi nelle università di tutti i Paesi sviluppati e hanno prodotto ricche bibliografie che suppliscono a silenzi millenari.
Difficile raccoglierle in poche battute.
Nei dipartimenti di sociologia si controllano i differenziali retributivi, le opportunità di carriera, i carichi di lavoro degli uomini e delle donne. Le politologhe studiano la presenza femminile nelle assemblee elettive. Le letterate decostruiscono il luogo comune dell’assenza delle scrittrici dalla letteratura, rileggono il canone e recuperano nomi di donne dimenticate. Le filosofe indicano la genesi delle norme sociali che indicavano nella donna un essere inferiore, incapace di doti di intelligenza e di gestire responsabilità che andassero oltre la cura della famiglia e della casa. Le psicologhe si concentrano sul bullismo e sui comportamenti violenti nei confronti di tutte e di tutti coloro che non coincidono esattamente con l’immagine che comunemente ci si fa dell’essere una ragazza o una donna o dell’essere un ragazzo o un uomo.
Nel dipartimento di medicina dell’Imperial college a Londra c’è chi si occupa di come cambiano gli effetti dei farmaci a seconda del genere del paziente. Nella divisione di cardiologia della John Hopkins school of medicine c’è chi evidenzia il fatto che la manifestazione di problemi cardiovascolari nelle donne non è stata accuratamente studiata, nell’errata assunzione generale che nel corpo femminile e in quello maschile l’insorgenza di un arresto cardiaco abbia gli stessi sintomi.
Le evidenze raggiunte mostrano il peso degli stereotipi nelle relazioni tra i generi, parlano della loro trasmissione attraverso l’educazione, il linguaggio, i mass media. Sostengono che la scuola è luogo essenziale per la formazione di identità e orientamenti che, senza negare le differenze genetiche e biologiche, le privino della carica di violenza e delle discriminazioni che hanno accompagnato storicamente le relazioni tra
uomini e donne.
La maggior parte dei Paesi europei tiene conto di queste acquisizioni nel curriculum scolastico. Il modo e il grado in cui viene inclusa tale prospettiva varia però da un Paese all’altro e dipende dalle decisioni prese dal mondo politico, dalle singole scuole e dagli insegnanti stessi.
L’Italia è stata rimproverata dal Comitato di monitoraggio dell’Onu, che ha espresso preoccupazione per l’inadeguatezza degli sforzi compiuti per combattere gli stereotipi attraverso l’istruzione e ritiene essenziale che i libri di testo e i materiali formativi vengano esaminati e revisionati, con l’obiettivo di presentare il ruolo delle donne e degli uomini in maniera non stereotipata.
Quando facciamo percorso critico sugli stereotipi di genere nella scuola non stiamo attuando chissà quali stravolgimenti: stiamo solo rendendo percettibili le regole invisibili che condizionano ognuno e ognuna di noi. Stiamo cercando di preparare ai nostri figli e alle nostre figlie un mondo più giusto, di porre le basi di una società più civile.
***
Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.
