La figura di Elettra è stata utilizzata dalla psicanalisi per descrivere il sentimento che la figlia femmina prova per il padre, fino a dare il suo nome a un “complesso” parallelo a quello, più noto, associato al mito di Edipo. Ma a noi qui interessa piuttosto cercare di indagare la sua relazione con la madre e, insieme, quella con il femminile e col maschile in generale.
A parte quelle perdute di cui conosciamo solo il nome, sono tre le tragedie rimasteci che riservano a Elettra un ruolo centrale, anche se solo due di esse sono intitolate a lei: quelle di Sofocle e di Euripide, di datazione incerta, ma molto più recenti rispetto a quella di Eschilo, intitolata Coefore.
Seconda tragedia della trilogia nota come Orestea, rappresentata e premiata nel 458 a. C., le Coefore vedono in Elettra la protagonista assoluta solo della prima parte. Il nome Coefore — portatrici di libagioni — si riferisce al coro di schiave che, per ordine di Clitennestra, accompagnano Elettra a fare un sacrificio sulla tomba di Agamennone. Morto il padre, la ragazza sa di essere senza protezione e priva di ogni prospettiva di felicità: è costretta a convivere con gli assassini di lui, la madre e il suo nuovo sposo, Egisto, che regnano su Argo e che la temono, perché sanno che da lei potrebbe nascere un futuro vendicatore. La sua condizione, umiliante per una principessa di sangue reale, suscita la solidarietà di quelle schiave, una volta nobili troiane, che trascinate in Grecia come bottino di guerra, hanno più di un motivo di rancore o di odio nei confronti della regina e del suo secondo marito.
Elettra vive della speranza che un giorno, a vendicare il padre, giunga Oreste, unico figlio maschio di Agamennone, allontanato da Argo per salvarlo dai potenziali nemici. Il suo desiderio si compie: accompagnato dal fedele compagno Pilade, Oreste torna sotto mentite spoglie, obbedendo agli ordini del dio Apollo e, per garantirsi buona accoglienza, porta la falsa notizia della sua stessa morte. Poco prima un sogno spaventoso, ma di difficile interpretazione, ha messo in allarme Clitennestra che, per placare l’ombra del marito ucciso, invia offerte rituali da versare sulla sua tomba, dove già qualcuno ha deposto una ciocca di capelli. Alla fine il figlio di Agamennone, pur dilaniato dai dubbi, non verrà meno al suo compito e commetterà il duplice assassinio, rassegnato a subirne le conseguenze. Dopo aver riabbracciato la sorella per pochi istanti e rivisto la sua città, dovrà allontanarsene di nuovo.
Questo il nucleo narrativo del mito, comune alle tre tragedie che, per il resto, introducono nella trama varianti di peso diverso; a partire dall’identità e dalle motivazioni della persona che ha allontanato Oreste bambino: la madre stessa, la sorella, la nutrice, il pedagogo.
Diversi, soprattutto, nel carattere e negli atteggiamenti, i personaggi principali, la composizione del coro, i miti che vengono scelti a commento delle vicende che si svolgono sulla scena. Era a queste varianti che il poeta affidava il suo messaggio, la sua visione del mondo, contando sulla capacità degli spettatori di riconoscerle e
coglierne il senso.
Elettra, dunque, è figlia di Clitennestra, la donna “dal cuore maschio” che Eschilo ci ha fatto conoscere nell’Agamennone. La ragazza sembra disposta a perdonare al padre, pur avendone orrore, il sacrificio della sorella Ifigenia, ma non riesce ad assolvere la madre per aver inflitto al marito una morte indegna di un valoroso e per aver aggiunto alla colpa dell’assassinio quella dell’adulterio. Tanto più che l’uomo che, grazie a lei, ora siede sul trono di Agamennone, non solo è l’erede della stirpe di Tieste, nemica di quella di Atreo, ma soprattutto è “una femmina”, dunque è indegna di prendere il posto
di un eroe.
L’Elettra di Eschilo non condivide in nessun modo la confusione di ruoli tra uomo e donna. Tanto è vero che non pensa neppure per un attimo di poter compiere la vendetta di sua mano e, una volta accolto e riconosciuto Oreste, esce di scena, limitandosi ad attendere l’esito degli eventi. Sarà piuttosto la nutrice di Oreste, Cilissa — figura di madre “buona” che si contrappone alla madre “cattiva”, invenzione originale di Eschilo — che darà una mano al giovane: l’anziana donna, seguendo il consiglio delle schiave troiane, ansiose di veder vendicata la morte di Cassandra, la figlia di Priamo loro compagna di sventura, fa in maniera che Egisto cada in trappola e si trovi disarmato e solo alla mercé di Oreste.
Insomma, dopo il capovolgimento messo in atto da Clitennestra, le donne riprendono il loro posto: capaci di tessere trame, ma non di agire, lasciano che sia l’eroe, inevitabilmente maschio, a compiere il gesto definitivo, a riprendersi il potere sulla vita e sulla morte.
Significativa e illuminante, a questo proposito, la brevissima scena in cui Clitennestra, che al cospetto del marito aveva mantenuto la calma, l’autorevolezza, l’arte dialogica e la razionalità necessarie per portare a termine il suo piano, davanti alla notizia della morte del figlio, di cui pure ha temuto il ritorno, cede al turbamento ed è come accecata dall’emozione. Subito dopo, quando capisce di trovarsi davanti a lui in persona, torna a essere donna e madre: si aggrappa all’offerta del seno, a quella capacità di nutrire e dare la vita che è la potenza delle donne: «Fermati, figlio! Rispetta questo seno, non osare toccarlo! su di esso ti sei addormentato tante volte… e con le labbra succhiavi il latte dolce, che ti faceva crescere», Eschilo, Coefore, 896-898.
È questo l’unico momento della tragedia in cui Oreste si riferisce a lei come “madre” — ha usato tante diverse metafore, senza mai pronunciare quella parola e neppure il nome di Clitennestra – ed esita. Si rivolge a Pilade, il suo doppio, sempre presente ma finora silenzioso, e gli chiede consiglio: «Pilade, che cosa devo fare? non avrò vergogna di ucciderla, mia madre?», Ivi, 899. La conferma recisa, in nome del volere del dio, elimina ogni dubbio.
Il dio è Apollo, il dio della luce, della bellezza, della razionalità. Un dio maschio dalla punta dei capelli a quella dei piedi, che insegue la ninfa Dafne, rea di volersi sottrarre alle sue voglie, che uccide implacabilmente i figli di Latona, colpevole di essersi vantata della sua maternità. Il dio che si erge imperturbabile al centro del frontone del tempio di Zeus a Olimpia, ad affermare la vittoria della ragione sulla passione.
Come vedremo nelle Eumenidi, sarà Apollo a portare in salvo Oreste, dilaniato dai rimorsi e inseguito dalle Erinni, divinità antichissime che nascono dal sangue di chi è stato ucciso e perseguitano l’assassino fino al momento in cui possano abbeverarsi al suo stesso sangue. Sarà Apollo a giustificare il matricidio, servendosi degli strumenti del logos, e a sancire il tramonto della potenza della madre, colei che dà la vita e che nutre; sancendo contemporaneamente la definitiva vittoria della legge del padre, colui che non rinuncia a dare la morte, ma prima fissa le regole.
Non a caso i versi centrali delle Coefore ricordano i miti che vedono in azione femmine mostruose, che non si lasciano imbrigliare dai legami familiari: come Altea, madre di Meleagro, non esita a mettere sul fuoco che lo consumerà il ceppo cui è legata la durata della sua vita; come Scilla che, strappando al padre Niso il suo capello d’oro, lo condanna a morte; come le donne di Lemno che uccidono tutti i maschi, provocando l’estinzione di un’intera progenie. Tra queste donne trova perfettamente posto Clitennestra, assassina del marito.
Nella tragedia di Sofocle, Elettra ha il ruolo più importante, a partire dall’antefatto: è stata lei a salvare Oreste, consegnandolo a un servo fedele che l’ha portato via da Argo. Paradossalmente, è questa l’Elettra che sembra aver ereditato il cuore maschio della Clitennestra di Eschilo: stanca di attendere il ritorno del fratello di cui non ha più notizie, si prepara a compiere la vendetta con le sue mani. A questo fine cerca la complicità della sorella Crisotemi — ignorata dagli altri autori — che invano le consiglia di cedere al destino: ne prenda atto, le donne non sono nate per le azioni gloriose. Al pari di Antigone, la sua eroina più famosa, anche l’Elettra di Sofocle, è certa di essere nel giusto e disprezza chi, come la sorella, accetta la sorte senza combattere. Non retrocede di un millimetro quando quella le rivela il progetto crudele che Egisto ha in serbo per lei; e andrebbe impavida incontro al martirio pur di vendicare il padre, se non comparisse, ormai insperato, il fratello tanto atteso. Davanti a lui Elettra accetta, tuttavia, immediatamente, di rimanere in secondo piano; anche se è lei a suggerirgli la strategia che gli assicuri la vittoria. Costretta, con rammarico, a restare all’esterno del palazzo dove si svolge l’azione, ne segue con ansia le fasi, interpretando rumori e respiri: quando la madre chiede pietà, esorta il fratello a uccidere due volte.
Quanto a Clitennestra, Sofocle ci regala alcuni versi indimenticabili: ricevendo la falsa notizia della morte di Oreste, che pure la libera dal terrore della vendetta, la madre resta attonita: «O Zeus, che cosa significa questo? Cosa devo dire? È un evento felice oppure orrendo, anche se ne traggo guadagno? Che sofferenza sapere che devi la salvezza a ciò che per te è sventura!». E, a colui che le ha portato il messaggio ed è stupito della sua reazione, confessa: «Che cosa grandiosa e misteriosa è mettere al mondo: non riesci a odiare colui che hai partorito, neppure se ti fa del male», Sofocle, Elettra, vv. 766–771.
Negli ultimi versi della tragedia, in cui Clitennestra chiede al figlio di avere pietà per chi l’ha partorito, ed Elettra le rinfaccia di non aver avuto pietà per chi quel figlio l’ha generato, Sofocle riprende l’opposizione — che trova la sua prima teorizzazione nelle Eumenidi — tra mettere al mondo, la funzione della madre, e generare, la funzione del padre. A conferma che, dopo più di quarant’anni dall’Orestea, il dibattito sui rispettivi ruoli di donne e uomini e soprattutto sul contributo che ciascuno dei due sessi dà a tenere in piedi il mondo, è più che mai attuale.
Del resto, anche nell’Elettra di Euripide, come vedremo, a dispetto del fatto che tutti i protagonisti, non più eroi, ma persone comuni, siano spogliati di ogni carattere di eccezionalità, resterà centrale il tema della maternità e della dimensione tragica che ne costituisce il nucleo.
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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.
