Negli anni Cinquanta del secolo scorso, a Milano, un matrimonio come quello dei miei genitori fu un avvenimento abbastanza eccezionale, sia per la famiglia dello sposo Alberto che della sposa Marisa. Alberto, pur essendo nato a Trieste, era figlio di una napoletana verace dal cognome spagnoleggiante, Barreca e di un barone calabrese di Nicastro. Per il matrimonio del primo dei due figli maschi i miei nonni avevano già architettato progetti con la famiglia di una ragazza benestante del Sud: si erano visti con i futuri suoceri di mio padre e tutto sembrava stabilito. Per fortuna Alberto era un ribelle e non aveva alcuna intenzione di assecondarli.
Marisa, prima di quattro, era figlia di un falegname e di una casalinga, un’ottima rammendatrice, una Stellina, orfana di padre e di madre quando era ancora piccolissima e perciò cresciuta in collegio, dalla salute piuttosto gracile. Aveva un occhio di vetro, eredità di un brutto tumore, un prodigio della medicina svizzera, di cui non mi accorsi se non quando le mancava poco a lasciare questa vita.
Marisa, bravissima a scuola, sempre con l’esonero dal pagamento delle tasse (conservo gelosamente le sue pagelle, documenti storici dell’era fascista), a 14 anni sentì il dovere di contribuire al bilancio familiare e andò a lavorare nell’azienda in cui conobbe l’aitante Alberto dagli occhi verdi, che spesso le sbarrava la strada quando la vedeva comparire nel suo ufficio e la chiamava “la ragazza semaforo”, perché arrossiva sempre. Era talmente innamorata che quando lui cambiò lavoro, dall’altro capo di Milano, Marisa si licenziò per trovare un posto vicino alla sua azienda. Allora cambiare occupazione era molto facile: lo sviluppo era ad alta intensità di lavoro, diversamente da quanto accade oggi.
Quando si sposarono c’ero anch’io, nella pancia della mamma. Potete immaginarvi lo scandalo e le difficoltà che dovettero attraversare i due innamorati. Ad Alberto, che secondo la mamma era il sosia di Gregory Peck, fu consigliato di prendere il treno per Napoli e non farsi più vedere; il nonno materno, di origini emiliane, che oggi potrebbe essere un leghista, disse a mia madre: «Ho cresciuto quattro figli, ne crescerò anche un quinto». Chissà perché poi certamente maschio, dico io. «Non sposare quel terrone, che ti chiuderà in casa per gelosia e non ti lascerà più uscire». Per mia fortuna i miei genitori tennero duro ma le foto del matrimonio, quando le sfoglio, sembrano più quelle di un funerale.
Io nacqui proprio il primo aprile, a scherzo finito. Però era la domenica di Pasqua e a posteriori ne sono felicissima, perché ho imparato che la Pasqua è rinascita ed è per rinascere che siamo nati, come scrisse Neruda. I consuoceri non si capivano: in casa della mamma parlavano il dialetto milanese e in casa del papà il napoletano. I pranzi erano piuttosto problematici, ma per fortuna c’erano i bambini a rallegrare. Non capivo perché Marisa avesse due mamme, la sua e la nonna paterna di cui porto il nome, Sara, che, appena dopo il matrimonio le disse: «Adesso sei parte di questa famiglia, chiamami mamma», mentre Alberto ne aveva una sola di mamma ed era la stessa di Marisa. Non capivo nemmeno perché i primi anni di matrimonio non si doveva dire al papà e ai nonni paterni quando andavamo con la mamma a trovare i nonni materni, ma l’idea di avere un segreto con Marisa mi elettrizzava e tenni sempre la bocca chiusa, come fece il mio fratellino, che arrivò poco dopo il mio sbarco sulla Terra, quasi un gemello. Ricordo anche che per il vaccino dell’antipolio Marisa ci portò in gran segreto, in una mattina di sole, in un ambulatorio di Milano. Quella volta non riuscimmo a tenere il segreto. Al mio fratellino il vaccino non fece nulla, io ebbi una febbre talmente forte che la mamma dovette dirlo a papà, che era un po’ contrario, all’epoca, ma poi per fortuna cambiò idea. Poi le tensioni si appianarono, doveva essere successo qualcosa che allora non capivo e fummo tutti più distesi, soprattutto quando ci trasferimmo in un paese della Bassa milanese, che divenne ben presto città, e dove Marisa letteralmente smise di ammalarsi spesso e scoprì la propria dimensione. Per questo ancora adesso ama Melegnano, in cui ha trovato lavoro dopo una lunga malattia paterna ed è stata tanto valorizzata. Anche se appena ci trasferimmo, mi capitò di leggere più di una volta cartelli con su scritto: «Non si affitta ai meridionali» e la parola “terrone” mi ha sempre dato grande fastidio, un po’ come il dialetto milanese, a cui preferivo, grazie alla frequentazione della nonna Sara, la parlata e i detti napoletani.
Lo zio più giovane, il fratello della mia mamma, una volta cresciuta mi ha spesso detto che ero stata una bambina molto stimolata. Non ho mai capito bene a che cosa si riferisse, forse al fatto che avevo le antenne molto sviluppate, ma di una cosa sono grata al matrimonio misto dei miei genitori: oggi guardo Mare fuori senza sottotitoli, diversamente dall’uomo che amo e che si definisce “un lombardo pentito”, completamente conquistato dai piatti delle cucine napoletana ed emiliana, che ho fatto miei, guardando cucinare la mia nonna omonima e la mamma, che aveva dovuto naturalmente dimenticare la cucina milanese e imparare quella della “seconda mamma”. Adoro Arbore e le canzoni napoletane, spesso cantate mentre papà Alberto strimpellava la chitarra (dimenticavo di dirvi che la nostra era proprio una casa musicale) e conosco e apprezzo le commedie di quel genio che fu Eduardo De Filippo.
Non sono sempre state rose e fiori nella nostra famiglia, ma vivere con quei due pionieri coraggiosi credo mi abbia fatto bene. Un’educazione al confronto, a volte acceso, non sempre sereno, tra culture e abitudini diverse. Oggi poi in tanti si sposano quando è già in arrivo o già arrivata una piccola creatura e loro due, i miei genitori, hanno precorso i tempi. Inoltre il bel ragazzo napoletano di Trieste, che tutti scambiavano per toscano, ha avuto un gran merito, di cui gli sarò sempre grata: a dispetto dei luoghi comuni imperanti, aveva scelto di far studiare la figlia e non il maschio, che per andare all’Università dovette lottare (oggi è un bravo architetto). Sarò sempre grata ad Alberto per avere visto in me quella curiosità e quell’amore per la conoscenza che non mi hanno mai abbandonata e che ho potuto coltivare grazie a lui. Marisa, saggiamente, spingeva per la mia indipendenza economica anche a costo di studiare un po’ meno. Ma Alberto, a conti fatti, aveva capito tutto.
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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

carissima amica…mista o meticcia! Non le sapevo tante cose e non le sapevo raccontate così con brio! l’ho consigliato e lo consiglio. Un po di malinconia : che sei troppo lontana…per farci almeno una volta a settimana una chiacchierata con un bicchiere di vino davanti. Meticciamo
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Grazie Giusi delle tue parole! Davvero dovremmo trovarci a dagustare del buon vino e a immaginare un mondo meticcio. Papà Alberto usava la parola “razza” che a me piaceva poco ma il senso delle sue parole era chiaro: le razze che si mischiano migliorano le generazioni. E questo lo penso da sempre.
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