Mia sorella e il Divin Codino

Luglio ’94. Caro diario…Mi sarebbe piaciuto avere il coraggio di scrivere le mie riflessioni allora, raccontare emozioni e avventure di un bambino che iniziava a esplorare il mondo: è proprio durante la stagione calda che si moltiplicano le opportunità di sperimentare, fare esperienze nuove, conoscere e conoscersi. Come per diverse estati, anche quell’anno partii con la mia famiglia verso Rodi Garganico per trascorrere quindici giorni in una villetta sul mare, condivisa con altri parenti: niente più scuola, compiti, Tv o soliti giochi. Le giornate a sette anni sanno essere brevissime, specie se riempite di mare, giochi avventurosi, cibo e ancora e sempre mare. Anche perché i “soliti giochi” per me, con una sorella più grande, molto spesso, erano quelli decisi da lei: dopo essere stato un prototipo di bambolotto umano nei primissimi anni d’età, nel mio nuovo mondo di bambino avevo già imparato i ruoli di alunno di una maestra appena decenne, con tanto di libri scientifici (veri!) da leggere, venditore/cliente di bancarelle improvvisate, giocatore di dama/carte ma, soprattutto, di Francesca, la Barbie meno interessante per mia sorella.
Ricordo bene il suo (mio) ruolo: donna delle pulizie delle più nobili Barbie nuove e di Ken, rigorosamente gestito dalla mano femminile di mia sorella e a me vietato. E io ci passavo i pomeriggi così, apparentemente sotto l’egemonia furba della sorella maggiore ma in realtà con il piacere di avere sempre qualcuno/a con cui condividere il tempo: a quell’età poco importa se il gioco è “da femmina” o “da maschi”, come da etichetta rigida negli anni Novanta: il bello è stare insieme. Ma, tornando al nostro racconto: d’estate, in vacanza, le Barbie non c’erano e si poteva stare fuori a fare giochi più disparati e anche, soprattutto, a dare calci a un pallone! D’altronde, era il mese dei Mondiali di calcio americani, i primi fuori dai Paesi tradizionalmente a “vocazione calcistica”, quelli del ritorno (e della nuova squalifica) di Maradona, delle speranze italiane aggrappate al “Pallone d’oro” in carica Roberto Baggio, dopo la delusione delle notti magi che di Italia ’90, e delle partite giocate in orari climaticamente devastanti per gli atleti, apposta per favorire le dirette in Europa, ancora centro assoluto di quel mondo sportivo. Così mio padre trasformava l’ombrellone in un’antenna improvvisata di un televisore 20 pollici in bianco e nero (con la relativa difficoltà a capire «ma noi quali siamo!?»), e il cortile diventava la curva di uno stadio che, come solo i mondiali sanno fare, condivideva un rito collettivo, che coinvolgeva anche chi continuava ancora a ignorare cosa fosse un fuori gioco.
Le complicate fortune della nostra nazionale si alternavano alle partite disputate i pomeriggi nel cortile con il mitico Super Santos. Le squadre erano fisse: mia sorella e il cugino, suo coetaneo, da una parte e dall’altra me e mia cugina, secondogenita anche lei. Come spesso accade, a decidere prima la squadra da interpretare era la primogenita: puntualmente, mio cugino diventava Gianluca Pagliuca, portiere, e lei, mia sorella, Roberto Baggio, fantasista. A noi minori rimaneva il resto del mondo, con una predilezione speciale per i fenomeni brasiliani (o almeno a noi parevano tali), Romario e Bebeto. Ci affezionammo così tanto da iniziare a seguire anche le vicende della Seleção verdeoro, vincitrice di quel girone che, con i suoi risultati, regalò all’Italia la possibilità di accedere alla fase a eliminazione come migliore terza. E furono proprio i due attaccanti a trascinare il Brasile in finale, proprio come Baggio fece con l’Italia. Quella partita, giocata mille volte da noi in quel cortile, stava per andare in scena nel palcoscenico a cui guardava tutto il mondo. Il Paese tutto si fermò, anche l’estate garganica, sognando un riscatto agognato da quattro anni. Come è andata a finire è storia del calcio italiano, e non solo, con la prima finale mondiale decisa ai calci di rigore e il Divin Codino che arriva malconcio a tirare il primo dei possibili tre rigori decisivi (per dovere di cronaca): «Alto, il campionato del mondo finisce, lo vince il Brasile». Riecheggerà per anni questa frase con la voce di Bruno Pizzul nell’animo del popolo azzurro e tormenterà uno dei migliori calciatori che questo Paese abbia mai avuto per sempre, dando pane per i denti ai suoi detrattori. Nella delusione, però, in noi più piccoli\e c’era la soddisfazione di aver scelto i beniamini giusti e di aver vinto, anche nella realtà, contro la squadra dei grandi. L’estate finiva ed era tempo di ritorni: all’agosto nella città deserta, alla scuola, ai soliti giochi, a Francesca.
Mia sorella continuò a difendere orgogliosamente il suo idolo e a rivendicare la sua scelta nelle discussioni e nei futuri dibattiti, anche in quelli prettamente maschili. Io, presto, mi sarei avviato verso l’età del calcio come ragione di vita, delle partite infinite nei cortili e poi del gruppo di amici, tutti rigorosamente maschi e adolescenti, vittime inconsapevoli di una mascolinità imposta, ai quali non poter certo confessare che fino a qualche anno prima giocavo con le bambole di mia sorella. La stessa per cui un “maschio” non poteva certo avere un diario, la voglia di scrivere e di tirar fuori le proprie fragilità. Oggi, vent’anni dopo, Baggio non gioca più e il calcio ha perso tanto di quella magia. Chissà se mia sorella non si sia ispirata ancora a lui quando, nella vita e nel lavoro, si è accorta che avrebbe dovuto dimostrare sempre di essere il “Pallone d’oro” per poter avere le stesse opportunità dei suoi colleghi “buoni giocatori”. Anche Francesca non la vedo più, partita per nuove infanzie o per vecchi scatoloni in soffitta. Ma sono certo che qualcosa l’hanno lasciata in me quei pomeriggi passati a darle voce e ancora oggi interrogano il mio essere uomo e il mio relazionarmi con il mondo femminile. Meglio o peggio, caro diario, non saprei dirlo.

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Articolo di Sasy Spinelli

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Nato a Foggia, sul finire degli anni ’80, ha sempre avuto una passione per le seconde opportunità: per il riciclo creativo di oggetti, per il trapianto di piante e fiori, per l’inclusione di persone ai margini dei contesti sociali.  Laureato in Economia con una tesi sul microcredito, intreccia percorsi di ricerca per l’innovazione sociale, perseguiti anche all’interno dell’associazione Libera, con il suo interesse per la scrittura e la lettura in prosa e in versi.

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