Memorie d’artista. Cinquant’anni dopo. Seconda parte 

Vitamine vaganti prosegue l’operazione di recupero e riscoperta di talenti femminili oggi dimenticati inaugurata con il numero 273; l’articolo di oggi presenta alcune artiste venute a mancare nel secondo semestre del 1974.  

Else Alfelt, 1948. Foto di Børge Venge

Cominciamo con Else Kirsten Tove Alfelt, pittrice danese (Copenaghen, 16 settembre 1910  — Copenaghen, 9 agosto 1974).
Scopre il suo talento per l’arte fin da giovanissima, impara autonomamente le tecniche della pittura copiando i capolavori conservati allo Statens Museum for Kunst di Copenaghen e si guadagna da vivere posando come modella. Solo nella seconda metà degli anni Trenta arrivano le prime commissioni, gli inviti alle esposizioni, una solida rete di amicizie nel mondo dell’arte, tra cui l’artista danese Asger Jorn; in questo periodo le sue opere sono composte da forme astratte e sinuose dichiaratamente influenzate dal Surrealismo e dall’interpretazione dei sogni. 

Else Alfelt, Black-Red, the shape of space, 1938, acquarello su carta

Durante l’occupazione nazista della Danimarca, Alfelt entra a far parte del gruppo Høst formatosi in netta opposizione all’arte realista e retorica imposta dalla Germania hitleriana; il gruppo lavora alla rivista Helhesten (traduzione di Cavallo dell’inferno, una creatura a tre zampe della mitologia danese-scandinava proveniente dal mondo dei morti), redatta dal 1941 al 1944 con lo scopo di liberare l’arte popolare e il folklore dalla morsa propagandistica del nazismo. Dopo la guerra, Else Alfelt e parte del gruppo Høst confluiscono in Co.Br.A., congregazione di artisti e artiste di matrice astratto-surrealista e di orientamento marxista; il nome deriva dalle iniziali delle tre città da cui proveniva la maggioranza dei membri, Copenaghen, Bruxelles e Amsterdam.  
Negli anni Cinquanta e Sessanta compie numerosi viaggi nel Mediterraneo, a Venezia, Ravenna, Ostia Antica, Puglia, Sicilia e poi in Grecia e in Turchia, entrando in contatto con l’arte del mosaico romano e bizantino; ne impara presto le tecniche per coniugarle al suo stile, nel frattempo evoluto, composto ora da linee diagonali e spirali che nel sovrapporsi creano un effetto caleidoscopico. Molto presenti nelle sue tele anche i paesaggi montani, in particolare al chiaro di luna, ricercati durante ripetuti soggiorni sull’arco alpino, sulle Dolomiti e sui vulcani islandesi.

Else Alfelt, Stromboli,1958, olio su masonite Carl-Henning Pedersen & Else Alfelts Museum


Else Alfelt, Luna Piena, 1956, olio su masonite, Carl-Henning Pedersen & Else Alfelts Museum

Nel 1976, a due anni dalla morte di Alfelt, il marito Carl-Henning Pedersen, anche lui pittore, ha aperto a Herning, in Danimarca, un museo che raccoglie i lavori della coppia e ne preserva ancora oggi la memoria.  

Regina Cassolo Bracchi

Proseguiamo con Regina Prassede Cassolo Bracchi (Mede, 21 maggio 1894 —  Milano, 14 settembre 1974) più nota semplicemente come Regina, nome che usava per firmare i suoi lavori, una delle numerose artiste presenti tra le file del Futurismo (a tal proposito consigliamo questo articolo di Livia Capasso https://vitaminevaganti.com/2020/04/04/il-volto-femminile-del-futurismo/).  
Appena diplomata all’Accademia di Brera, si perfeziona presso lo studio dello scultore Giovanni Battista Alloati che la introduce nel circolo dei futuristi, dove però entrerà ufficialmente solo nel 1933. A partire dagli anni Trenta si scopre un’assidua sperimentatrice di nuovi materiali per le sue sculture, combinando con dimestichezza alluminio, cera, latta, celluloide, carta vetrata, filo di ferro; queste opere richiamano la polimaterialità di Enrico Prampolini, i giocattoli meccanici di Fortunato Depero ma anche il tono scherzoso e quasi infantile del dadaismo.  

Regina Prassede Cassolo Bracchi, Albero fiorito polimaterico, 1933
Regina Prassede Cassolo Bracchi, Aerosensibilità, 1935, (alluminio, Museo Regina); foto Alessandro Saletta e Piercarlo Quecchia, Dsl Studio

Si occupa anche di scenotecnica in collaborazione con il teatro d’avanguardia milanese Arcimboldi e di cinema sperimentale, realizzando un cortometraggio astratto presentato a Como per il I Concorso Internazionale di cinematografia scientifica e turistica. Con l’avvicinarsi della Seconda Guerra Mondiale i rapporti con l’ideatore del movimento futurista Filippo Tommaso Marinetti si raffreddano.  

Membri del Mac. Si riconosce Regina, seduta a sinistra, Gillo Dorlfes seduto a destra e Bruno Munari in piedi al centro

Nel 1951 si unisce al Mac (Movimento d’Arte Concreta) insieme ad altri artisti e artiste tra cui Gillo Dorfles e Bruno Munari, già conosciuto durante la sua parentesi futurista e con il quale aveva firmato il Manifesto tecnico dell’Aeroplastica futurista nel 1934. Proseguono le sperimentazioni materiche, subentra nel suo lavoro il plexiglass colorato, lasciato cristallino o opacizzato, sospeso in sculture mobili pendenti dal soffitto o assemblato con filo di ferro; si lascia influenzare dalla corsa allo spazio, evocata nei titoli delle sue opere, cerca la collaborazione con il mondo dell’industria, progetta opere sempre più “immersive” che puntano a una maggiore partecipazione fisica ed emotiva del pubblico.

Regina Prassede Cassolo Bracchi, Struttura, 1955


Nell’aprile del 2023 da un’iniziativa di Gaetano e Zoe Fermani, importanti collezionisti e custodi del lascito dell’artista, è stato fondato a Milano l’Archivio storico Regina Cassolo Bracchi, con lo scopo di studiare, catalogare e promuovere l’arte della scultrice.  

Alina Ferdinandy mentre lavora al busto del campione di pattinaggio olimpico Ivan Ruttkay

Spostandoci a est, incontriamo Alina Ferdinandy (Košice, 11 agosto 1926 — Bratislava, 17 settembre 1974), la prima donna laureata in scultura monumentale presso l’Alta scuola di arti figurative e disegno industriale di Bratislava, fondata nel 1949. È stata anche saggista, autrice di diversi testi di storia dell’arte e membro della Commissione Cultura del governo cecoslovacco. Ha lavorato come insegnante nel medesimo istituto dove ha conseguito il diploma, come assistente di modellazione presso la facoltà di Architettura e Ingegneria Civile di Bratislava, nonché come redattrice per i programmi letterari della radio cecoslovacca. Realizza ritratti e monumenti di importanti personalità del suo paese, tra cui il campione di pattinaggio olimpico Iván Ruttkay, i poeti Rudolf Jašík e Ivan Krasko la scrittrice e drammaturga Božena Slančíková-Timrava, l’attrice Oľga Borodáčová.

Alina Ferdinandy, monumento al poeta Ivan Krasko

Oltre alla scultura realistica su commissione, esegue anche lavori più astratti o evocativi dove può sperimentare forme più particolari e tecniche diverse.

Alina Ferdinandy, Il sole rompe il ghiaggio, 1971
Alina Ferdinandy, Divina Commedia, 1960-70, bronzo

Si destreggia anche nella scultura di piccole dimensioni, medaglie e placchette celebrative ma soprattutto gioielli; i suoi ciondoli in metallo, che richiamano lo stile informale del periodo, sono a tutti gli effetti delle sculture astratte in miniatura. Queste creazioni conobbero un discreto successo internazionale nel 1967 quando furono allestiti all’interno del Padiglione cecoslovacco all’Esposizione Universale di Montréal.

Alina Ferdinandy, ciondolo o scultura sospesa, 1963
Théresè Debains, Ritratto di giovane ragazzo

Della pittrice francese Thérèse Debains (Versailles, 25 marzo 1897 — Bégard, 24 dicembre 1974) si conosce pochissimo pur avendo avuto contatti con i più importanti pittori, critici e mercanti della Parigi post-impressionista, le informazioni sul suo conto sono davvero esigue, persino la data di nascita è incerta, secondo alcune fonti è da postdatare al 1907.  
Frequentava il gruppo dei Nabis, congregazione di giovani artisti formatasi nel 1888 durante le lezioni all’Académie Julian di Parigi. Il gruppo nutriva una forte ammirazione per il lavoro di Paul Gauguin, specialmente la sua totale rinuncia al mimetismo e il libero uso dei colori, scelti seguendo la propria emotività. Il nome del gruppo, Nabis (profeti), deriva dall’ebraico e rivela l’intento, in parte scherzoso, di creare una confraternita semisegreta con un suo cerimoniale e un suo tempio (il quale altro non era che lo studio di uno dei fondatori del gruppo, il pittore Paul-Élie Ranson, decorato con carta colorata). Gli interessi del gruppo sono molto vari; dalle stampe giapponesi all’arte medievale, dal “primitivismo” delle popolazioni non occidentali e delle comunità rurali della Britannia all’occultismo, dal teatro agli scritti di Baudelaire e Mallarmé.  
Nel 1908 alcuni membri del gruppo Nabis fondano l’Académie Ranson dove lavorano come insegnanti, gestita dalla moglie di Ranson, Marie-France e, dopo di lei, da Harriet Von Tschudi Cérésole, ex allieva e scultrice; è proprio qui che Thérèse Debains incontra i Nabis e si lascia influenzare dal loro stile.  
Le sue prime opere risalgono alla metà degli anni Venti, in un momento in cui a Parigi si sta formando il gruppo surrealista sulla scia della metafisica di Giorgio de Chirico e resistono ancora le avanguardie di inizio secolo; nel 1926 partecipa a una mostra collettiva alla Galleria Druet con opere figurative, ritratti, nature morte, paesaggi realizzati con uno stile anacronistico in netto contrasto con il clima parigino di quell’epoca. Il critico Waldemar George conia per l’occasione il termine “Neo-Romanticismo” e riconosce nel gruppo affinità con i dipinti giovanili di Pablo Picasso, in particolare quelli dei periodi blu e rosa, colori molto presenti anche nella tavolozza di Debains.

Théresè Debains, Natura morta
Thérèse Debains, Le Belon (l’Aven), c.1930

Recentemente due pubblicazioni hanno tentato di recuperare la memoria degli artisti e delle artiste del Neo-Romanticismo, il catalogo della mostra omonima al Musée Marmottan Monet della primavera del 2023 e il volume Theatres of Melancholy: The Neo-Romantics in Paris and Beyond di Patrick Mauriès del 2022.  

Alice Halicka

Anche Alice Halicka, all’anagrafe Alicja Rosenblatt, (Cracovia, 20 dicembre 1889 — Parigi, 30 dicembre 1974), pittrice polacca, frequenta l’Académie Ranson a Parigi, dopo essersi trasferita da Cracovia nel 1912. Due anni dopo espone al Salon des indépendants, dove il suo lavoro viene notato da Guillaume Apollinaire; in questo periodo attraversa una fase cubista che però abbandonerà presto per tornare alla figurazione, recuperando lo stile post-impressionista che aveva segnato i suoi studi giovanili in Polonia, molto probabilmente per non infastidire il marito e collega Louis Marcoussis. Molti dei suoi dipinti cubisti vengono distrutti dall’artista stessa, ne sopravvivono circa una sessantina conservati in una soffitta in Normandia che cinquant’anni dopo Halicka, all’epoca ottantaquattrenne, riesce a recuperare, restaurare e, finalmente, esporre e vendere. 

Alice Halicka, Composition à la guitare, 1914, olio su tela, collezione privata

A partire dagli anni Venti Halicka inaugura una fase di sperimentazione con materiali prelevati principalmente dalla sartoria e tappezzeria, combinando sulle sue tele tessuti, bottoni, carta, filo di ferro, piume e tecniche diverse tra cui il collage, il cucito, il disegno e la pittura. Realizza in questo modo circa un centinaio di quadri da cavalletto con scene di genere dai toni vagamente infantili e sentimentali; la maggior parte di queste tele sono andate perdute ma restano le riproduzioni fotografiche in bianco e nero. 

Alice Halicka, Bougival avant, 1926, Centre Pompidou, Parigi

Questi curiosi collage, proprio perché realizzati in tessuto, si rivelarono perfetti per il mondo della moda e della pubblicità tanto da finire sulle pagine di Vogue.

Alice Halicka, collage per Vogue, gennaio 1938

In questo periodo Halicka conosce la celebre imprenditrice della cosmesi Helena Rubinstein che la porta con sé a New York; qui resta circa tre anni, dal 1935 al 1938, e ha modo di lavorare alla decorazione murale del salone di Rubinstein, oltre che a esporre in un paio di gallerie newyorkesi.  
Per sostenere la sua famiglia e la carriera del marito, Halicka si cimenta in più campi oltre alla pittura e all’illustrazione, realizza costumi e maschere per il teatro, in particolare per il balletto Le baiser de la fée con musica di Igor’ Stravinskij e disegna fantasie per tessuti industriali e carte da parati.

Alice Halicka, costume disegnato per Le baiser de la fée, 1937 MoMA New York

Negli ultimi vent’anni della sua vita si dedica invece ai viaggi, in particolare in India, dove soggiorna per tre mesi, negli Stati Uniti, in Europa e in Unione Sovietica. Nel dopoguerra pubblica un romanzo autobiografico dal titolo Hier. (Souvenirs), recuperato dalla storica dell’arte Paula J. Birnbaum che si è a lungo occupata di riscoprire il lavoro di Alice Halicka.  

Ida Kar

Passiamo a Ida Kar, fotografa di origini armene (Tambov, 8 aprile 1908 — Londra, 24 dicembre 1974), nata in Russia ma cresciuta tra Iran ed Egitto. Durante la prima metà degli anni Trenta vive a Parigi dove si forma come fotografa nel circolo surrealista. Tornata in Egitto, si unisce al gruppo surrealista locale Art et Liberté, frequentato anche dalla fotografa Lee Miller e dalla pittrice Amy Nimr, di cui abbiamo accennato nella prima parte di questo articolo. Risalgono a questo periodo le sue prime fotografie professionali, pienamente surrealiste: sono scorci da punti di vista inediti dei vicoli del Cairo, oggetti comuni fotografati con un gioco di luci e ombre tale da non renderli immediatamente riconoscibili, immagini che decostruiscono il mito dell’Egitto dei faraoni in un momento in cui nazionalismo e fascismo dilagavano in tutto il Mediterraneo.  

Ida Kar, Abstract, Egypt, primi anni Quaranta, National Portrait Gallery, Londra
Ida Kar, Natura morta, primi anni Quaranta, National Portrait Gallery, Londra

Nel dopoguerra si trasferisce a Londra con il secondo marito Victor Musgrave, poeta, mercante d’arte e curatore, proprietario di una galleria a Soho; qui Ida Kar si specializza come ritrattista, prediligendo per le sue fotografie artisti e artiste nei loro studi. La sua vastissima produzione del periodo londinese vanta ritratti di artisti come Henry Moore, Yves Klein, Georges Braque, Gino Severini, Marc Chagall; per questo articolo abbiamo scelto i ritratti della scultrice Elisabeth Frink e della pittrice optical Bridget Riley.  

Ida Kar, Elisabeth Frink, 1956, National Portrai Gallery, Londra
Ida Kar, ritratto di Bridget Riley 1963, National Portrait Gallery, Londra

Tra il 1957 e il 1964 viaggia in Armenia, Unione Sovietica, Germania dell’Est e a Cuba. Le fotografie che realizza in queste occasioni sono per lo più ritratti eseguiti all’aperto, non in studio, che sembrano essere più vicini al reportage giornalistico; è l’ultima fase conosciuta della sua carriera. Ida Kar muore in condizioni indigenti a Londra nel 1974.  
La National Portrait Gallery di Londra nel 1999 ha acquisito l’intero archivio della fotografa, digitalizzato ed esposto in più occasioni; è possibile consultarlo qui.   

Louise Fitzhugh

È la volta di Louise Fitzhugh (Memphis, 5 ottobre 1928 —  New Milford, 19 novembre 1974), scrittrice e illustratrice per l’infanzia e l’adolescenza. Ha raggiunto il successo internazionale nel 1964 con la pubblicazione di Harriet the Spy; la protagonista, Harriet, è una bambina che per sconfiggere la noia ha l’abitudine di osservare tutte le persone che la circondano annotando minuziosamente le sue impressioni, non sempre gentili, scoprendo così l’ipocrisia della vita adulta.  
Nel 2014, in occasione del cinquantesimo anniversario della pubblicazione di Harriet the Spy, il comune di New York le ha dedicato una targa nel Carl Schurz Park.  

Targa nel Carl Schurz park

Louise Fitzhugh scrive anche molti romanzi per un pubblico adulto, rifiutati dall’editoria; tra questi, uno in cui si racconta la storia d’amore tra due ragazze.  
Nata nel Tennessee degli anni Venti, dove ancora vigeva una violenta segregazione razziale, Fitzhugh si trasferisce nel 1949 nel Greenwich Village, vitale quartiere newyorkese, culla in quel periodo della Beat Generation e, vent’anni dopo, sede dei Moti di Stonewall. Qui, oltre a poter vivere più apertamente la sua bisessualità, studia pittura, frequenta artisti e artiste del calibro di Louise Nevelson e Ad Reinhardt, espone in diverse gallerie e approfondisce lo studio dell’affresco e del muralismo con viaggi in Francia e in Italia (più precisamente a Bologna, dove collabora con il pittore muralista Fabio Rieti); sfortunatamente risulta molto difficile reperire immagini dei suoi dipinti che dovevano essere, secondo le fonti, di stile realistico.  
Nel 1961 con la scrittrice Sandra Scoppettone collabora alla stesura di Suzuki Beane, storia di un bambino e una bambina che scoprono insieme le complessità della vita, l’amicizia, l’amore, il pregiudizio. Le pagine del volume sono occupate dalle illustrazioni di Fitzhugh e da brevi testi redatti a macchina da Scoppettone.  

Sandra Scoppettone, Suzuki Beane, 1961, copertina della prima edizione disegnata da Louise Fitzhugh
Suzuki beane, una delle illustrazioni


Nel 2020 è uscita una monografia su Louise Fitzhugh che getta nuova luce sulla sua vita, Sometimes You Have to Lie: The Life and Times of Louise Fitzhugh, Renegade Author of Harriet the Spy di Leslie Brody.  

Aytsemnik Urartu nel 1947

Concludiamo con Aitsemnik Der-Khachatrean, più nota con lo pseudonimo di Aitsemnik Urartu (Kars, 15 settembre 1899 —  17 dicembre 1974) la prima scultrice professionista nella storia dell’arte armena, specializzata nella ritrattistica monumentale. Realizza non solo i ritratti degli eroi della patria ma anche bassorilievi celebrativi di importanti momenti della storia dell’Armenia sovietica.  
Il suo lavoro più ambizioso fu il monumento al poeta armeno Hovhannes Tumanyan, al quale dedicò dieci anni di progettazione, rimasto purtroppo incompiuto; doveva apparire come una grande montagna con in cima il ritratto dello scrittore accompagnato dai personaggi delle sue opere. Le varie sculture che dovevano formare il monumento sono oggi considerate opere indipendenti.  

Aytsemnik Urartu lavora al monumento composito

Tra le commissioni più significative che ha ricevuto, Ragazza con la brocca del 1938, una fontana pubblica situata su una delle vie principali di Yerevan, oggi danneggiata e non più funzionante.

Aytsemnik Urartu, Ragazza con brocca, 1938

 Per saperne di più su questa artista e sulla scultura armena, potete attendere l’uscita del prossimo numero con l’approfondimento dedicato di Livia Capasso. 

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Articolo di Cecilia Babolin

Studio storia dell’arte contemporanea ma mi interesso anche di museologia, femminismo e postcolonialismo. Dopo aver studiato a lungo l’arte sotto il regime fascista, mi sto dedicando al secondo Novecento, in particolare agli anni Sessanta e Settanta. Da poco ho cominciato a esplorare campi nuovi come l’architettura e il cinema sperimentale.

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