È interessante come nella vita privata e nella carriera di Jane Cunnigham Croly (1829-1901), conosciuta come Jennie June, convivano forti elementi di innovazione e di conservazione che, accanto al livello di diffusione della coscienza femminile, rivelano quanto fossero resistenti i condizionamenti dell’educazione vittoriana per le giovani di buona famiglia. Una compresenza di vecchio e nuovo che si riscontra nelle Women’s Pages, lo spazio che, a partire dagli ultimi venti anni dell’Ottocento, i giornali statunitensi dedicavano al pubblico femminile e di cui Jennie è considerata l’indiscussa iniziatrice e maestra.

Figlia del predicatore Unitario Joseph Cunnigham e di Jane Scott, era nata a Marker Harborough in Inghilterra. Nel 1841 la famiglia emigrò negli Stati Uniti stabilendosi prima nello Stato di New York e poi nel Massachussets. Jane, che si formò alle letture della biblioteca paterna e frequentò la scuola pubblica, manifestò un talento precoce scrivendo sul giornale scolastico e pubblicando articoli per il periodico della congregazione di suo fratello. Morto il padre, nel 1855 si trasferì a New York City per tentare la carriera giornalistica.
Per una donna rispettabile della middle class, vedova o single che fosse, la condizione più onorevole era sempre e comunque il matrimonio e solo in caso di necessità erano ammesse attività appropriate che non prevedessero spostamenti o promiscuità con colleghi di lavoro maschi. Tuttavia a partire dalla metà del secolo e dopo la Guerra Civile si andava facendo strada un graduale cambiamento della mentalità. Le esigenze di un mercato editoriale competitivo e attento alle nuove strategie di marketing, l’affermazione e la notorietà raggiunte da alcune giornaliste professioniste intraprendenti che avevano sfidato le convenzioni e ce l’avevano fatta, l’azione di attiviste, militanti abolizioniste, suffragiste e femministe, contribuirono a facilitare l’accesso delle donne alla professione.
Ma a chi era destinato il mercato editoriale? All’inizio del secolo «le pagine solo stampate e non abbellite da immagini si rivolgevano strettamente all’uomo di casa che, dopo aver digerito il loro contenuto, passava a sua moglie e alle figlie ciò che riteneva opportuno far loro sapere. A volte uno o due paragrafi dal titolo “l’angolo delle donne” avrebbero potuto vagare in questa riserva maschile, ma si trattava di un’eccezione» (Elisabeth Bancroft Schlesinger, The Nineteenth Century Woman’s Dilemma and Jennie June, New York History, 1961).

In seguito con il miglioramento dell’istruzione pubblica era aumentato anche il numero delle lettrici e gli editori, sensibili alle inserzioni pubblicitarie e consci del fatto che erano soprattutto le donne a orientare gli acquisti in famiglia, badarono ad attrarre le potenziali consumatrici con le pagine femminili scritte da donne per le donne. Uno spazio riservato alle soft news, notizie mondane, curiosità, gossip e temi relativi alle «quattro effe»: family, food, furnishing, fashion che si presumeva interessassero il pubblico femminile. Se gli argomenti leggeri e pertinenti la sfera domestica erano considerati adatti alle capacità femminili, le hard news più importanti e complesse di politica, attualità e cronaca erano di competenza maschile. Non a caso i colleghi maschi avrebbero continuato a definire sprezzantemente pollaio lo spazio di lavoro riservato alle giornaliste. Ma la sezione femminile, a lungo screditata, pur rafforzando gli stereotipi e l’idea delle «sfere separate», presentava aspetti liberatori. Le donne potevano esprimersi forzando gli schemi previsti per far posto, accanto alle tendenze della moda e ai consigli sulla gestione domestica, anche a tematiche inedite relative ai ruoli familiari, alle relazioni, all’educazione, all’istruzione, alle loro aspirazioni, a storie e movimenti di altre donne. Insomma un forum e uno spazio interattivo in cui, pur entro i confini dell’accettabilità sociale, ci si poteva confrontare e fare comunità uscendo idealmente fuori dalle mura domestiche come si poteva riscontrare dalle lettere che giungevano in redazione.
Inoltre, grazie a queste pagine, furono incentivate le assunzioni di aspiranti giornaliste che, uscite dal tradizionale ruolo domestico, ritrovarono i limiti nella segregazione orizzontale del lavoro. «Avevo provato a ottenere un incarico fisso in uno dei quotidiani di New York, ma ero ovunque presa in giro… Non c’era posto per le donne in un quotidiano mi assicurarono. Potevano fare occasionalmente lavori esterni, ma non potevano essere reporter perché non potevano andare dove le notizie dovevano essere raccolte, e non potevano essere redattrici perché non sapevano nulla di politica» (Jennie June, Thirty Years in Journalism, Demorest’s Monthly Magazine 1886).
Dopo i primi rifiuti Jane pubblicò il suo primo articolo nel 1855 sul New York Dispatch e sul Sunday Times and Noha’s Weekly Messenger, firmandosi Jennie June sull’esempio di altre giornaliste che sceglievano uno pseudonimo (talvolta allitterativo come Fanny Fern, Minnie Myrtle e Grace Greenwood) o apponevano un asterisco al posto del nome per evitare di esporsi troppo in quanto donne. Quando nel 1857 ricevette l’incarico di curare una delle prime rubriche fisse di moda per il Sunday Times and Noha’s Weekly Messenger creò una pagina dal titolo Parlor and Side-walk Gossip, cui seguirono altre rubriche che ebbero un tale successo da essere ripubblicate contemporaneamente su altri giornali di New York e di altri Stati. Fra gli altri il Picayune e il Delta di New Orleans, il Richmond Enquirer, il Baltimore American e il Louisville Journal. In breve tempo Jennie June cominciò a lavorare anche per altri giornali femminili di moda fra cui Mme. Demorest Mirror of Fashions, Demorest’s Monthly Magazine, Home-maker magazine e fondò The Cycle Magazine scrivendo articoli e rubriche, come la popolarissima Talks With Women, che ebbero diffusione sulle pagine femminili di tutti i periodici statunitensi. Anni dopo, il 12 febbraio 1896, la pagina femminile Of interest to Women del New York Journal, le avrebbe reso omaggio aprendo con una poesia dedicata al suo primo manoscritto rifiutato e chiudendo con un’intervista in cui Jennie, celebrata come pioniera ed esempio vivente per le giovani reporter, rievocava le fatiche e i successi conseguiti in quarant’anni di attività giornalistica con le rubriche, gli editoriali e le corrispondenze che l’avevano resa famosa e influente presso un pubblico non solo femminile. Una pagina organizzata secondo lo schema, ormai consolidato, in cui oltre ai pezzi citati trovavano posto articoli di moda su abiti e ventagli, brevi notizie di cronaca e il caso curioso di una donna barbiere, un articolo sul triciclo della principessa di Galles, ricette di cucina, un’intervista a Emmeline Pankhurst sull’opportunità di un’istruzione universitaria per le donne, un articolo su quanto sia diffuso e opportuno che siano le donne a fare proposte di matrimonio con una ricostruzione dei casi letterari, mitologici e storici, notizie di spettacoli e feste di beneficenza, e la biografia fotografica di un famoso soprano.
Nel 1857 Jennie June sposò David Goodman Croly brillante reporter del New York Herald che, una volta diventato direttore del New York World e del New York Daily Graphic, ideò l’edizione domenicale del giornale e il quotidiano illustrato. Anche Jennie che nel 1856 aveva convocato il Primo Congresso delle donne per dibattere le questioni relative al cambiamento del ruolo femminile, lavorò al World. Il giornale, che in quel periodo si avvaleva anche di tipografe e giornaliste, dava ampia visibilità al discorso sui diritti e sul lavoro femminile. La coppia, al centro della vita intellettuale newyorkese, nelle serate domenicali apriva la casa a personalità di spicco come Robert Ingersoll, Louisa May Alcott, Oscar Wilde, le sorelle Cary ed Ella Wheeler Wilcox.
Con il matrimonio Jennie June non si pose il problema di conciliare professione e lavoro domestico. Credendo nella teoria delle sfere separate riteneva prioritari i compiti di moglie e di madre che ogni donna, anche se costretta a lavorare per necessità, avrebbe dovuto svolgere al meglio. Lei stessa, da quando il marito aveva cominciato ad avere problemi di salute, sentiva di far parte di questa categoria di donne e, dovendo badare a una numerosa prole (quattro femmine e un maschio), svolse con impegno entrambi i ruoli di madre e lavoratrice sollecitando le sue lettrici a fare altrettanto. «Dedicava le prime tre ore della sua giornata ai figli e alle faccende domestiche. A mezzogiorno era nel suo ufficio, dove il marito e i figli sapevano di non poterla disturbare mentre lavorava fino alle prime ore della notte» (Kristy Puchko, “Journalist Jennie June Was Having It All” in the 19th Century, 2015).
Nei suoi articoli sostenne nuovi stili di vita al passo con i tempi mutati che rendessero le donne più consapevoli ed efficienti nella sfera personale e domestica come la pratica della ginnastica callistenica, l’equitazione, il pattinaggio, sollecitando ad abbandonare le attività ridicolmente ornamentali tradizionali per organizzare razionalmente tutti gli aspetti della vita personale, domestica e relazionale. Dava indicazioni su comportamento morale, buone maniere ed etichetta sociale, su come tenere una dispensa ben fornita, cucinare e conservare i cibi, educare la prole, gestire il denaro, trovarsi un lavoro adeguato e divulgava storie di successo di donne affermate mettendo in guardia le lettrici contro la superficialità di giudizio che spesso sottovalutava le doti di impegno, serietà e determinazione necessarie al raggiungimento del successo.
Sul Demorest propose una moderata riforma dell’abbigliamento. Contraria per ragioni estetiche e di opportunità ai bloomers delle femministe militanti, propose di abolire i cerchi di sostegno, le gonne che si trascinavano per terra e i corsetti in osso di balena a favore dei corsetti di corda e offrendo con il giornale modelli estraibili da usare per cucire autonomamente gli abiti; inoltre orientava agli acquisti segnalando le occasioni vantaggiose. Ma era evidente che nelle donne Jennie June volesse «…cambiare molto più del modo in cui si vestivano» (Moira Allen, Editor’s Greeting: Giving Thanks to a Lady Journalist, in Victorian Times, 2017).



Soprattutto le spingeva a contare sulle proprie forze, a migliorare la propria istruzione e a conquistarsi la propria autonomia economica incoraggiandole a scegliere non solo le attività tradizionalmente consentite, ma anche le nuove professioni di segretaria, contabile, infermiera e commessa di grandi magazzini, mentre era decisamente contraria all’esercizio della professione medica. Pur condividendo molti degli obiettivi del Movimento femminista e ammirando sinceramente Susan B. Anthony, non riteneva prioritaria la rivendicazione del diritto di voto. Per lei l’uguaglianza sostanziale si misurava sul reddito perché era convinta che con l’autosufficienza economica automaticamente ci sarebbe stata parità in tutti gli altri campi. «Questa pari esecuzione del contratto tra uomini e donne, come tra uomo e uomo, è il più grande passo avanti che sia stato concesso alle donne in questa era di progresso. Le solleva dalla dipendenza all’indipendenza; dà loro pari opportunità; mette il potere del denaro nelle loro mani, ed è ciò che le donne devono avere se vogliono ottenere un posto in questo mondo che adora il denaro… La ragione per cui un uomo inferiore è praticamente superiore a una donna infinitamente al di sopra di lui in tutti gli attributi essenziali, è perché lui ha assunto il suo diritto di guadagnare denaro, mentre lei no» (Thrown on Her Own Resources, Or What Girls Can Do, 1891 in Women Encyclopedias, almanacs transcripts and maps voce Croly, Jane Cunnigham).

Nel 1868, in seguito a un evento scatenante, Jennie June iniziò il suo attivismo di promotrice e fondatrice di club femminili. In occasione del secondo tour americano di Charles Dickens il New York Press Club organizzò una cena in onore dello scrittore nel famoso Delmonico’s Restaurant escludendo dalla partecipazione le giornaliste che pure erano iscritte all’associazione. Le donne rispettabili dovevano esporsi il meno possibile: non potevano frequentare i ristoranti o altri luoghi pubblici senza un accompagnatore né prendere la parola in pubblico. In seguito alle proteste insistenti di Jenny June le giornaliste furono ammesse solo a patto che restassero invisibili dietro una tenda per tutta la durata della cena. Dopo aver rifiutato Jennie June costituì il primo club femminile che prese il nome di Sorosis e si riunì per la prima volta da Delmonico’s per un pranzo con Dickens, che però declinò l’invito. «L’obiettivo della nuova organizzazione era di promuovere “relazioni piacevoli e utili tra donne di gusti letterari e artistici” e di fornire “un’opportunità per la discussione tra donne di nuovi principi, i cui risultati promettono di esercitare un’influenza importante per il futuro delle donne e il benessere della società”».
Convinta dei benefici che potevano derivare dall’associarsi per conseguire obiettivi comuni, mise le sue energie al servizio di altre donne per sostenerle nell’istruzione e nella carriera. L’associazione si mobilitò per l’ammissione delle donne nei college americani e per sensibilizzare l’opinione pubblica su temi sociali come la temperanza, la mortalità infantile e la riforma carceraria e ispirò la formazione di analoghi club femminili professionali in tutto il resto del Paese.


Nel 1889 Jennie June fondò la Woman’s Press Club di New York City e fu tra le promotrici della General Federation of Woman’s Clubs. Nel 1892 ottenne la laurea honoris causa in Letteratura dal Rutger’s Women’s College nel New Jersey e divenne la prima donna a insegnare giornalismo a livello universitario. Raccolse molti dei suoi articoli nel volume Jennie Juneiana: Talks on Women’s Topics del 1869, nel 1875 pubblicò For Better or Worse: Talks for Some Men and All Women, una guida al rapporto di coppia e alla vita coniugale finalizzata a rendere più attive e consapevoli soprattutto le donne al fine di realizzare un matrimonio felice. Scrisse inoltre libri di ricette e manuali di cucito cui seguirono nel 1886 Sorosis: Its Origin and History e nel 1891 Thrown on Her Own Resources, Or, What Girls Can Do, una guida per le donne sole e con pochi mezzi che per sopravvivere ed emergere potevano contare solo sulle proprie forze. Jane le spronava ad avere fiducia nelle proprie capacità e a mettere in campo le doti di intraprendenza e determinazione necessarie e imprescindibili per riuscire nella vita privata e professionale.


Nel 1898 pubblicò The History of the Women’s Club Movement in America. Nell’ultima parte della sua vita fece un viaggio in Inghilterra per rivedere i luoghi della sua infanzia. Tornata, morì nel 1901 avendo disposto per sé il seguente epitaffio: Non ho mai fatto nulla che non fosse utile alle donne, per quanto fosse in mio potere.
Per approfondire:
The nineteenth’s century women’s dilemma and Jennie June
Croly, Jane Cunningham (1829–1901)
Victorian Times
Journalist Jennie June Was “Having It All” in the 19th Century
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Articolo di Rossana Laterza

Insegnante di Italiano e Storia in pensione. Con il gruppo Toponomastica femminile ha curato progetti di genere nella scuola superiore e collaborato a biografie di donne di valore dimenticate.
