Nell’America puritana degli anni ’40 Alfred Kinsey compì la più grande indagine mai intrapresa sul comportamento sessuale degli esseri umani. Con il suo team ascoltò e raccolse la storia di 5.300 uomini e 5.940 donne: pubblicò nel 1948 Il comportamento sessuale dell’uomo e nel 1953 Il comportamento sessuale della donna, considerati tra i libri scientifici più influenti e di successo del XX secolo.
Lo studio scoprì che molte convinzioni allora comuni sulla sessualità erano inesatte, compresa l’idea che l’omosessualità fosse rara o anormale.
«Soltanto la mente umana inventa categorie e cerca di forzare i fatti in gabbie distinte. Il mondo vivente è un continuum in ogni suo aspetto. La natura raramente ha a che fare con categorie discrete»: che cambiamento, cominciare a frantumare le frontiere millenarie degli insiemi ♂ e ♀!
L’allarme sociale, lo scandalo suscitato e l’accusa di essere in combutta con i comunisti nell’intento di indebolire e distruggere la gioventù americana portarono il National Research Council a tagliare i fondi e la ricerca non fu mai completata.
Si possono muovere — a posteriori — molte critiche alla ricerca stessa e al metodo usato da Kinsey: non si può negare però che le sue riflessioni suscitarono panico nella misura in cui imponevano alle identità di genere e sessuali maggioritarie di riflettere sugli “universali” dati o presupposti: in buona sostanza sulla propria costituzione, sulle proprie convinzioni. Per guadagnare libertà è necessario ripensare le strutture del pensiero e dare rappresentazione alla variabilità umana: questo a me pare l’insegnamento valido ancor oggi.
Bisogna ricordare che un forte binarismo è tipico delle società occidentali, che lo applicano a molti aspetti della vita a causa della produzione filosofica e culturali su cui si basano. Smontarne le categorie è per questo — come dimostrano mille esempi — operazione impervia.
Segnate un’altra tappa importante: nel 1973 l’omosessualità fu rimossa dal Diagnostic Manual of Mental Disorders (Dsm), redatto dall’American Psychiatric Association (Apa). Nei primi anni ’70 nacque anche, per opera dello psicologo George Weinberg, il concetto di omofobia, che mise in discussione l’eteronormatività vigente e spostò il fuoco dalla condizione omosessuale alla condizione omofobica.
Tra i fattori che descrivono quest’ultima ci sono:
- mancanza di conoscenza;
- tradizioni culturali e religiose;
- ruolo dei media;
- norme di genere rigide;
- paura del cambiamento sociale;
- paura dell’ignoto;
- pregiudizi interiorizzati.
Il solo modo per sconfiggere le proprie paure è nominarle e conoscerle, ma è un processo lungo e difficile. Basta avere qualche capello bianco per ricordare come fosse diffusa, crudele e implacabile l’omofobia in Italia fino a qualche tempo fa; sappiamo che non è ancora del tutto superata.
Un’altra data da segnare, in materia, è il 17 maggio: la Giornata internazionale non solo contro l’omofobia (dal 2005), ma contro la bifobia (dal 2015) e la transfobia (dal 2009).
Lo stigma sociale contro la persona transessuale è ancor oggi, dopo la lunga strada intrapresa, indiscutibilmente più elevato rispetto a quello riservato alle persone omosessuali, pur se molte delle sue matrici sono analoghe. Lo dimostra il gran numero di aggressioni e di violenze, per cui il nostro Paese ha in Europa il triste primato.
Regna inoltre, come si è visto nel battage mediatico della scorsa settimana, una gran confusione tra transessualità (la condizione di chi non si riconosce nel genere che corrisponde alla sua identità sessuale di nascita) e intersessualità (termine ombrello coniato nel 1915 per descrivere le persone che hanno caratteri sessuali primari e/o secondari non definibili come esclusivamente maschili o femminili).
Non è una malattia da curare, non è un orientamento sessuale, non è un’identità di genere. È una condizione fisica che non si manifesta in modo uguale per tutti e per tutte e che non sempre è rilevabile alla nascita.
Nel corso degli ultimi dieci anni anche in Italia finalmente se ne comincia a parlare: la produzione scientifica è aumentata ed è nato un movimento intersex, seppur fragile e frammentato. Numerose organizzazioni della società civile e istituzioni per i diritti umani ora chiedono la fine degli inutili, invasivi e irreversibili interventi di “normalizzazione” farmacologica e/o chirurgica. Ad aprile il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato una prima storica risoluzione per la “Lotta alla discriminazione, alla violenza e alle pratiche dannose contro le persone intersessuali”.
In alcuni Stati negli ultimi anni ci sono stati dei progressi, come il riconoscimento in Germania, a Malta e in Portogallo e il primo certificato di nascita che riconosce l’intersessualità negli Usa, ma la strada da percorrere per i diritti è ancora lunga. Da noi per legge il fenomeno non esiste, anzi l’Italia è stata rimproverata dall’Onu per aver tollerato mutilazioni genitali intersex.
La maggior parte della popolazione con varianti nelle caratteristiche di sesso rimane nell’ombra, non solo per motivi giuridici ma soprattutto per la perdurante stigmatizzazione che l’immaginario morboso e i tabù diffusi nella società ancora producono. Per questo il loro numero rimane incerto, pur essendo stato stimato intorno all’1,7% della popolazione generale.
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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.
