La scuola italiana è terminata ormai da più di un mese. Per chi è docente è proseguita settimane in più, tra riunioni conclusive, collegi, Esami di Stato. È, dunque, tempo di bilanci finali, e mentre ripenso al mio anno scolastico che volge al culmine, interrogandomi su scelte, azioni, pensieri, parole che hanno condotto il mio operato di insegnante, mi torna alla mente la serie televisiva Un professore, che dal 2021 RaiUno trasmette in prima serata, una serie che racconta la vita quotidiana di Dante Balestra (interpretato da Alessandro Gassman), professore di filosofia in un liceo di Roma, e con lui le vicende dei suoi familiari e degli/delle studenti della sua classe 3a B.

Trattando di scuola e delle sue dinamiche, è inevitabile che tale prodotto televisivo si sia attirato finora aspre critiche tanto quanto appassionati plausi: seppur bistrattata, sottovalutata, infangata, ritenuta inadeguata e stantia, ricoperta di improperi ma mai adeguatamente supportata dalle politiche dei governi di turno, la scuola resta curiosamente l’unico ambito in Italia su cui tutti, ma proprio tutti, pontificano a qualunque titolo, e da quando esistono i social, che — come ricordava Umberto Eco — «danno diritto di parola a legioni di imbecilli», la cassa di risonanza di detrattori ed estimatori a vario titolo si è espansa esponenzialmente.
Più che di difetti, io parlerei realisticamente di incongruenze della serie TV, che sono diverse e di fronte alle quali ogni docente italiana/o non può che provare un’irrefrenabile irrequietezza mentre siede sul divano a guardare scorrere le vicende di Balestra.

Numero uno: Dante entra ed esce dalla scuola quando e come vuole. La location principale della serie è il centralissimo Istituto di istruzione superiore “Leonardo da Vinci” sito in via Cavour, vicino al Colosseo, e già qui l’invidia sale perché vuoi mettere uscire da scuola e trovarti sulla destra er Colosseo? Balestra porta in giro la sua 3aB per fare lezione di filosofia en plein air… bello, anzi bellissimo, meraviglioso davvero… ma irreale, perché avete idea di quanti permessi, moduli, richieste, autorizzazioni servano oggi a scuola per portare una classe anche solo a fare il giro dell’isolato? L’effetto castrante che la burocrazia esercita letteralmente sul nostro lavoro emerge impietosamente già da questo confronto, che ovviamente non regge. Però, per quanto sia distante la situazione rappresentata dalla fiction e quella che si vive nella realtà, ciò che vedi in Tv ti spinge comunque a pensare: e se potesse essere così?
Numero due: Dante insegna in una classe in cui sono presenti suo figlio Simone (interpretato da Nicolas Maupas) e Manuel (interpretato da Damiano Gavino), figlio di Anita (interpretata da Claudia Pandolfi), che diventerà la compagna di Balestra. I due, più avanti, andranno anche a vivere nella villa di Balestra, tutti insieme appassionatamente. Chiaramente si tratta di una fiction, è vero, «frutto della fantasia e dell’inventiva […] che si basa su intrecci romanzati» (cfr. Treccani), però è palese quanto sia lontano anni luce dalla realtà: già avere un/una figlia nella stessa scuola in cui si insegna è certamente una situazione “particolare”, che personalmente non ritengo opportuna per varie ragioni, ma la legge non si esprime in senso contrario, dunque è una questione affidata alla singola valutazione dell’insegnante-genitore; avere poi il/la figlia nella tua stessa classe è la situazione più inopportuna che nella realtà scolastica possa capitare, soprattutto nei cicli di istruzione che prevedono scrutini ed esami finali, ai quali l’insegnante-genitore non potrebbe comunque partecipare come valutatore, perché in questo caso la legge è chiara: «Nessun candidato può essere esaminato da un docente al quale sia legato da vincoli di parentela o di affinità sino al quarto grado o dal quale abbia ricevuto lezioni private» (O.M. 90 del 21 maggio 2001).
Numero tre: la Preside Agata Smeriglio (interpretata da Federica Cifola) è una figura che auspico possa ancora esistere nella scuola, dedita ad alunni e alunne e sempre disponibile al confronto e all’ascolto delle e dei suoi docenti, anche ai limiti dell’ammissibile, poiché Dante viola non poche norme attuali sulla sicurezza, altra gigante divinità famelica della scuola italiana sul cui altare viene sacrificato ogni giorno qualsivoglia slancio creativo e anche tanto sano buon senso. Con ciò non voglio assolutamente asserire che non siano importanti le norme per la sicurezza sui luoghi di lavoro, ma evidenziare come nelle scuole, soprattutto di grado superiore, si impongano restrizioni anche laddove si potrebbero trovare compromessi per non mortificare del tutto la libera iniziativa nell’attività didattica (vedi Numero uno). Su chi è Ds (sigla, tra le tante in uso nella scuola, che sta per Dirigente scolastico) non voglio essere totalmente tranciante, ma l’esperienza conduce ad amare riflessioni. Già nel lessico (le parole sono importanti) si deduce un cambiamento non solo di forma ma anche di sostanza: dal D.lgs. 59 del 6 marzo 1998 e a seguito dell’art. 21, comma 16, della legge 59 del 15 marzo 1997, il/la Preside diventa Dirigente scolastico/a, viene meno quella funzione insita nel praesidem latino, dal verbo praesĭdēre che in prima accezione vuol dire proteggere, custodire, difendere. Nel settembre 2022 l’Anp (Associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola) ha pubblicato un documento, intitolato La scuola che vogliamo, in cui — tra le molte asserzioni — si dichiarano le seguenti richieste:
«● ripensare al sistema di reclutamento del personale dando alle scuole la possibilità di intervenire tempestivamente e con efficacia secondo il bisogno e secondo i propri progetti educativi;
● ripensare l’organizzazione che dovrebbe rispondere a criteri di efficienza in nome del servizio agli studenti e che è invece piegata ad altri interessi (basti pensare alle logiche sottese alle graduatorie del personale, agli orari di servizio, alla divisione degli alunni in classi di età);
● investire risorse in modo efficiente, partendo dalle richieste dei territori;
● personalizzare i curricoli secondo i bisogni formativi di ciascuno perseguendo, in tal modo, il fine dell’autonomia e di una scuola inclusiva».
A parte il preferibile plurale curricula (data la radice latina del vocabolo), le richieste avanzate dall’Associazione dei Presidi denotano non poco scollamento tra la funzione del proteggere e custodire e ciò che si vorrebbe per la scuola italiana. Una risposta costituzionale nel merito l’ha fornita l’Associazione Agorà 33, redattrice del Manifesto per la nuova scuola (consultabile su https://nostrascuola.blog/2021/03/20/manifesto-per-la-nuova-scuola/, che vede come firmatari/e Alessandro Barbero, Luciano Canfora, Chiara Frugoni, Vito Mancuso, Dacia Maraini, Tomaso Montanari, Roberto Piumini, Adriano Prosperi, Massimo Recalcati, Salvatore Settis, Gustavo Zagrebelsky): l’Associazione rileva come i Dirigenti scolastici si sentano sempre più spesso «padroni delle scuole, equiparate agli uffici postali o alle sedi dell’INPS, infastiditi dagli organi collegiali e dalle norme nazionali. Dirigenti per i quali il reclutamento dei docenti basato sulle graduatorie dei concorsi, gli orari di servizio e la divisione degli alunni per classi di età sono intralci inaccettabili ma sono invece priorità le “richieste dei territori”, i “propri progetti educativi” e la “personalizzazione dei curricoli”, tutte funzionali all’asservimento delle scuole a dinamiche locali di natura economicistica». Ma per i sostenitori e sostenitrici del Manifesto per la nuova scuola, «non è pensabile che le opportunità di sviluppo culturale e di crescita umana di un alunno siano in alcun modo determinate o anche solo influenzate dalla realtà economica in cui vive. Il continuo riferimento alla “personalizzazione” dei curricoli (tra l’altro solo illusoria, visto il numero di studenti per classe) evoca una scuola che non dovrà più aprire orizzonti culturali nuovi e imprevedibili per gli studenti, in un vero universalismo democratico, ma dovrà lasciarli lì dove sono, con una rapida verniciatura di ‘competenze’ necessaria a farne al massimo degli esecutori. A noi piace la concezione di scuola che fu di Piero Calamandrei, ossia quella di “organo costituzionale” e di “organo centrale della democrazia”. A loro piace la concezione di scuola come serva dell’economia» (il ben più ampio documento si può visionare alla pagina https://nostrascuola.blog/2022/12/10/risposta-dellassociazione-agora-33-la-nostra-scuola-al-documento-la-scuola-che-vogliamo-dellanp/).
Numero quattro: questo punto, più che un’incongruenza, mette in rilievo un vero e proprio stereotipo che, francamente, è abbastanza irritante, ovvero il flirt tra la “bella, giovane e attraente” professoressa di matematica Marina Girolami (interpretata da Sara Cardinaletti) e Dante (che, non abbiamo specificato, è un impenitente dongiovanni fino a quando non si innamora di Anita), tra l’altro quando lei è in procinto di sposarsi con Lino Battaglia (interpretato da Andrea Preti), il collega di Educazione fisica. Lui gioca ma lei langue, classico stereotipo di donna bella ma frivola, in preda all’attrazione sessuale che le fa perdere il controllo sulla sua vita sentimentale: direi “no grazie”, ne abbiamo abbastanza, e nell’economia generale della storia la fugace relazione tra Marina e Dante poteva anche rimanere a giacere nei cassetti polverosi delle sceneggiature non realizzate.
Numero cinque: altro stereotipo, questa volta appartenente prettamente all’immaginario comune del mondo scolastico, ovvero il professor Attilio Lombardi (interpretato da Paolo Bessegato), docente di latino arcigno, severo, incline a offese e sgradevoli commenti verso i suoi alunni e alunne, decano della scuola e custode di un mos maiorum che nella serie risulta forzatamente stonato e caricaturale (che tra l’altro proverà una affettuosa simpatia per Virginia, la madre di Dante, attrice di teatro che tiene corsi pomeridiani a scuola… e anche qui… parentele su parentele). A parte il fatto che ho visto professori di Educazione fisica (anch’essi stereotipicamente considerati gli “amiconi” degli studenti) essere molto più crudeli e graffianti, per cui non si capisce perché solo noi insegnanti di latino (sì, insegno latino anche io!) dobbiamo essere dipinti con pennellate di pungente disprezzo che ci rendono inadeguati, vetusti e a distanza siderale dal mondo dei giovani… ma ciò che più deprime è l’accostamento in negativo che si fa nella fiction tra Dante e Attilio, come se chiedere rigore nello studio e nella preparazione sia automaticamente in antitesi al fatto di essere un/una docente in grado di dialogare con gli studenti e comprendere il loro vissuto e le loro aspirazioni. Il carattere di Attilio, volutamente burbero e oppositivo nei confronti degli allievi/e, in contrapposizione ai metodi comprensivi e dialoganti di Dante genera una dicotomia tale per cui diventa luogo comune il discrimine tra insegnanti “umani” e insegnanti “disumani”. È un discorso che apre una parentesi enorme, ma vorrei solo giustappunto ricordare che essere insegnante significa esercitare una professione (non una missione) che ha un compito importantissimo nella nostra Repubblica, ovverosia trasmettere conoscenze intorno alle quali le giovani generazioni si interrogano, scoprono sé stesse e costruiscono la loro identità, in un dialogo e relazione costante con chi si è formato per insegnare e non per “facilitare” o “orientare”: la scuola (quella vera) è «fondata su una relazione intergenerazionale di cui le persone in crescita hanno un grandissimo bisogno e su un lavoro comune, strutturato e progressivo sulle conoscenze, che bambine/i e adolescenti non possono compiere da soli. Chiunque insegni a scuola sa che oggi “autoapprendimento” significa lasciare chi è giovanissimo in balia di contenuti social e digitali di scarsissimo valore e attendibilità, impossibili da vagliare criticamente e da contestualizzare in assenza di un punto di vista culturale esterno ad essi» (https://nostrascuola.blog/2024/06/26/la-formazione-le-competenze-la-storia/). Dunque, gli/le insegnanti che chiedono rigore e serietà nello studio non sono disumane rispetto a chi fonda la prerogativa della propria professionalità sulla falsa illusione di poter diventare amici/che e confidenti degli e delle studenti, spesso cedendo a un progressivo abbassamento della qualità dell’istruzione, che per Costituzione deve essere garantita a tutti nella scuola pubblica e che, invece, diventa oggetto di baratto nella ricerca di compromessi al ribasso: non ti boccio perché ti considero come ‘persona’ nella sua globalità e non per le tue insufficienze, non ti assegno compiti perché tu possa avere la libertà di fare quello che vuoi nel tempo libero, non valuto le tue verifiche per non mortificarti, non ti assegno troppe pagine da studiare ed elimino informazioni superflue per facilitarti l’apprendimento, non ti costringo a imparare a memoria una poesia o una declinazione latina perché è una fatica fine a sé stessa, e via discorrendo… Sembra fanta-scuola, vero? Non lo è, è il pensiero (con relativa applicazione metodologica) che si sta diffondendo sempre di più, anche tra docenti.
Fin qui mi si potrà tacciare di essere tra chi è detrattore della scuola a trazione Balestra/Gassman. In realtà, c’è un ma da contrapporre a quanto affermato sino a questo momento.

Ma, tenendo conto che si tratta, per l’appunto, di una fiction e non di un documentario, e tralasciando per un istante gli elementi evidenziati che manifestano scollamento rispetto alla realtà, a ben vedere la scuola agita dal professor Balestra è proprio una scuola basata sulla bellezza della conoscenza e sul dialogo intergenerazionale costante tra ragazze/i e adulti di riferimento. Le lezioni di Balestra sono le cosiddette lezioni frontali, tanto vituperate e demonizzate da fior fior di (pseudo?) pedagogisti e da figure che ne parlano a vario titolo pur non avendone il titolo, ovvero non esercitando la professione di insegnante. Delusi, vero? Pensavate che la lezione frontale fosse una strana porzione spaziotemporale in cui c’è un insegnante che parla ininterrottamente dalla cattedra a un muro di individui seduti immobili e silenti tra i banchi? Ebbene no: Dante Balestra fa lezioni frontalissime in cui pone al centro le conoscenze intorno alle quali interroga sé stesso, gli allievi e le allieve, in un dialogo costante (spesso en plein air, per le strade di Roma) mostrando loro come la filosofia contenga in sé tutto ciò che serve agli esseri umani per comprendere la realtà e provare a trovare una chiave di lettura per i propri dissidi esistenziali (amore, amicizia, famiglia, aspettative future…) e, dunque, il proprio posto nel mondo. Non posso non fare ancora ricorso alle illuminanti parole dell’Associazione Agorà 33: «la lezione, considerata non in modo statico ma dinamico, è costituita da innumerevoli interazioni, verbali, non verbali, affettive, immaginative tra l’insegnante e il gruppo classe; rappresenta cioè una modalità di relazione, che ha al centro la parola. […] Sicuramente un’esperienza relazionale che si incarni in una buona lezione permette una maggiore sottolineatura dei contenuti, la cui memorizzazione, rielaborazione e acquisizione è rafforzata dalle emozioni che la accompagnano, ed è promotrice di crescita personale e di maturità sociale, visto che mette in movimento importantissime dinamiche sia individuali che di gruppo» (https://nostrascuola.blog/2022/01/25/lezione-o-esperienza-una-falsa-alternativa/). Ecco, si applichi questo a ogni disciplina scolastica: si avrà la Scuola, quella della Costituzione, alla quale non necessiterà null’altro per svolgere al meglio il suo ruolo sociale se non persone appassionate, preparate e motivate a condurre per mano le giovani generazioni — per quel che loro compete — nel cammino della loro formazione individuale, di cittadini e cittadine consapevoli di sé stesse, della realtà che le circonda e delle scelte che sono chiamate a compiere. Nella serie salta notevolmente all’occhio, in tal senso, come non esista una sola puntata in cui per fare scuola l’insegnante o le/gli alunni utilizzino strumenti tecnologici e digitali o modalità didattiche stravaganti e alternative: alle spalle di Balestra campeggia una coppia di lavagne d’ardesia (!) su cui il professore scrive (con un gesso!) il nome del filosofo che tratterà quel giorno, armato solo di libro e null’altro, perché null’altro serve: «Nell’aula — scrive Zagrebelsky — si pronunciano e si odono parole. La lezione raggiunge il suo scopo per mezzo di parole. […] Le parole danno esistenza e stabilità alle cose. Se non si hanno le parole, le cose, di qualunque genere siano, fisiche o metafisiche, materiali o immateriali, non si possono afferrare e trattenere, cioè non possono essere acquisite» (da La lezione, Einaudi, Torino 2022). Se un/una insegnante è appassionata, preparata, carismatica, ti conduce per le vie della conoscenza nell’ora di lezione, che diventa un momento unico e irripetibile nella vita di chi è adolescente: «Un’ora sola, un’oretta di amore che la scuola ti ha dato e che tu hai ricevuto può essere tenuta a mente e valere per tutta la vita che resta» (La lezione, cit.). A latere, a proposito di conoscenze: ogni puntata della fiction è dedicata al pensiero di un filosofo, e tra i più noti (che hanno invaso di sogni e incubi le notti di tante/i liceali) come Socrate, Platone, Aristotele, Kant, Schopenhauer e tanti altri, compare il nome di Henry David Thoreau (episodio n.6 stagione 2 su RaiPlay), filosofo statunitense dell’Ottocento, precursore dell’ambientalismo e della nonviolenza, che non conoscevo e che mi ha spinto a cercarlo (noi insegnanti siamo appassionate e scrupolose ricercatrici, lo sapevate?). Consiglio la lettura di Disobbedienza civile, un libro che può davvero cambiare la prospettiva sul mondo, soprattutto se si è giovani. Leggerò a breve anche il Walden, indicato come il suo capolavoro.
Ma (un altro ma) l’altro merito della serie è quello di affrontare diversi temi attuali in un modo che mi è sembrato diverso rispetto a tante altre fiction targate Rai. Innanzitutto, l’omosessualità, presentata nella seconda stagione in una storia concreta tra adolescenti, quella tra Simone e Mimmo, giovane detenuto del carcere di Nisida ed ex allievo di Dante, che viene trasferito a Roma in regime di semilibertà e assegnato alla biblioteca del liceo “Da Vinci”. Le dinamiche che si instaurano tra i due ragazzi, a mio avviso, sono presentate sullo schermo in modo naturale, senza elementi artefatti che le rendano in qualche modo diverse da una storia etero a quell’età, sia nei protagonisti che nelle persone che ruotano loro intorno (familiari e amici). Anche nelle dinamiche di coppia etero si può notare una prospettiva differente, profonda, che lascia un messaggio in chi sa coglierlo. Dante e Floriana (interpretata da Christiane Filangieri) sono ormai separati ma senza drammi e nel rispetto dell’uno verso l’altra, provando a gestire il difficile ruolo genitoriale, tra errori, non detti, gesti inconfondibili, rinunce e scelte difficili. Nella vita di Dante compare Anita, un personaggio femminile incredibilmente dinamico, a tutto tondo, che non riesce a trovare una stabilità marmorea, totalizzante, nella sua esistenza e nelle relazioni, come anche lo stesso Dante, al punto che entrambi tradiranno (con i rispettivi ex). Potrebbero essere lo specchio di una società in cui le relazioni affettive sono spesso all’insegna dell’amore liquido, come ha spiegato il sociologo Zygmunt Bauman, per cui spesso gli individui sono divisi tra il desiderio di vivere le emozioni e la paura di legarsi a qualcuno/a. Ma le modalità di comunicazione tra i due personaggi (che si confessano quanto accaduto) non sono né melodrammatiche né tragiche ma nemmeno superficiali: ci sono un uomo e una donna adulti che si raccontano nella loro umanità, fragilità, incompiutezza, e il rapporto sessuale a cui si sono concessi con il/la rispettiva ex è parte di questo vivere l’esistenza come un divenire e le relazioni come una parte di un tutto, a cui dedicare rispetto con la sincerità e la verità che meritano, ma che non risultano mai essere totalizzanti, ingabbianti, nessuna/o possiede l’altra/o, nessuna/o vive alle dipendenze dell’altra/o. È spiazzante per chi ha una visione differente della vita e delle relazioni, ma è vicino all’attuale modernità, in cui non ci sono differenze di età in tal senso: le/i giovani come le/gli adulti oggi si riscoprono liquidi e non più solidi. Ciò che arriva a chi guarda, puntata dopo puntata, è un insegnamento importante, a mio avviso: uomo e donna sono alla pari in termini di capacità, di impegno lavorativo, di genitorialità, di fragilità, di forza di volontà, e ciò che spezza l’armonia costituita non è detto che debba diventare motivo di conflitto, di odio, di rivalsa. Al momento non sappiamo come evolverà il rapporto tra Dante e Anita, ma abbiamo visto che i due adulti, investiti dai loro errori e cedimenti, si sono confrontati con equilibrio e affetto, parlandosi apertamente e senza prevaricazione, e lo hanno fatto in un finale di stagione davanti a tutti i ragazzi e le ragazze protagoniste della serie, come a dire, siamo adulti, siamo i vostri punti di riferimento, ma possiamo sbagliare e cadere, tradire e soffrire: ciò che prevarrà sempre è l’amore, il rispetto, l’accettazione che nella nostra vita ci sono situazioni che sempre possono cambiare ed evolversi in altro che non ci è noto, ma che siamo chiamati a scoprire nella grande avventura chiamata vita. Un lascito potente ed educativo in una società in cui gli uomini umiliano donne, le rendono continuamente inferiori e incapaci di compiere scelte (di ogni tipo) parimenti a loro, fino ad ucciderle in una lunga scia di sangue che accomuna i tanti, troppi femminicidi nel nostro Paese. Nello stesso modo sapiente, mai forzato e comunque adatto a un pubblico di ogni età, sono trattati altri temi attuali come gli hikikomori, la disabilità, la malattia, il lutto e, chiaramente, il rapporto figli-genitori.

A tutto ciò si aggiunga la magistrale interpretazione di attori e attrici come Alessandro Gassman, Claudia Pandolfi, Nicolas Maupas e Damiano Gavino su tutti, e la bellissima colonna sonora Spazio tempo di Francesco Gabbani, che rendono — a mio avviso — la serie Un professore una delle più interessanti prodotte dalla Rai negli ultimi anni, bella di una bellezza che sa più di verità che di inganno. Canticchiando la canzone di Gabbani, inevitabilmente riaffiorano alla memoria le “frontalmente” appassionanti lezioni di Dante Balestra…
Nei millenni tutti gli anni
Aspettando primavera
Un Platone, un Botticelli d’emblée
La maieutica del fai da te
Vuoi morire, vivere con me
E poi così, il tuo ritorno
Eclissi in un qualsiasi mezzogiorno
Mi trasformo
Cercando luce in fondo al mondo
E insieme un inganno non c’è
È solo una follia
Un salto nel vento
Un’ora nello spazio
Un punto nel tempo
È un giorno che va via
Un appuntamento
Un battito perpetuo
Che dura un momento
In copertina: una lezione al Colosseo.
***
Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione
