Fuori dal mondo alla rovescia immaginato dai poeti comici, in cui anche alle donne si riconosce il diritto al libero soddisfacimento del desiderio sessuale, nella vita reale l’istituzione del matrimonio a esse sole impone l’obbligo della fedeltà assoluta, e insieme l’accettazione dell’infedeltà maschile come espressione di una virilità prorompente.
Modello per eccellenza il re degli dei, Zeus, si compiace di sedurre fanciulle illibate e donne già sposate e di procreare un numero imprecisato di rampolli; e se ne vanta anche in presenza della legittima consorte Era, protettrice del matrimonio, della famiglia e delle partorienti.
Ma la dea, al contrario di Andromaca, la sposa di Ettore che prova affetto come se fossero anche suoi, per i figli che il marito genera con altre, non resta indifferente ai continui tradimenti dello sposo celeste e la gelosia la spinge a ordire vendette feroci contro le sue amanti e i suoi numerosi figli illegittimi. Così quando Zeus decreta un futuro glorioso per il figlio che sta per nascergli da Alcmena, sedotta assumendo le sembianze del marito Anfitrione assente, Era riesce a bloccare il travaglio già iniziato, per stornare la profezia dal nascituro, il futuro Eracle. Il bambino, tuttavia, viene al mondo dotato di una forza prodigiosa e, benché perseguitato dall’odio di Era, riuscirà a sfuggire a ogni pericolo e a sconfiggere gli innumerevoli mostri che infestano la vita dei mortali, ergendosi a paladino dell’umanità sofferente.
A portarlo alla morte, dopo un’agonia dolorosissima, sarà il dono con cui la moglie Deianira spera di legarlo a sé, mossa dalla gelosia per l’ennesima donna di cui il marito si è invaghito: secondo il mito Eracle avrebbe avuto settanta “mogli” e un numero imprecisato di figlie/i.
La vicenda costituisce l’argomento della tragedia di Sofocle intitolata Trachinie dalle donne della città tessala di Trachis, che compongono il coro. L’antefatto ce lo racconta nei primi versi la stessa Deianira, rievocando con emozioni contraddittorie la sua storia: la storia emblematica di una ragazza che il padre si prepara a dare in sposa, mentre lei, impietrita dal disgusto e dal terrore, assiste impotente alla gara di cui sa di essere il premio: «La mia vita già prima di sprofondare nell’Ade è triste e carica di angoscia. Quando abitavo ancora nella casa di mio padre Oineo, la prospettiva delle nozze mi disgustava e mi straziava, come nessun’altra donna: il mio pretendente era il fiume Acheloo».
Mentre quello, per far colpo, assume forme animali sempre diverse — di toro, di drago, di bue — Deianira, immobile su una roccia appartata, invoca la morte, che la sottragga all’amplesso. «Ma poi sopraggiunse il figlio glorioso di Zeus e Alcmena, che si batté con il mostro e mi liberò, per la mia gioia. Come si svolse lo scontro non lo so, lo potrebbe raccontare chi vi avesse assistito imperturbato, come a uno spettacolo, non io che giacevo atterrita, temevo che la mia bellezza potesse recarmi dolore. Lo scontro si concluse felicemente, se di felicità si può parlare: divenni la sposa di Eracle e da allora mi divora angoscia su angoscia, sempre in ansia per lui; una notte incalza l’altra, a portare strazio, a farlo dileguare. Abbiamo generato figli. Ma Eracle li visitava come il contadino che abbia un terreno fuori mano: lo va a vedere solo al tempo della semina e a quello del raccolto. Era questa la sua vita, che lo riconduceva alla sua casa, e poi ancora via da casa». Sofocle, Trachinie.

Parole amare e crude, che descrivono la vita coniugale, costellano il testo dall’inizio alla fine, insieme a quelle che esprimono il rimpianto degli anni precedenti al matrimonio: «La giovinezza germoglia in spazi tutti suoi, non la turbano la vampa del sole, la pioggia, il vento. Vita che si esalta, senza pena, nella gioia: fino a quando non la chiamano più ragazza, ma donna. Allora la coglie la notte l’affanno e l’ansia per lo sposo e poi per i figli. Solo chi ci è passata se guarda a quello che ha patito, può capire il peso delle mie sventure». Così l’eroina si rivolge alle donne del coro, desiderose di alleviare l’ansia che la tormenta: Eracle è lontano da casa da più di un anno e Deianira teme che non sia più in vita.
Ma finalmente un araldo preannuncia il ritorno dell’eroe vittorioso dopo l’ultima fatica che gli ha chiesto di precederlo insieme al bottino di guerra: uno stuolo di schiave, tra le quali Deianira nota subito una ragazza dall’atteggiamento nobile e particolarmente bella. Mossa a compassione dall’esperienza del dolore e della miseria della condizione femminile, la invita a entrare in casa: «Provo una pietà tremenda, per queste infelici, erranti in terra straniera, senza casa, senza padre, forse nate da uomini liberi e adesso ridotte in schiavitù. Prego Zeus che non capiti mai ai miei figli… Questa giovane sia lasciata in pace ed entri nella mia casa come preferisce: nessun altro dolore, almeno da parte mia, si aggiunga alla sua sventura presente. Patisce già abbastanza». Anche quando scopre che quella donna è l’ultima fiamma di Eracle che ne ha ucciso il padre e distrutto un’intera città solo per possederla, afferma di non avercela con lei e neppure col marito: «Conosco la forza di Eros e le abitudini degli uomini, incapaci di trarre piacere sempre dalle stesse fonti […] sarei folle a rimproverare mio marito, se lo ha colpito questa malattia […] Eracle non è stato forse l’unico uomo anche di tantissime altre donne? Eppure nessuna di loro ha ricevuto da me insulti né offese. E questa ragazza, appena l’ho vista, ha suscitato in me, grandissima pietà: la sua bellezza le ha distrutto la vita».
Nonostante il coraggioso tentativo di affrontare razionalmente la realtà, Deianira soffre sapendo che la sua bellezza, intaccata dagli anni e dalle tante gravidanze, non può competere con la giovinezza in fiore: «Ho accolto nella mia casa costei, non più vergine, credo, ma donna già aggiogata al maschio, come il marinaio imbarca un carico, ed è merce che mi devasta l’anima: ora saremo in due ad aspettare l’amplesso sotto un’unica coperta. Questi sono i doni con cui mi ha contraccambiato Eracle […] ma non riesco a prendermela con lui che già tante volte è stato vittima di questa malattia. Ma quale donna potrebbe dividere la casa con costei, e spartirsi lo stesso sposo? In lei la giovinezza fiorisce, in me declina. L’occhio desidera cogliere il suo fiore, si distoglie da me. Ho paura che si dica di Eracle: “è suo marito, ma è l’uomo della più giovane”. Però non è bello che una donna saggia si lasci andare alla collera».
Forse, confida alle donne del coro, ha trovato un rimedio. Ha mandato come dono di benvenuto al marito una tunica imbevuta di quello che crede essere un filtro magico: così le ha assicurato il centauro Nesso, cui Eracle l’aveva affidata per traghettarla al di là del fiume nel viaggio di trasferimento verso la loro dimora, subito dopo il matrimonio. Ma Nesso ne aveva approfittato per tentare di violentarla e l’eroe l’aveva colpito a morte con una freccia avvelenata. Il centauro, pur moribondo, aveva fatto in tempo a suggerire a Deianira di raccogliere il suo sangue e conservarlo per servirsene all’occorrenza come filtro d’amore, capace di garantire la fedeltà eterna dell’uomo amato. Deianira ha affidato la tunica all’araldo, senza aggiungere messaggi: il pudore le impedisce di dar voce al suo forte desiderio di riabbracciare il marito; e poi, aggiunge, non vuol farlo, prima di sapere se lui la ricambia.
Ma poi tutto precipita rapidamente: Deianira si rende conto che il centauro l’ha ingannata e temendo che quel dono provochi la morte del marito, rivela alle donne del coro di aver deciso fermamente, nel caso che la sua intuizione si riveli giusta, di metter fine alla sua vita: «Non sopporterebbe di vivere da infame chi sente di esser nata per l’onore e a esso tiene più che a ogni altra cosa». E respinge sdegnata il tentativo che quelle fanno di attenuare la sua responsabilità: non ha colpa, chi compie un misfatto involontariamente. Quando le giunge la notizia che Eracle, indossata la tunica, si contorce negli spasimi di un’atroce agonia, Deianira si ritira nella camera nuziale, si getta sul letto che ha condiviso con lui, lo invoca in un ultimo saluto e si trafigge con un pugnale.
Per capire l’importanza di questo particolare bisogna ricordare lo statuto della morte nel mondo greco. Se la morte dell’eroe avviene per mano del nemico sul campo di battaglia, questo gli assicura la gloria e la memoria: non a caso Elettra e Oreste, figli di Agamennone, si dolgono delle modalità dell’uccisione del padre, più che della sua morte stessa: a dargliela è stata una donna e non un suo pari. La vita degli eroi uccisi in battaglia da mano nemica si prolunga nell’eternità attraverso il canto dei poeti e la celebrazione ufficiale che la città affida all’epitafio — il più celebre quello che Tucidide fa pronunciare a Pericle, per i morti del primo anno della guerra del Peloponneso. Le donne invece muoiono nel proprio letto e non ne resta memoria, se non nelle brevi parole incise sulla lastra tombale. Del resto, si ricorderà, di loro è bene che non si parli, neppure della loro virtù.
Ma se è bello morire per la patria, la vita è un valore e la morte non bisogna cercarla, il suicidio non è gesto da eroi: si suicida infatti Aiace — nell’omonima tragedia di Sofocle — per la vergogna di aver fatto strage di greggi, credendo di vendicarsi di chi l’ha offeso negandogli il riconoscimento che gli spettava.
Le donne non muoiono di spada, arma che è attributo maschile, e neppure di armi da taglio, il loro corpo non deve esser squarciato e sanguinare: Antigone, Giocasta e Fedra s’impiccano con un velo, una sciarpa, strumenti femminili, di seduzione e insieme di pudicizia. Simbolicamente il nodo che le strangola suggella definitivamente nel silenzio il loro corpo.
Deianira scegliendo il pugnale rivendica per sé una morte nobile, che la metta sullo stesso piano degli eroi, rendendola degna sposa di Eracle: il coro stenta a credere che una mano di donna abbia avuto tanto coraggio.
Eracle, nel frattempo, delira in preda ai tormenti di una morte lenta, atroce e, per colmo, poco eroica: «Non è stata la sposa di Zeus […] mi ha ucciso una donna, da sola, senza spada, una femmina che non ha tempra virile […] E io, che ho sempre percorso il solco delle mie sventure senza versare lacrime, mi vedo trasformato in una donnetta». Anche quando il figlio gli rivela la fine di Deianira, continua a imprecare contro di lei e resta sordo alle parole di lui, che rivendica l’innocenza della madre, ignara della trappola in cui l’ha attirato col suo dono.
Ma Eracle non si limita a questo: dopo aver impegnato con un giuramento il figlio Illo a obbedire a ogni sua richiesta, gli impone di sposare Iole, la figlia di Eurito, re di Elalia, la bella ragazza che Deianira aveva accolto ignara nella sua casa: «Poiché giacque al mio fianco, nessun altro uomo, all’infuori di te, deve possederla». A nulla valgono le accorate proteste del giovane, che rifiuta di unirsi proprio con colei che ha causato la morte di entrambi i suoi genitori: dovrà piegarsi all’ultima volontà del padre, che intende farne il suo erede, nel suo duplice aspetto di campione della passione amorosa e di vincitore mai sconfitto in imprese eroiche contraddittorie, ma civilizzatrici.
Infine lo consegna alle fiamme della pira, perché lo liberino da sofferenze insopportabili.
Ma Zeus accoglierà il figlio tra gli dei, sull’Olimpo, dove gli darà in sposa Ebe, la dea della giovinezza.
In copertina: E. de Morgan, Deianira (particolare), XIX sec.
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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.
