Come scrive Rebecca Solnit nel suo Storia del camminare, la camminata è sempre stata al centro della storia dell’umanità, dal passaggio evolutivo del bipedismo in poi; camminare non è solo un modo per spostarsi da un luogo all’altro, ma è anche la pratica con la quale gli esseri umani hanno plasmato lo spazio intono a loro, dalla creazione di sentieri alla costruzione di intere città. Camminare è anche un atto politico, appropriarsi delle strade solitamente occupate dalle automobili è ciò che si fa durante le manifestazioni di protesta o le occasioni di festa collettive, entrambi momenti di forte coesione sociale.
Alcuni artisti e artiste hanno sfruttato la libertà di movimento offerta dalla camminata in città come pratica artistica, partendo dal flâneur ottocentesco (https://vitaminevaganti.com/2022/11/05/flaneuses-donne-nelle-citta/) fino ad arrivare alle passeggiate surrealiste o alle derive situazioniste, momenti in cui il solo “scopo” è riscoprire la città guardandola con gli occhi di chi non ha paura di “sprecare” il proprio tempo.
Le tre artiste qui brevemente presentate, offrono esempi diversi di uso della camminata urbana come riappropriazione dello spazio pubblico e denuncia di squilibri sessuali e razziali ancora molto visibili nelle nostre città.
Nel 1970 Adrian Piper, artista afroamericana all’epoca poco più che ventenne, elabora alcune “performance” eseguite per le strade di New York con l’intenzione di studiare i meccanismi della percezione; in quel periodo legge l’opera di Immanuel Kant ed entra in contatto con il femminismo americano, un femminismo a maggioranza bianca in cui però non si riconosce. Durante queste azioni l’artista cammina per le strade affollate della sua città o sale sui mezzi pubblici durante l’ora di punta con gli indumenti palesemente dipinti di bianco e un cartello che annuncia la presenza di vernice fresca appuntato sul petto (Catalysis III) o il lembo di un asciugamano infilato in bocca (Catalysis IV), con dei palloncini nascosti sotto i vestiti e agganciati al volto (Catalysis IV), oppure indossando abiti lasciati immersi per giorni in sostanze maleodoranti come uova, aceto, olio di fegato di merluzzo (Catalysis I).


Lo scopo di Piper è quello di osservare, nel modo più oggettivo possibile, le reazioni delle persone che la incontrano e i loro comportamenti quando lei prova a interagire con loro; il termine “catalisi” è preso in prestito dalla chimica e definisce quel fenomeno in cui la velocità di reazione degli elementi si modifica per la presenza in piccole quantità di una sostanza, definita appunto catalizzatrice, che non viene assimilata nel processo. L’artista si inserisce in un contesto quotidiano come un elemento alieno proprio per provocare frizioni e disturbare ciò che si definisce normale.
In un’intervista del 1972 con la critica d’arte Lucy Lippard, Adrian Piper spiega che, pur riconoscendo la caratura artistica di questi lavori, sarebbe stato inutile presentarli in un contesto idoneo come una galleria o un museo davanti a un pubblico istruito e preparato; per garantire una reazione spontanea, occorreva invece spingersi in strada senza annunciarsi come artista. Anche per questo motivo non ci sono molte testimonianze della serie Catalysis oltre alle relazioni scritte in cui Piper annotava scrupolosamente le sue sensazioni e conclusioni: la presenza di dispositivi di registrazione avrebbe attirato l’attenzione e vanificato l’intera impresa inquinando la genuinità che Piper cercava, per cui non esistono filmati ma solo pochissime fotografie.
Molto più documentata è invece la fase del Mythic Being, un alter ego maschile che Adrian Piper impersona tra il 1973 e il 1975 per diversi lavori multimediali, indossando una parrucca afro, dei grandi baffi neri, occhiali da sole con le lenti specchiate e tenendo tra le labbra una sigaretta; questa volta l’attenzione la rivolge verso sé stessa, notando come cambia il suo atteggiamento e il modo di vivere lo spazio pubblico nei panni di un uomo. Adrian Piper scrive di aver scelto di dar vita a una tipologia di uomo molto lontana da lei e verso il quale mai sarebbe stata attratta sentimentalmente, eppure percepisce con piacere la libertà di movimento che gli consente tale veste maschile.

Nel pomeriggio del 26 febbraio 2015 l’artista afghana Kubra Khademi percorre per una decina di minuti una strada affollata del quartiere Kote-Sangi di Kabul, indossando sopra i vestiti un’armatura in metallo con le forme dei seni e dei glutei scolpite in forma esagerata; alle donne afghane non è concesso camminare da sole senza uno scopo particolare, come per esempio fare la spesa, e per evidenziare quanto sia pericolosa la strada per loro, l’artista sceglie di indossare questa particolare corazza anatomica (che dà il nome alla performance, Armor), la quale, oltre a essere un dispositivo di protezione, evidenzia i punti del corpo oggetto dell’attenzione maschile.

Lungo tutto il percorso l’artista viene inseguita da un crescente numero di uomini e ragazzi, inizialmente divertiti da ciò che vedono: in pochi minuti però la folla si fa più aggressiva, Khademi viene insultata e colpita con dei sassi. Le reazioni erano state previste dall’artista, che nell’organizzare la performance aveva contattato una persona di fiducia per aspettarla in un punto concordato a bordo di un’automobile, in modo da potersi allontanare in fretta. Ciò che non le fu possibile prevedere fu la circolazione rapidissima su Facebook di filmati e fotografie realizzati quel pomeriggio; in pochi giorni le immagini della sua performance raccolsero commenti violenti, minacce di morte e false accuse di blasfemia.
Pochi giorni dopo, il 19 marzo, un’altra ragazza afghana, Farkhunda Malikzada, fu aggredita e lapidata nelle medesime strade di Kabul, barbaramente uccisa da più di cinquanta uomini in seguito all’accusa, successivamente rivelatasi falsa, di aver bruciato una copia del Corano.
Il caso generò grande clamore, dibattiti infiammati e proteste femministe in strada: buona parte dell’opinione pubblica dichiarò Kubra Khademi responsabile indiretta del linciaggio, per aver contribuito a creare e diffondere tensioni tra uomini e donne con la sua arte.
Khademi decide quindi di lasciare l’Afghanistan e si trasferisce a Parigi, ospite dell’Atelier des artistes en exil, fondato nel 2017 da Judith Depaule e Ariel Cypel per offrire rifugio e opportunità lavorative ad artisti e artiste in fuga da guerre, discriminazioni, persecuzioni politiche o religiose.
Qui continua la sua ricerca artistica senza perdere interesse per la strada, luogo che Khademi, prima di Armor, aveva già scelto per alcune sue performance, tra cui The Moist Realities del 2013, realizzata a Lahore, in Pakistan; in questa occasione la giovane artista stende sull’asfalto di una strada trafficata un telo sopra la quale legge e beve del tè incurante delle automobili e motociclette che le sfrecciano accanto.

A Parigi nel 2016 Khademi propone Kubra et les bon hommes piétons (https://vimeo.com/155744345); vestita con un abito nero che richiama la figura femminile stilizzata usata nella segnaletica, cammina per le vie di Parigi con una riproduzione rudimentale di un semaforo pedonale sulla testa in cui le due sagome luminose rosse e verdi rappresentano non un uomo, ma una donna.

Un altro esempio di camminata performativa lo offre Mona Hatoum, artista libanese di origini palestinesi, dal 1975 rifugiata a Londra in seguito allo scoppio della guerra civile in Libano. Nel 1985 Hatoum partecipa a una mostra corale allestita presso la Brixton Art Gallery, nell’omonimo quartiere di Londra; durante il periodo di apertura della mostra, dal 18 maggio all’8 giugno, gli artisti e le artiste partecipanti realizzano ogni giorno (senza annunciarsi come performers) azioni di varia natura in città, sapientemente documentate da fotografie e video poi allestiti in galleria. In questa occasione Mona Hatoum il 21 maggio presenta quella che diverrà la sua performance più celebre, Roadworks, azione della durata di circa un’ora in cui l’artista esce dalla galleria e percorre a piedi nudi le strade di Brixton, concentrandosi in particolare sull’area del mercato, trascinando dietro di sé dei grossi anfibi legati con i loro stessi lacci alle caviglie.


Per quanto gli anfibi fossero molto comuni nella moda dell’epoca, erano anche le scarpe indossate dalle forze dell’ordine e dai gruppi neo-nazisti; per molte persone erano, e sono ancora, indumenti facilmente associabili alla repressione e all’odio razziale. Proprio per questo, come racconta Mona Hatoum in diverse interviste, la comunità di Brixton non ha avuto problemi a comprendere il senso della performance e ad accoglierla positivamente. Doveva essere infatti ancora piuttosto viva la memoria delle proteste del 1981, quando il quartiere, in cui convivono diverse culture, fu teatro di violenti scontri con la polizia, accusata di aver condotto indagini sommarie e superficiali in seguito all’incendio in cui morirono undici giovani persone appartenenti alla comunità afro-caraibica.
In copertina: Adrian Piper nei panni del Mythic Being.
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Articolo di Cecilia Babolin

Studio storia dell’arte contemporanea ma mi interesso anche di museologia, femminismo e postcolonialismo. Dopo aver studiato a lungo l’arte sotto il regime fascista, mi sto dedicando al secondo Novecento, in particolare agli anni Sessanta e Settanta. Da poco ho cominciato a esplorare campi nuovi come l’architettura e il cinema sperimentale.
