Il termine francese flâneur è difficilmente traducibile in italiano: bighellone e vagabondo hanno un’accezione negativa, mentre il femminile, passeggiatrice, ha una connotazione sessuale moralmente riprovevole.
La figura letteraria del flâneur compare nel 1840 in L’uomo della folla di Edgar Allan Poe, dove si confrontano due figure: un narratore, che cerca invano di definire il paesaggio metropolitano in rapida evoluzione, e un individuo di identità indeterminabile. Questi personaggi rappresentano le due facce di quello che, in breve tempo, diventerà il flâneur per eccellenza: colui che vaga senza meta per le strade, nell’ambigua attesa di (ri)conoscere l’insolito nella monotonia, mentre la sua identità scompare nell’anonimità della folla. Nella realtà, come in letteratura, questa figura trova il suo habitat naturale a Parigi, sui boulevard della seconda metà del XIX secolo, nella descrizione di Charles Baudelaire: «la folla è il suo ambiente, come l’aria quella dell’uccello, come l’acqua quella del pesce. La sua passione, la sua professione, è quella di sposare la folla».

Il più famoso flâneur del XX secolo è Walter Benjamin, che proprio a Parigi pratica l’arte del passeggio senza scopo: scrive quindi non del flâneur, ma da flâneur. Secondo lo scrittore tedesco «chi cammina lungo le strade senza meta viene colto dall’ebbrezza. Ad ogni passo l’andatura acquista una forza crescente; la seduzione dei negozi, dei bistrot, delle donne sorridenti diminuisce sempre di più e sempre più irresistibile si fa, invece, il magnetismo del prossimo angolo di strada, di un lontano gruppo di foglie, del nome di una strada…». Al contrario, nello stesso periodo la figura della flâneuse quasi non esiste: per la cultura di fine Ottocento e inizio Novecento le donne che passeggiano sole per strada sono prostitute di professione, o comunque sessualmente disponibili; non si tratta perciò di soggetti che osservano, ricercano emozioni, inseguono suggestioni come nel caso del flâneur, ma più che altro di oggetti passivi, suscettibili di osservazione e giudizio.
Sono soprattutto le studiose contemporanee ad approfondire questo argomento: Janet Wolff, nel suo saggio, afferma che «la letteratura […] mettendo sullo stesso piano ciò che è moderno con ciò che è pubblico, omette di descrivere l’esperienza femminile della modernità». Elizabeth Wilson studia la posizione delle donne nelle vie delle città dal punto di vista sociologico: «con l’intensificazione della separazione fra pubblico e privato dopo la rivoluzione industriale la presenza di donne nelle strade e nei luoghi di intrattenimento fu causa di grande apprensione e fu occasione di innumerevoli discussioni moralizzanti e normative», afferma; perciò, mentre Wolff si limita a negare l’esistenza delle flâneuses, Wilson sottolinea la possibile criticità di figure femminili anche solo potenzialmente attive nelle strade cittadine.
Se si considerano le testimonianze del tempo, non stupisce che Marie Bashkirtseff, artista russa trapiantata a Parigi, scriva nel 1879 nel suo Diario: «Ciò che invidio è la libertà di uscire da sola, di andare, venire, sedermi su una panchina dei giardini delle Tuileries e, soprattutto, andare al Lussemburgo a guardare le vetrine decorate dei negozi, entrare nelle chiese e nei musei, e passeggiare la sera nelle stradine della città vecchia. Questo è quello che invidio, senza la libertà non si diventa grandi artisti». Nonostante Marie sia un’espatriata, un’aristocratica, un’artista incurante degli scandali, nonostante sia malata di tubercolosi e perciò stesso condannata a morte precoce, tuttavia ha interiorizzato quel conformismo che le fa acutamente sentire il bisogno, e la mancanza, di poter passeggiare dove e quando le pare per le strade parigine, unica condizione che farebbe di lei una vera artista. Ma, conclude, «una donna che vagabonda è un’imprudente»: perciò rimane a casa.

La severa regolamentazione della presenza delle donne in pubblico è testimoniata da Josephine Butler, attivista dei diritti umani negli anni Settanta dell’Ottocento, che visitò le presunte “prostitute” nella prigione di St. Lazare e scrisse: «Quando chiesi quale crimine avesse portato in prigione la gran parte di loro, mi fu risposto che era perché avevano passeggiato in strade proibite, in ore proibite».
Sono escluse dal giudizio morale le operaie, che percorrono il tragitto casa-lavoro, le venditrici ambulanti, che ricoprono un preciso ruolo e, infine, gli «occhi della strada», come Jane Jacobs definisce le «comari», la cui presenza rimane però circoscritta al quartiere di appartenenza, con funzione di controllo sul vicinato.
La comparsa delle donne in strada diventa più frequente nel primo dopoguerra: dopo che le donne hanno dovuto sostituire in ogni campo della produzione gli uomini impegnati al fronte si è infatti rivelato quasi impossibile costringerle a rientrare nell’ambito domestico. Gli anni Venti aprono alla presenza femminile nelle vie di Parigi: nel romanzo Nadja del surrealista André Breton la protagonista, oltre a rivestire il consueto ruolo passivo di oggetto dello sguardo maschile, assume un ruolo attivo. La studiosa Mirka Ahonen afferma che Nadja «osserva gli altri come flâneuse […] cammina senza uno scopo preciso, si trova là [per strada] per osservare la gente», consapevole della propria identità turbativa dell’ordine consueto delle strade, capace di formulare giudizi ed esprimere opinioni su quanto la circonda. Secondo Lauren Elkin, autrice del recente Flâneuse, è il concetto stesso di flâneur/se che andrebbe ridefinito, invece di adattare sulla donna il modello maschile. Dello stesso avviso la scrittrice Rebecca Solnit: «va considerato a quale spazio pubblico ha diritto la donna e quale le è invece precluso», tenendo presente che può circolare liberamente se, da oggetto di sguardi e apprezzamenti, il possesso di denaro proprio la trasforma invece in soggetto acquirente.
Questi studi moderni si collocano nel solco di Virginia Woolf, che già nel 1927, con il saggio Street Haunting, a London Adventure (A zonzo. Un’avventura londinese), aveva intuito la necessità di rompere l’uniformità dello sguardo maschile e mettere per iscritto le osservazioni di una donna nel suo libero vagabondare per le vie della città . Woolf percepisce le uscite femminili come una liberazione dalla «conchiglia che la nostra persona ha secreto per alloggiarvisi», per apprezzare «la lucentezza da champagne dell’aria e la socievolezza delle strade»; il momento ideale è la sera, in inverno, perché «ci offre l’irresponsabilità del buio e della luce elettrica», dove «non siamo più veramente noi stessi» e «ci togliamo di dosso la consueta personalità […] per diventare membri di quel vasto esercito repubblicano di anonimi pedoni». Come già il flâneur parigino, anche la flâneuse-Virginia non si afferma come osservatrice individuale, ma è un’entità che si perde nel suo habitat metropolitano. Un io che si dissolve, del quale rimane solo «l’ostrica centrale della percezione, un enorme occhio» che osserva una folla di uomini e donne anch’essi «sfuggiti alla trappola» della vita che «delusa e senza preda, dovrà fare a meno di loro»: gli haunters appunto, coloro che infestano la città con la loro presenza. Quelle che Woolf osserva sono soprattutto le caratteristiche della strada, la vegetazione che la adorna, le luci che la illuminano, gli uffici, le case private, alla porta delle quali però bisogna fermarsi, per non correre il rischio di «frugare più in fondo di quanto l’occhio possa approvare» e risvegliare «l’esercito degli esseri umani» con «tutte le sue stranezze, le sue sofferenze, le sue miserie». La flâneuse-Virginia, perciò, preferisce continuare la sua passeggiata da sola, senza entrare in intimità con altri esseri umani. L’occhio la soccorre, allontanandola da qualunque approfondimento, fermandosi sulla superficie, «poiché l’occhio ha questa strana qualità: quella di fermarsi soltanto sulla bellezza». Proprio grazie alla bellezza la strada di Woolf si trasforma in una «casa immaginaria» che oltretutto, una volta costruita e arredata, non è necessario possedere e si può invece smantellare e ricreare, godendo così di uno stato di fantasiosa leggerezza.
La scrittrice prosegue il cammino, per il quale ha addotto un pretesto banale: l’acquisto di una matita; non appena fuori dal proprio ambiente domestico si ritrova a fantasticare così profondamente da immaginarsi in una situazione del tutto diversa e provare uno straniamento totale: forse, riflette, ciò accade perché ogni individuo è solo un insieme di frammenti cui «le circostanze impongono l’unità». Tuttavia Virginia-flâneuse avverte il pericolo della deriva in una spirale senza fine di considerazioni, dalla quale viene fortunosamente salvata dall’apparizione di una libreria di seconda mano, «un ancoraggio tra le contraddittorie correnti dell’essere»; una vetrina che le propone libri di «viaggiatrici, che ancora testimoniano, indomite zitelle, le scomodità subite e i tramonti ammirati». Nel suo percorso, si abbandona alla profondità di «una parola, e sulla base di quella parola casuale costruiamo una vita», dimostrando così che la sua non è tanto un’osservazione di immagini, quanto una ricostruzione immaginaria a partire da un dettaglio. Il pensiero della matita da acquistare torna prepotentemente, di quando in quando, a interrompere questa deriva senza meta, a ri-dirigerla al suo compito, a ricordarle il suo scopo; finché, quando raggiunge l’ampia distesa del Tamigi «larga, malinconica, pacifica», gli occhi che si soffermano sul fiume sono quelli di «un’altra persona, appoggiata al muretto del lungofiume una sera d’estate, senza una preoccupazione al mondo […] e presto diventa evidente che questa persona siamo noi stessi». È un’altra flâneuse quella che incontra ora chi legge: colei che passeggia senza meta, osservando il mondo, guardandosi intorno nell’attesa, nella certezza di qualcosa di straordinario attraverso l’ordinario della folla cittadina. Poche righe dopo però è proprio la narratrice a ritrarsi da questa fantasia: colei che non subiva più la pressione degli avvenimenti era del tutto separata dalla realtà e cercava la morte nel fiume. Woolf fugge da questa presenza immaginata e si affretta a riprendere il proprio punto di vista per tornare alla vita e assolvere al suo compito banale: l’acquisto della matita. Adesso, vista dall’interno della cartoleria, la strada assume un aspetto completamente diverso: la «lucentezza da champagne dell’aria» e «la socievolezza delle luci» si sono di colpo trasformate nella banalità della «strada d’argento martellato». L’incanto è finito e, sulla via del ritorno, ricordando i passanti incontrati e le storie create per ciascuno di loro, Woolf osserva che «ognuna di queste vite si era lasciata penetrare un poco, abbastanza da poterci dare l’illusione che non siamo incatenati a una mente sola, bensì possiamo assumere brevemente, per qualche minuto, i corpi e le menti altrui […] e niente è più delizioso né meraviglioso di questo abbandonare le linee rigide della personalità per spiare lungo quei sentieri che ci portano, sotto la boscaglia e i grossi tronchi, nel cuore della foresta dove abita quella bestia selvaggia, il nostro prossimo». Si rientra così nel quotidiano insieme di «vecchi possessi, vecchi pregiudizi» che ricostituiscono integro «quell’io, sbattuto dal vento di tanti incroci, imbattutosi come una farfalletta nella fiamma di tante inaccessibili lanterne, finalmente protetto e rinchiuso». Anche se divagazioni impreviste e fantasie audaci l’avevano condotta nelle terrae incognitae delle identità altrui, il ritorno alla situazione di partenza e l’adempimento del proprio scopo – il banale acquisto di una matita – riportano la protagonista alla normalità.

A differenza della flâneuse Virginia, quando passeggiano per le città del Grande Nord le viaggiatrici italiane non sono appena uscite dal guscio protettivo del loro ambiente domestico, ma sono di ritorno da escursioni, spesso avventurose e sorprendenti; secondo la propria sensibilità ciascuna di loro percepisce in maniera personale gli spazi urbani, solo in apparenza simili a quelli italiani. I loro resoconti dimostrano come ciascuno sguardo colga aspetti differenti o, al contrario, gli stessi aspetti appaiano in una prospettiva diversa, a seconda del punto di vista. Soprattutto, però, sono le viaggiatrici stesse a trovarsi in una posizione del tutto inconsueta: sono semplicemente “invisibili” turiste, che non devono giustificare la loro presenza e godono di una libertà sconosciuta in patria: non hanno, insomma, alcuna matita da acquistare.
In copertina: Rue de la paix, in un dipinto dell’800.
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Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.