Vite intrecciate, fili di speranza. Parte seconda

Continuiamo l’approfondimento del rapporto Interwoven Lives, Threads of Hope: Ending inequalities in sexual and reproductive health and rights, scavando più a fondo nel primo capitolo (link articolo precedente: https://vitaminevaganti.com/2024/07/20/interwoven-lives-threads-of-hope/ ).
In questa sezione, il Report approfondisce il linguaggio della disuguaglianza, perché, come è noto, attraverso le parole che usiamo possiamo esprimere e dare forma alle nostre idee. L’attenzione posta al riguardo è necessaria per descrivere al meglio i processi che portano alcuni gruppi a essere emarginati, non riducendo tali situazioni a mancanza di impegno o volontà da parte degli individui stessi. Utilizzare alcune locuzioni nel parlare può ostacolare il progresso. Forse, per spiegarlo, possiamo usare un esempio: una comunità può essere, come ci sarà capitato di leggere o sentire, lasciata indietro, se parliamo di diritti o conquiste civili; però dovremmo domandarci, e se invece fosse spinta indietro? In entrambi i casi, è facile capire che un certo numero di persone riceve qualcosa “in meno”, è svantaggiata rispetto ad altri/e. Eppure, rileggendo quelle due parole, possiamo cogliere senza difficoltà la sfumatura che intercorre fra loro: utilizzando il termine spinta evitiamo l’implicazione che l’emarginazione sia il risultato di fallimenti o inadeguatezze di una comunità, ma visualizziamo una forza esponenzialmente più potente che rigetta, mette all’angolo, impedisce il cambiamento.
Vite intrecciate, fili di speranza persegue di pari passo la finalità di approfondire storie e testimonianze sulla salute sessuale e riproduttiva, studiando unitamente un linguaggio attento e rispettoso, conforme anche ad atri studi a riguardo, e consentendo di tracciare un filo comune, una guida o una base scientifica per riunire la ricerca in un testo coeso e comprensibile.
In particolare, fa uso di frasi e di lemmi che portano con loro un determinato fine, che si pregnano di senso. Fra questi:
1. non lasciare indietro nessuno: dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (Nazioni Unite, 2015) non lasciare indietro nessuno rappresenta l’impegno di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite a eradicare la povertà in tutte le sue forme, ridurre le disuguaglianze e porre fine a tutti i tipi di discriminazione ed esclusione;
2. i più arretrati/le più arretrate: individui che sono i più esclusi dall’accesso ai loro diritti e scelte; spesso affrontano più svantaggi che si combinano per produrre estreme difficoltà o ostracizzazione. È importante sottolineare che questo è specifico al contesto perché le circostanze che li portano a rimanere indietro sono determinate da fattori sociali, politici e culturali più ampi, che possono differire sostanzialmente da un luogo all’altro;
3. vulnerabile: suscettibile di sfruttamento, abuso o altre forme di danno; questo termine è ampiamente utilizzato ma può essere problematico se non vengono riconosciuti gli elementi che portano alla vulnerabilità, come la negazione delle opportunità o le barriere ai servizi.
Altri termini come uguaglianza, equità, disuguaglianza e iniquità offrono la possibilità di articolare un discorso approfondito sui fenomeni affrontati nel Report, mettendo a disposizione parole di uso frequente che assumono un significato più preciso.
Le condizioni che incidono sullo status delle comunità esaminate possono essere diverse e coinvolgono altrettanti target: etnia, razza, casta, lingua, religione, stato di disabilità, stato di HIV/AIDS, stato di migrazione, orientamento sessuale e identità di genere che si dispiegano in molteplici forme di discriminazione e violenza che assumono tratti preoccupanti se pensiamo a casi in cui più identità e circostanze si intersecano fra loro. Vediamo il caso di migranti o rifugiate, che a causa di una diversa provenienza rispetto al luogo in cui si trovano rischiano lo sfruttamento lavorativo e sessuale; oppure le problematiche che una persona con disabilità deve affrontare in alcuni contesti, in particolare quelli particolarmente ostici; o ancora situazioni in cui l’orientamento sessuale o l’identità di genere diventano fattori che aggravano contesti di vita già precari.
Donne e ragazze, persone con disabilità, popoli indigeni, individui con identità di genere e orientamenti sessuali diversi, persone anziane e adolescenti sono fra i soggetti che più sperimentano queste disparità e i soprusi che ne sono la diretta conseguenza. Queste barriere, afferma l’Ocha (Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari), si rinforzano a causa delle crisi umanitarie: durante i conflitti armati, disastri naturali, epidemie, carestie e sfollamento di popolazioni si assiste a un incremento della violenza di genere. In Ciad, ad esempio, la mancanza di nuovi campi per i rifugiati ha lasciato molte donne e ragazze sfollate in siti sovraffollati, aumentando la loro esposizione alla violenza. La carenza di fondi causata dai tagli approvati nei bilanci «riduce anche l’accesso all’assistenza sanitaria per chi vive nelle aree difficili da raggiungere», coinvolgendo, ad esempio, parte dei cittadini e delle cittadine etiopi — di cui solo il 36% riesce ad accedere alla sanità, e il resto rimane inevitabilmente scoperto di cure mediche — e interessando anche 170 strutture sanitarie afghane che sono state chiuse, limitando l’assistenza sanitaria primaria ad un milione di individui, inclusi donne incinte, bambini e persone con disabilità.
Questa, bisogna ricordare, è solo una faccia della medaglia. L’altra, non solo è un barlume di speranza, ma è un segno di resistenza e impegno civico da parte di donne locali che cercano con le loro azioni e rivendicazioni di soddisfare i bisogni delle comunità emarginate. Nel 2023, si contavano dieci team umanitari nazionali che avevano almeno un’organizzazione locale guidata da donne come membro; in Yemen, il team umanitario nazionale includeva due organizzazioni locali e un’organizzazione circondariale per le persone con disabilità guidate da donne.
La loro voce, la nostra voce, inizia finalmente a contare davvero, e ce lo dice anche Thivya Rakini, presidente del Tamil Nadu Textile and Common Labour Union (TTCU): negli stabilimenti tessili, racconta, sono impiegate per l’80% donne, il 60% delle quali appartiene alla comunità Dalit (una casta emarginata in India), che spesso devono affrontare dinamiche di potere da parte dei loro supervisori, principalmente uomini. Le lavoratrici, in seguito alla mancata attenzione sulle questioni di genere, decidono di organizzarsi fra loro, costituendo un’organizzazione che possa finalmente tutelarle. L’urgenza si fa ancora più viva nel 2021, quando Jeyasre Kathiravel, una donna Dalit, viene uccisa dal suo capo dopo ripetute molestie sessuali avvenute nei mesi precedenti. Al culmine della campagna globale Justice for Jeyasre, nel 2022 viene firmato l’Accordo di Dingul per estinguere la violenza di genere e fornire maggiori tutele alle donne impiegate, attraverso un sistema di controlli capillari che si estendono oltre il posto di lavoro. Infatti, parte del personale che lavora in Tamil Nadu è pendolare e si serve di bus organizzati dalle aziende per giungere sul posto di lavoro: casi di violenze o richieste di “favori sessuali” da parte degli autisti erano, purtroppo, all’ordine del giorno; con la firma dell’accordo, si è giunto all’inserimento di monitor che permettono di vigilare anche sul mezzo di trasporto. Ma Nandita Shivakumar fa presente che talvolta questo può non essere abbastanza: «in qualsiasi posto venga applicato, l’accordo dovrebbe affrontare i problemi locali delle lavoratrici. […] Ora ciò di cui abbiamo bisogno è espandere l’accordo a più luoghi in modo che queste protezioni siano disponibili in ogni fabbrica e questo diventi la norma. Questo è ciò che dobbiamo fare».
Accogliere il suo invito è imprescindibile: nonostante i diversi traguardi raggiunti c’è ancora molto che si deve fare per permettere a tutte le lavoratrici di condurre una vita sicura e libera dalla violenza di genere.

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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.

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