Era il 17 giugno del 1944 e sull’Isola d’Elba, fra Pomonte e Marina di Campo, sbarcarono 8.000 soldati: un battaglione di goumiers, un commando di guastatori francesi e uno di inglesi.
Quello sbarco è passato alla Storia come Operazione Brassard, nome in codice dato dagli Alleati nell’attacco che mirava all’occupazione e quindi alla “liberazione di quell’Isola”.
La guarnigione italo-tedesca tentò di fermare l’avanzata. Fu una battaglia cruenta: persero la vita, su una spiaggia minata, circa quattrocento alleati, ma dopo tre giorni di combattimento quel territorio restò in mano agli Alleati.
Per gli abitanti quella liberazione fu un incubo: esplosione di mine antiuomo, una baia brulicante di imbarcazioni militari, l’arenile impregnato di sangue, l’odore della carne bruciata che si avvertiva fino in cima alla collina nei borghi più distanti dal mare. Gli Elbani dovevano essere “liberati” e invece gli abitanti furono considerati quasi indistintamente come fossero nemici fascisti o tedeschi.
Dopo le battaglie, le truppe, soprattutto quelle formate da senegalesi e marocchini inquadrate da ufficiali francesi in gran parte corsi, iniziarono a depredare le case coloniche degli abitanti derubando e uccidendo coloro che tentavano di opporsi. Gli ufficiali assistettero allo scempio senza intervenire, girando spalle e sguardi altrove e rispondendo che quella era purtroppo la guerra e alla fine quello che stava succedendo era nulla in confronto a quello che gli italiani avevano fatto nell’isola di Corsica.
La popolazione tentò di nascondersi sulle parti montuose dell’isola. Come racconta Paola Cereda nel suo romanzo storico La figlia del ferro, le elbane tentarono di fuggire a quell’oltraggio: le giovani donne furono nascoste nelle botti e alcune furono addirittura murate vive lasciando solo dei piccoli fori nelle pareti per consentire loro di respirare. Questi fatti ci riportano alla memoria il tentativo di salvarsi dalla violenza di tante altre donne d’Italia come quelle della zona di Licata (ove avvenne il primo sbarco degli Alleati), nascoste nelle stalle ricoperte da balle di fieno o quelle della Ciociaria, spesso nascoste nei boschi ai margini dei piccoli borghi.
L’incubo per gli abitanti dell’isola d’Elba finì venticinque giorni dopo lo sbarco quando gli Alleati ritornarono sulla terraferma.
Restarono i numeri di quella operazione: 191 casi di violenze commesse su donne, ragazze e bambini. Numeri che, come sempre, nascondono vite, anime, sogni e sofferenze delle vittime.
Grazie alla ricerca effettuata dalla giornalista Elisa Messina del Corriere della Sera, è stata ricostruita la storia di una donna coraggiosa di Portoferraio: Olimpia Mibelli Ferrini.
Olimpia era nata a Portoferraio il 17 marzo del 1923 da una famiglia di umili origini. Sin da ragazzina faceva la lavandaia, ma appena era libera dal lavoro le piaceva cucirsi i vestiti, truccarsi, indossare le scarpe con il tacco e andare a ballare nelle sagre paesane. Una giovane popolana che di certo non rappresentava lo stereotipo femminile di quel tempo e quindi non degna di essere ricordata e anzi riconsegnata alla Storia come una prostituta.
Olimpia si era sposata a quindici anni con Angiolo Ferrini milite della Repubblica Sociale di stanza a Livorno (come scrive Raimonda Lobina nel profilo delineato nell’Enciclopedia delle donne). Poco tempo dopo il matrimonio rimase vedova e invece di risposarsi preferì restare libera, non dover rendere conto a nessuno e godersi la libertà. Scrive Elisa Messina «[…] oggi la considereremmo semplicemente una donna libera, allora era una ragazza chiacchierata e, per le comari del paesino, una poco di buono. Forse è per questo che […] nelle storie passate di bocca in bocca e poi finite anche sui rotocalchi, Olimpia viene definita prostituta, una delle ragazze del bordello. Non lo era. Anche se lo fosse stata, il valore del suo gesto sarebbe lo stesso».
Quel 17 giugno del 1944, per sottrarre decine e decine di bambine e ragazzine dalle violenze sessuali, offrì il suo corpo ai soldati delle colonie francesi. Non dimentichiamo che quegli stupri di guerra, passati alla storia come marocchinate, erano stupri di gruppo e di efferata violenza. Riportare alla luce questa storia non è stato facile. Una ricerca osteggiata da un antico dolore che non vuole riaprire ferite, un dolore che «aveva lasciato nelle donne un trauma e un senso di vergogna che si è sedimentato negli anni».
È un copione a cui siamo abituate ad assistere quando si ricercano verità sulle cosiddette marocchinate in ogni territorio d’Italia. C’è stata una sorta di comprensibile rimozione collettiva, perché il rievocare genera immani sofferenze e perché squarciare quel velo disteso sul passato e riportarlo alla luce può causare ancora più dolore a figli e figlie magari ignari di quell’orrore celato per lunghi anni.
Come avvenne in altre regioni, alcune elbane abortirono, altre partorirono dando in adozione il frutto di quella violenza ma altre decisero di tenere quei figli e quelle figlie. Così fece ad esempio Andreina, la sorella di Olimpia. Andreina decise di far nascere Luciano e, pur non essendo sposata, lo crebbe amorevolmente come racconta oggi sua figlia Sara che testimonia inoltre il coraggio e la solidarietà tra sua nonna e sua zia.
Dopo lo stupro, per alcuni giorni nessuno ebbe più notizia di Olimpia e temettero fosse stata uccisa, ma un giorno la rividero nella sua casa di via Del Paradiso. Non ritornò a fare la lavandaia, ma si prodigò ad assistere le sue due sorelle, il nipote, l’anziana madre e tutte quelle che le rivolgevano richiesta d’aiuto. In seguito, conobbe Arrigo con cui instaurò una relazione stabile e duratura e fece la venditrice ambulante insieme al suo nuovo compagno.
Morì nel 1985 e fu sepolta nel cimitero di Portoferraio, ma successivamente i suoi resti furono traslati nell’ossario comunale. Oggi neanche una tomba ne tramanda la memoria.
È stata inoltrata richiesta di intitolazione di una via a suo nome da più enti e anche dall’Associazione Toponomastica femminile. Il sindaco Tiziano Nocentini si è pubblicamente impegnato a procedere dopo che, negli anni, ogni richiesta è sempre caduta nel dimenticatoio.
Come dichiarò, alla fine della Seconda guerra mondiale, in un’interpellanza parlamentare, la Madre Costituente Maria Maddalena Rossi: «Noi conosciamo le madri che hanno perso i figli, le mogli che hanno perso i mariti: noi le amiamo, le onoriamo, manifestiamo loro la nostra solidarietà, sì che esse trovano una sorta di conforto nel sapere che il loro lutto è condiviso, che la memoria dei loro cari scomparsi è sacra a milioni di cittadini. Ma per queste donne violentate no. Per queste non c’è conforto possibile. Si devono nascondere come se si sentissero infette anche moralmente».
Dopo circa ottanta anni dal pronunciamento di quelle sagge parole è arrivato il tempo di onorare concretamente Olimpia Mibelli. Un ricordo che ha anche valore per tutte le donne uccise e oltraggiate passate alla Storia come “effetti collaterali della Guerra”.
Per preservarne memorabilità e per non dimenticare mai.
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Articolo di Ester Rizzo

Giornalista. Laureata in Giurisprudenza e specializzata presso l’Ist. Sup. di Giornalismo di Palermo, socia Sil, collabora con varie testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Per Navarra editore ha curato il volume Le Mille. I primati delle donne. Autrice dei saggi: Camicette Bianche , Donne Disobbedienti , Il labirinto delle perdute e i romanzi storici Le ricamatrici e Trenta giorni e 100 lire, sempre per Navarra editore.
