Vite intrecciate, fili di speranza. Parte quarta

La violenza di genere può verificarsi in tanti contesti e situazioni diverse, e il report Vite intrecciate, fili di speranza ci ha aiutato, negli scorsi numeri, a capirlo. Destinatarie di tali comportamenti e discriminazioni, abbiamo visto, sono giovani, madri, persone con un orientamento sessuale e un’identità di genere non pienamente accettata socialmente, individui con disabilità ma l’elenco, purtroppo, non si ferma qui.
In questo numero approfondiremo le condizioni delle ostetriche, una professione che si è configurata nel tempo come prettamente femminile, ma ha visto il sopravvento da parte di medici che hanno assunto il controllo, spesso senza esperienza pratica. Questo fenomeno si è verificato in tutto il mondo, con gravi conseguenze soprattutto nei paesi a basso e medio reddito, dove l’ostetricia è ancora sottovalutata e le ostetriche affrontano discriminazioni, disparità salariali e mancanza di autonomia professionale: ciò ha rafforzato forme di gerarchia lavorativa a sfavore tanto delle operatrici del settore quanto delle pazienti che si sottopongono alle pratiche sanitarie.
Uno dei casi più evidenti si è verificato con le dukun, figure esperte che aiutavano le gestanti in tutte le fasi di questo processo fornendo dispositivi di contraccezione, assistenza al parto e aborto. Quando nel 1800 l’Indonesia divenne una colonia olandese, nuove ostetriche addestrate da uomini sostituirono le dukun, imponendo un sistema medico che al vertice vedeva i dottori come principali responsabili della formazione delle dai come rimpiazzo delle native.

In Europa, invece, quando le operatrici furono finalmente riconosciute (seppur da autorità ecclesiastiche), fu affidato loro il compito di fungere da testimoni in casi di infanticidio, sospetto di mancata verginità, aborto e sterilità. In Francia, in particolare, i loro compiti venivano svolti da accoucheurs, ostetrici la cui competenza si basava principalmente su scritti teorici (e non competenze pratiche) rigorosamente redatte da altri uomini, con lo stesso — se non inferiore — livello di esperienza, e senza aver mai assistito a un parto o a un travaglio.

Il predominio maschile ha danneggiato anche la letteratura scientifica (persino fino al secolo scorso) di cui le ostetriche si sono occupate: i contributi — specialmente delle ostetriche nere — sono passati a lungo in secondo piano, in favore di studi compiuti dai medici e dagli ostetrici, e assoggettati a una visione maschile del corpo femminile. Il dottore Joseph DeLee, che si professava esperto in materia, ha scritto uno dei volumi considerati più rilevanti all’inizio del ‘900: fortemente contrario ad alcune pratiche che oggi possiamo affermare non dannose, riteneva che l’uso abituale di sedativi, etere, episiotomie e forcipi potesse invece ripristinare le funzioni naturali del corpo femminile; il parto era, per lui, un processo patologico che danneggiava sia le madri che i bambini.
La continua svalutazione delle figure professionali femminili a livello mondiale ha portato alla segregazione occupazionale, disparità salariali a causa del genere, mancanza di opportunità di leadership, discriminazione e molestie sessuali. Un rapporto dell’Oms del 2019 ha rivelato che il divario salariale di genere nel settore sanitario è maggiore rispetto ad altri, dove le lavoratrici sanitarie guadagnano in media il 28% in meno rispetto ai colleghi. Inoltre, gli investimenti nella formazione e nella cura ostetrica potrebbero avere un impatto estremamente positivo sulla salute materna e neonatale: uno studio del Lancet Global Health del 2021, sostenuto dall’Unfpa, ha constatato che un aumento della copertura degli interventi ostetrici potrebbe prevenire il 41% delle morti materne, il 39% delle morti neonatali e il 26% dei nati/e morti/e, evitando annualmente 2,2 milioni di decessi entro il 2035.

Una testimonianza essenziale è quella di Shirley Maturana Obregón che, più di venti anni fa, quando era incinta di nove mesi, scelse di non partorire in un ospedale di Chocó, in Colombia, preferendo il supporto della sua famiglia e di una partera, una levatrice tradizionale della sua comunità, una scelta che rifletteva sia le sue priorità personali e culturali sia la mancanza di alternative nel contesto della povertà e della mancanza di un adeguato sistema sanitario regionale. Nonostante l’importanza di queste figure nella comunità, il sistema sanitario colombiano le ha spesso marginalizzate, considerandole poco professionali e poco igieniche, e imponendo regole che hanno isolato il loro lavoro; tuttavia, lungo la costa pacifica colombiana, le parteras sono spesso le uniche disponibili e fino al 2021, in una città del Dipartimento di Chocó, ogni parto è stato assistito da una di loro.
Da qui nasce il progetto Partera Vital, lanciato nel 2020, che mira a integrare le levatrici nel sistema sanitario e a fornire loro ulteriore formazione; questo progetto ha avuto un impatto positivo, registrando un aumento del 50% dei parti assistiti da parteras nel 2020 rispetto all’anno precedente e una significativa riduzione delle morti materne nel 2023. Shirley Maturana Obregón è diventata a sua volta parte di questa meravigliosa squadra, aiutando altre donne a realizzare i loro sogni di un parto assistito e anche culturalmente significativo.

Non bisogna dimenticare poi che, in alcune aree del mondo, le discriminazioni dovute al genere si sommano a quelle etniche e razziali. Comprendere che l’impatto del colonialismo sta aprendo nuove strade per raggiungere equità nelle pratiche mediche: la riproduzione è stata incoraggiata quando ritenuta utile per obiettivi economici e/o politici, e scoraggiata tra gruppi considerati “inferiori”. Durante il periodo coloniale e il commercio transatlantico di schiavi/e, la gestazione era considerata una forma di produzione di beni e la pianificazione familiare veniva promossa per sostenere lo sviluppo economico, nonché per affrontare le possibili conseguenze di una “bomba demografica” nei paesi in via di sviluppo.
Queste politiche hanno reso normali pratiche profondamente lesive per i corpi delle donne nere, che non avevano possibilità di decidere autonomamente per sé stesse, subivano sfruttamenti, abusi e stupri, sterilizzazioni forzate e sperimentazioni non consensuali poiché ritenute inferiori e insensibili al dolore. La contraccezione moderna, pur essendo rivoluzionaria per l’autonomia riproduttiva femminile, è stata anche utilizzata per applicare teorie eugenetiche (che auspicavano un miglioramento della specie umana tramite la distinzione fra tratti genetici favorevoli e tratti considerati negativi), mirando a limitare la riproduzione di popolazioni considerate “indesiderate” come donne povere, nere, disabili e di etnie marginalizzate; questo uso della contraccezione come strumento di controllo riproduttivo è durato decenni, come dimostrano i programmi aggressivi in Sud Africa durante l’apartheid che rendevano la comunità ancora più a rischio di violenze ostetriche e maltrattamenti.
Situazioni ugualmente preoccupanti si sono verificate anche su donne rom che venivano immobilizzate durante il parto, sottoposte ad abusi fisici e private di anestesia, retaggio che si riflette anche nelle disuguaglianze sanitarie nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in altre regioni del mondo, che rendono travagliato il miglioramento della salute delle donne. Seppur sia evidente un crescente interesse su queste tematiche, c’è ancora bisogno di azioni concrete e sistematiche che possano invertire questo trend.

Durante gli anni, non sono stati solo i corpi delle donne indigene e nere a essere stati dimenticati, ma anche le loro stesse vite. Carolyn DeFord, un’attivista, ci racconta la storia della perdita di sua madre, scomparsa nel 1999: un destino che è tristemente comune per migliaia di indigeni/e negli Stati Uniti. Il tasso di omicidi di donne native americane nelle riserve è fino a dieci volte superiore rispetto alla media nazionale, un dato che però non è totalmente attendibile a causa di casi non segnalati, classificazioni razziali errate e mancata collaborazione da parte delle forze dell’ordine nei confronti delle comunità indigene, che subiscono anche le conseguenze di una giurisdizione non adeguata che permette alle bande criminali di agire in maniera indisturbata.
Nel 2013, il Violence Against Women Act (Vawa) ha ripristinato la giurisdizione criminale sui non-nativi per crimini di violenza domestica sui terreni delle comunità indigene, ampliandola nel 2022 per includere crimini come violenza sessuale, traffico di esseri umani e stalking; tuttavia, questa legge non viene applicata a tutte le nazioni, ma solo a quelle riconosciute a livello federale: molte tribù, difatti, non hanno accesso a finanziamenti o formazione adeguati. Per questo motivo, organizzazioni come Missing and Murdered Indigenous Women Usa (MmiwUsa) stanno aiutando le famiglie delle persone scomparse con risorse essenziali per le ricerche, come biglietti aerei e fondi per babysitter.

DeFord, che collabora con questo ente, condivide la sua esperienza per aiutare altre famiglie ricordando l’importanza delle voci locali per ottenere giustizia e leggi mirate. Come si legge in un box del Report, c’è una relazione virtuosa tra il ricevere cure sanitarie riproduttive e sessuali dignitose e di qualità e l’esperienza di empowerment economico sociale e personale. Come osservano le lavoratrici e i lavoratori sanitari, l’autonomia riproduttiva, cioè la capacità di scegliere se, quando e con chi avere rapporti sessuali o avere gravidanze e la possibilità di vivere libere dalla violenza e dalle malattie a trasmissione sessuale mettono in grado le persone di ottenere un’istruzione adeguata, di rimandare o iniziare la formazione di una famiglia, costruirsi una carriera e/o dare il proprio contributo alla comunità a cui si appartiene.

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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.

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