Gnoseologia = verifica delle forme dell’attività conoscitiva umana. È un termine che pare astruso ma che indica un procedimento cui dovrebbe esser deputata ogni giorno la scuola, anzi qualunque agenzia educativa.
È utile addestrare le giovani generazioni a domandarsi come si produca la lettura del mondo; come venga gestita, a che scopo, da chi e nell’interesse di chi, come venga regolata dai rapporti di forza. Come e quanto eserciti il controllo sociale. La storia dimostra che non basta conquistare il potere di produrla: perché duri bisogna far credere ai sottoposti che esso sia naturale, necessario. Meglio se di origine divina, inconfutabile per definizione.
Bisogna darlo per tutti come dato di fatto: nemmeno ci si sogna di discuterlo perché non lo si percepisce come ingiusto, tanto il meccanismo che lo crea risulta invisibile sia a coloro che detengono i privilegi sia a coloro che ne sono vittime. Questo comodo assetto blocca ogni reazione consegnandola alla devianza o alla follia.
Chi detiene il potere assolutizza il proprio particolare presentandolo come universale e il proprio punto di vista assumendolo come neutro, invisibilizza tutte le esistenze “altre”, impone il canone nelle leggi e nei costumi. Il suo sguardo è normalizzatore in nome di una normalità stabilita a propria immagine. Affrontare e interrogare quei dati essenziali della presenza umana nel mondo che sono genere, sessualità, violenza, rapporto con il corpo pare a molti un procedimento sovversivo, perché disconosce la naturalità e l’universalità dell’essere maschile. La stessa scoperta maschile di appartenere a un genere è recentissima e la dobbiamo ai men’s studies, che pure stentano ad affermarsi nell’accademia.
Una situazione simile può sembrare paradossale ma può durare millenni, come millenni è durato il principio organizzativo delle regole della convivenza e dell’organizzazione delle credenze che chiamiamo patriarcato (parola mal digerita dai mass media e dall’agenda politica, che l’associano a ribellione femminista. C’è voluta la sorella di Giulia Cecchettin per riportarla nel dibattito pubblico). Il dominio dei padri’ designa per estensione il governo degli uomini. La sua base è un contratto di scambio non scritto: io ti do protezione, in cambio pretendo obbedienza. Se è messo in discussione, destabilizzato da una nuova soggettività femminile, posto di fronte a una detronizzazione, reagisce con violenza.
Il femminicidio è scomodo ma eloquente punto di riflessione sull’ansia causata dalla sparizione dei ruoli tradizionali, sull’incapacità maschile di gestire in modo maturo la frustrazione narcisistica dell’orgoglio ferito, sull’incapacità di elaborare il lutto di uno scacco relazionale, sul legame come protezione fobica rispetto alla solitudine.
Da dove nascono le fragilità e le paure maschili per produrre così “naturalmente” un atto aggressivo che solo una narrazione ingenua può scambiare per amore?
La storia del maschile e dei suoi significati è legata a quella del dominio e della gerarchia, tanto da coagularsi in una simbologia dove costrutti relativi a potere e mascolinità si confondono.
Fin dai tempi di Aristotele i filosofi, artefici principi della gnoseologia, han descritto l’umanità ritraendo il genere maschile come rappresentante esclusivo della specie umana.
Per il filosofo — che ispirò tanta parte del pensiero successivo e in particolare la patristica cristiana, ferocemente androcentrica — il maschio adulto libero era il solo soggetto umano valido e attivo, quindi, era “naturale” che egli comandasse sulla femmina (oggetto passivo pur necessario per propagare la specie), così come il padre sui figli e il padrone sugli schiavi.
Elencò tre minorità: debolezza fisica — la donna va protetta; debolezza morale — va controllata; debolezza intellettuale — va esclusa. Infirmitas, imbecillitas, fragilitas sexus: ossia la tradizione del diritto penale.
La perfezione del kalos kagathòs assunse caratteri maschili: i sentimenti e le passioni (perturbatrici) sparirono a favore del logos razionale e ordinatore (tranquillizzante). Cominciarono le definizioni per negazione, dove la differenza si trasformava in disvalore. Se il maschile assume la connotazione della razionalità e della capacità di astrazione, il femminile diventa necessariamente il segno dell’irrazionalità, dell’emotività, dell’approssimazione, il luogo dove viene confinato tutto ciò che ostacola il percorso dell’umanità verso la conoscenza. L’identificazione maschio-potere è immediata, e si sa che chi ha il potere ha il prestigio.
Gli antichi greci usavano la parola andreia per indicare sia virilità sia coraggio, ossia la virtù che permette di controllare la paura. ‘Virtù’, dall’esibita matrice latina: figura astratta delle qualità virili, spiegava Devoto nel “Dizionario etimologico”. Per chi è donna è qualcosa di esterno cui adattarsi, dunque.
L’esercizio del potere impone di non mostrare emozioni, vulnerabilità e dolore, per essere adeguati rispetto all’immaginario che vuole duri e forti. La maschilità egemonica ha un costo e lo pagano anche gli uomini: sia quelli che non la praticano sia quelli che coltivando il distacco emotivo uccidono parti importanti della propria esistenza. Tutto l’arco della loro vita, fin dall’adolescenza, risulta pieno di prove da affrontare, di dimostrazioni da dare.
Per attuare in modo automatico questi procedimenti è necessario abituarsi a schematizzare, catalogare, etichettare, oggettivare: per celare ogni complessità, per tagliare con l’accetta ogni contraddizione. Tramite la semplificazione gli uomini adottano codici di uniformità.
Chi è abituato a ragionare così pretende che la ragione sia disincarnata, non sa convivere con le sfumature, disimpara l’empatia, piega la stessa natura ai suoi calcoli. Ama le dicotomie, che consumano poco e sono rassicuranti. L’opposizione maschile/femminile si avvale di un insieme di valorizzazioni parallele che ne delineano lo spazio all’interno dell’ordine simbolico, inserendosi con coerenza dentro un sistema complessivo di disgiunzioni, di separazioni duali che preparano e giustificano le esclusioni.
Non è un caso che imperialismo razzista e pulsioni antidemocratiche trovino nel virilismo un linguaggio rafforzativo e un significante fondamentale. Di questo impianto e delle sue origini non c’è traccia nella maggior parte dei manuali usati nelle nostre scuole: eppure la disamina della storia dei meccanismi di naturalizzazione dell’inferiorità femminile fornirebbe agli studenti strumenti importanti per analizzare il mondo in cui vivono.
Potrebbero domandarsi perché mai, nonostante i guadagni della libertà femminile che sono sotto gli occhi di tutti, persista ancora la tendenza sia di uomini sia di donne a conformarsi agli stereotipi di genere tradizionali. Il patriarcato suggerisce che una donna violentata sotto sotto se la sia cercata. Che una donna senza figli sia una a cui manca qualcosa. Che alle donne spetti “per natura” un lavoro di cura gratuito e oblativo. Che gli uomini siano aggressivi perché così vogliono gli ormoni.
Sian forti i figli, caste le figlie. La doppia morale non è mai morta: molte inchieste dimostrano che persiste negli adolescenti, è incoraggiata dai genitori, è prevista dall’opinione pubblica. Di un assetto verticale rimane traccia ancor oggi in molte pratiche non solo nelle famiglie e nelle coppie, ma nel mondo del lavoro, negli indirizzi politici e perfino nelle scelte quotidiane dei parlanti, spesso attuate in spregio delle regole grammaticali di una lingua che prevede due generi.
Il patriarcato detta la battuta svalutativa di chi dice che ‘ministra’ suona male e non si accorge che suona come ‘maestra’. Abitua a non vedere la gerarchia per cui il femminile si usa nei mestieri meno prestigiosi e meno redditizi, mentre svapora nelle alte cariche. La finzione dell’universale neutro in cui la differenza femminile scompare e viene inglobata è uno dei trucchi più semplici ed efficaci su cui è stata costruita la società patriarcale.
Il patriarcato si annida negli elenchi di nomi, di storie, di fatti in cui le donne non hanno voce, nome, posto. Scoperte e invenzioni, guerre e conquiste, opere d’arte… gli autori sono sempre uomini, prevalentemente bianchi ed europei. Poche biografie di donne eccezionali si confinano in box dedicati, per sottolineare ancor più una condizione di marginalità con un potente messaggio implicito. Aggiungiamo i casi di scoperte e invenzioni fatte da donne ma attribuiti a uomini: un fenomeno noto come effetto Matilda. Questa modalità, che rispettava la divisione dei ruoli e delle competenze voluta dal patriarcato, è stata per secoli il canone delle discipline (criterio normativo che disciplina un campo di ricerca): non parliamo solo della filosofia ma di tutte le altre, dal diritto (sull’individuo astratto e neutro, che si pretende universalistico, è disegnato il cittadino) alla medicina (fino al XIX secolo la medicina ufficiale seguì le indicazioni della Chiesa, stimando che solo il piacere maschile avesse un ruolo nella riproduzione; le conoscenze sull’apparato genitale femminile furono praticamente cancellate).
Ancor oggi nell’accademia molti non ritengono rilevante il punto di vista delle donne a nessun livello, nemmeno rispetto alle discipline specialistiche in cui il loro contributo potrebbe essere particolarmente utile. Difficilissimo inserire i women’s studies nei curricula obbligatori.
Perfino la letteratura scritta da donne è ghettizzata, è “rosa”, mentre non esiste il corrispettivo “azzurro”.
Ancor oggi il pensiero misogino di molti autori illustri viene taciuto in gran parte dei libri di testo. «Le donne sono al mondo per piacere e obbedire agli uomini; una donna intellettuale è un flagello per il marito, per i figli, per gli amici, per la servitù, per chiunque». Questo scriveva Rousseau a fondamento della pedagogia, ma a scuola non se ne parla.
Nel 1801 Sylvan Maréchal, avvocato e scrittore parigino, ardente rivoluzionario, illuminista convinto, pubblicò un progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere. Lo sapevate?
E Darwin, antispecista e antirazzista ma sessista? «La distinzione principale nei poteri mentali dei due sessi è costituita dal fatto che l’uomo giunge più avanti della donna, qualunque azione intraprenda, sia che essa richieda un pensiero profondo, o ragione, immaginazione, o semplicemente l’uso delle mani e dei sensi».
Il lavoro faticoso non è solo rivalutare figure femminili misconosciute ma ridiscutere l’impianto dei saperi, superando l’inerzia con cui si riproducono modelli vetusti nonostante il paradosso che vede nelle scuole italiane una preponderante presenza femminile.
Vista l’opposizione furiosa dell’attivismo oscurantista e la diffusione di pregiudizi, manca una formazione docente in entrata e in itinere che attraversi tutta la didattica. Le buone pratiche sono affidate soltanto alla buona volontà di singole persone.
Il patriarcato infine — last but not least — è portato alla polarizzazione, che per rafforzarsi ha bisogno di costruirsi continuamente dei nemici, di demonizzarli e di esaltare la retorica del valore bellicista (tra uccidere e morire non c’è una terza via e i corpi diventano numeri): sembrava in crisi dopo i massacri novecenteschi ma la vediamo sinistramente tornare oggi, come incubo distopico. O con l’Ucraina o con Putin, e prima o con i talebani o con gli Stati Uniti. I semi dell’odio poi durano per generazioni, ma questo sembra non importare.
Nella prassi questo è il canone di ogni conflitto violento e dunque della guerra, manifestazione estrema il cui stampo virile è evidente. Esso alimenta, oltre agli scontri degli uomini, degli interessi e delle armi, l’urto di contrapposte retoriche.
Se n’era accorto già Euripide (Le Troiane). Hybris, autoritarismo, suprematismo, imperialismo, nazionalismo, etnocentrismo… la matrice testosteronica è la stessa. A volte facilmente individuabile, altre volte dissimulata — come quando alla parola ‘guerra’ si associano aggettivi come ‘necessaria’, ‘giusta’ o ‘etica’ o addirittura ‘santa’ o ‘umanitaria’. Come quando si accusano i pacifisti di coltivare utopie mentre la diplomazia e il compromesso vengono visti come debolezza, cedimento. Ogni negoziato viene assimilato a una resa. Lo slogan marinettiano la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo era stampato sui quaderni delle Piccole Italiane. Lo spirito di indipendenza e di iniziativa della donna venne percepito anche dal positivismo come tendenza alla mascolinità e fu tanto temuto quanto la simmetrica femminilizzazione dell’uomo che da secoli ossessionava l’immaginario.
Questo non significa che non ci siano donne che aderiscono al copione della virilità. Non è tanto l’essere biologicamente donna che fa rifiutare la guerra: semmai è la posizione che si occupa nella società e lo sguardo con cui si osserva, si analizza e si percepisce la realtà.
Il pensiero femminista ha con grande attenzione esaminato il militarismo. Nelle discussioni sulla guerra in Ucraina — attraversate da sentimenti di impotenza, di orrore, di sgomento, di incredulità — è tornata per iniziativa di alcune femministe la straordinaria pagina di Virginia Woolf Pensare la pace durante un raid aereo. «Il giovane aviere lassù in cielo non è spinto in guerra soltanto dagli altoparlanti; è spinto anche dalle voci che ascolta dentro di sé — istinti antichi, istinti coltivati e tramandati dal sistema scolastico e dalla tradizione».
Ora la spinta distruttiva si è spinta a confini così estremi, dalla minaccia nucleare alla devastazione ambientale, da mettere in forse la sopravvivenza stessa della specie umana. Se il mondo non cambia parametri mandiamo le prossime generazioni allo sbaraglio.
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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.
