Riprendiamo il report Vite intrecciate, fili di speranza affrontando un nuovo capitolo, “counting every stitch — ogni punto della trama è importante”: durante l’approfondimento delle scorse sezioni, abbiamo incontrato una grande diversità e varietà di persone e di donne, diventate i soggetti principali degli studi compiuti, non focalizzati esclusivamente sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere, ma anche su fattori culturali e sociali, senza dimenticare i risvolti politici ed economici.
In questo capitolo si affronta un’area non ancora indagata direttamente, ma che merita uguale attenzione.
Il Programma d’Azione del 1994 adottato durante l’Icpd (Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo) ha segnato un importante passo avanti nel riconoscere l’importanza della salute sessuale e riproduttiva, sottolineando la necessità di dati migliori e più trasparenti, richiedendo bollettini accurati, tempestivi e comparabili a livello internazionale per monitorare in maniera accurata gli interventi da introdurre. Negli anni ’90, le informazioni su questo argomento erano scarse o, addirittura, inesistenti: le stime disponibili erano imprecise, uno degli obiettivi del Programma era quello di ridurre del 75% la mortalità materna entro il 2015; l’inadeguatezza delle statistiche e delle rendicontazioni erano inaccettabili. Il processo di follow-up dopo l’Icpd ha portato alla collaborazione tra gli/le esperti/e per sviluppare indicatori misurabili in grado di raccogliere dettagli accurati monitorando i progressi; da allora, la qualità e la quantità dei dati sono migliorati significativamente, fino al 2014.
Adesso, a trent’anni dalla Conferenza, il mondo si trova a un nuovo punto di svolta: sono state registrate situazioni preoccupanti rispetto a quanto si era programmato, motivo per cui è essenziale, ora, colmare le lacune per non lasciare indietro nessuno. Tuttora, infatti, si verificano le medesime problematiche che si credevano superate: alcuni individui, come quelli discriminati nei sistemi sanitari, quelli con barriere linguistiche, o quelli stigmatizzati per lo stato di Hiv, affrontano significative difficoltà e marginalizzazione, mentre altre questioni restano senza soluzioni adeguate, nonostante una più ampia disponibilità di materiale.
Quando queste disuguaglianze emergono, si rivelano profonde sia tra Paesi che all’interno degli stessi, una condizione nota come “equità inversa” che suggerisce che i miglioramenti delle condizioni mediche e sanitarie inizialmente avvantaggiano la porzione di destinatari/e più semplici da raggiungere poiché necessitano di interventi minori, ma per contro aumenta il divario rispetto a un’altra fetta di popolazione, che ne rimane inevitabilmente esclusa. Per esempio, si è stimato che nel 1990 una ragazza di 15 anni in un paese considerato ad alto rischio avrebbe avuto 1 possibilità su 12 di morire durante la gravidanza o il parto, mentre in uno con percentuale minore sarebbe stata 1 su quasi 7.000; nel 2020, invece, la probabilità era di 1 su 34 nei paesi con più pericolo di decesso e di 1 su quasi 23.000 in quelli con minor rischio.
Queste disparità sono evidenti anche all’interno dei diversi Paesi: negli Stati Uniti, le donne nere e ispaniche vanno incontro ad avversità molto più frequenti rispetto alla media nazionale, mentre nel Regno Unito questo fenomeno è marcato tra le minoranze e tra le donne con una situazione economica precaria. Questi due Paesi sono tra i pochi ad adottare sistemi di dati che permettono di distinguere queste sproporzioni. Ciò mostra la necessità di migliorare la raccolta e l’analisi per affrontare le disuguaglianze nella salute materna a livello globale. Infatti, nel 2023, l’Unfpa ha pubblicato un rapporto che ha analizzato per la prima volta queste tematiche prendendo in esame diversi gruppi di donne, fra cui quelle di origine africana. Dopotutto, le statistiche disponibili si sono dimostrate limitate: solo 4 dei 35 Paesi presi in esame registrano informazioni sull’etnia delle donne che muoiono di parto, e solo 11 raccolgono indicazioni suddivise in maniera adeguata. Si attesta che la mortalità materna è aumentata dal 1990 al 2020 ma, in assenza di dati dettagliati, è difficile sapere se tali aumenti riguardino tutte le donne o specifiche sottopopolazioni.
In 16 Paesi a basso e medio reddito esaminati da Unfpa, Unicef e Un Women, alcuni gruppi di donne avevano meno accesso alle cure prenatali e assistenza qualificata durante il parto, aumentando significativamente il rischio di decesso durante le fasi della gestazione; anche in paesi come Australia, India, Guatemala, Panama e Russia questa condizione si è dimostrata particolarmente dannosa.
Bisogna specificare, però, che i divari non sono completamente riconducibili a fattori socioeconomici come reddito e istruzione: donne afroamericane laureate affrontano minacce maggiori rispetto a quelle bianche con meno istruzione, suggerendo che l’esposizione all’ingiustizia sistemica, anche chiamata weathering, potrebbe contribuire a queste disparità, dimostrando che le differenze etniche persistono anche quando si considerano questi indicatori. Queste problematiche sono marcate anche per le persone con disabilità e per le minoranze sessuali e di genere: queste comunità hanno una probabilità fino a dieci volte maggiore di subire violenze in base al loro genere incontrando barriere che attestano la mancanza di servizi adeguati, spesso provocata da atteggiamenti discriminatori da parte degli operatori sanitari. Molto complesso diventa quindi identificare e misurare i bisogni di questa fetta di popolazione, a causa dello stigma di questa situazione. Tuttavia, c’è stato un miglioramento significativo: nel 2021, la percentuale di paesi che utilizzano domande standardizzate sui censimenti del Washington Group on Disability Statistics è aumentata dal 33% nel 2018 al 73% nel 2020, evidenziando l’impegno di alcuni soggetti per questa causa.
In Turkmenistan, invece, le donne con disabilità come Alia, affrontano ancora discriminazioni riguardo le loro scelte riproduttive. La protagonista di questa testimonianza ha ricevuto pressioni per abortire a causa della sua condizione, ma ha scelto di proseguire con la gravidanza grazie all’esempio di sua madre, anch’essa cieca. «Come farete a prendervi cura di un bambino? Come lo crescerete, lo guarderete?», ricorda di essersi sentita chiedere. Questa esperienza riflette una realtà comune per molte donne, che spesso subiscono pregiudizi, oltre alla mancanza di accesso ai servizi sanitari e all’educazione sessuale.
Le ricerche rivelano che le donne con disabilità affrontano barriere talvolta invalicabili, tra cui l’esclusione dalle prestazioni mediche e la mancata possibilità di scegliere per il proprio corpo che può sfociare in sterilizzazioni forzate. In risposta a queste sfide, l’Unfpa e la Società dei Sordi e Ciechi del Turkmenistan hanno sviluppato risorse educative, come video sulla salute sessuale e riproduttiva con interpretazione nella lingua dei segni e sono in programma progetti per un’app per cellulari. Queste risorse hanno aiutato le donne a informarsi su contraccettivi e assistenza per la gravidanza, migliorando l’inclusività del Paese.
Nonostante i progressi, Alia sottolinea la necessità di una maggiore sensibilizzazione tra il personale medico per garantire un trattamento equo e inclusivo per tutte le donne, indipendentemente dal loro stato.
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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.
