Vite intrecciate, fili di speranza. Parte sesta

Negli ultimi 30 anni, dopo l’Icpd (International Conference on Population and Development) è ormai assodato che fattori come genere, etnia, disabilità, orientamento sessuale e migrazione non sono semplici svantaggi da calcolare, ma elementi dinamici in una rete complessa di disparità, come abbiamo visto nell’articolo precedente. Le barriere strutturali e intersezionali impediscono ad alcuni gruppi di ottenere cure mediche efficaci: ad esempio, uno studio del 2009 in India ha rivelato che, mentre le metodologie tradizionali avrebbero indicato che uomini e donne poveri/e erano ugualmente svantaggiati, una prospettiva che considera la complessità delle diverse situazioni ha mostrato che gli uomini con un situazione economica precaria vivono una condizione migliore delle donne benestanti. Questo quadro complica la progettazione di risposte efficaci poiché approcci universali minimizzerebbero la questione; è necessario un intervento più mirato per coloro che presentano diversi tipi di vulnerabilità. Le risorse devono essere indirizzate con attenzione per evitare inefficienze e danni, come l’esclusione di gruppi specifici a causa di barriere linguistiche, culturali o fisiche. Questo ha influenzato molte situazioni in alcuni Paesi: nel 1990, l’India rappresentava il 26% delle morti neonatali globali, mentre la Nigeria il 10%. Tuttavia, fino al 2020, la Nigeria ha visto un aumento significativo e rappresentava il 29% delle morti materne, mentre l’India ha ridotto la sua quota all’8%. La diminuzione significativa dei tassi di mortalità in India si deve a migliori servizi di salute materna e politiche volte all’uguaglianza di genere; in Nigeria, invece, i miglioramenti sono stati più lenti e le disuguaglianze si son fatte più marcate a causa di forti disparità tra aree urbane e rurali, tra il nord e il sud e tra gruppi socioeconomici svantaggiati. Nonostante ciò, né l’India né la Nigeria hanno raggiunto gli obiettivi globali prefissati. Le stime del 2023 indicano che il rapporto globale di decessi neonatali nel 2020 è rimasto pressoché invariato rispetto ai cinque anni precedenti ed è ancora lontano dagli obiettivi fissati nel 1994: la situazione globale è peggiorata a causa della mancanza di dati aggiornati e dell’incertezza causata dalla pandemia di Covid-19. Alcune aree, come Europa, Nord America, America Latina e Caraibi, mostrano preoccupanti aumenti nei tassi di mortalità materna, che hanno compensato i miglioramenti registrati altrove. Tuttavia, ci sono segni di progresso, come la significativa riduzione annuale dei decessi materni dal 1994, attribuibile però al calo della fertilità e all’uso di contraccettivi.
L’aborto non sicuro resta una delle cause principale di decessi neonatali, rappresentando circa 1 morte su 13 a livello globale. Nonostante più di 60 Paesi abbiano rimosso restrizioni legali sull’aborto negli ultimi 30 anni, circa un quarto delle donne in età riproduttiva vive in luoghi con forti restrizioni o divieti totali circa l’interruzione volontaria di gravidanza.

Con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, e grazie alla cooperazione della comunità internazionale, si è stimato che quasi una persona su sei ha affrontato discriminazioni e, in alcuni contesti, il numero è arrivato a una su tre. La disparità è generalmente più alta per le donne, le quali segnalano violenze e abusi fino a tre volte più di frequenti degli uomini; le persone con disabilità, d’altro canto, affrontano quasi il doppio delle problematiche rispetto a chi non ha condizioni fisiche particolari. Fra le forme di disparità più frequenti ha particolare influenza quella razziale (che coinvolge dal 6 al 24% della popolazione a seconda del luogo), intersezionale, e di genere (che può colpire fino al 19% delle persone): dal 2023, il numero di Paesi che misurano questi indici è aumentato del 25%, ma meno della metà delle nazioni raccoglie e riporta sistematicamente i rilevamenti. Per questo motivo, nel 2018, l’Unfpa ha aderito a una rete globale di governi, imprese e organizzazioni non governative per lanciare la Carta dei Dati Inclusivi, un impegno a migliorare la qualità, la quantità, il finanziamento e la disponibilità di informazioni approfondite in cui particolare riguardo ha l’impegno di prendere in esame tutte le popolazioni suddividendo le stime per età, genere, reddito e altri fattori condizionanti, e cercando di tenere in considerazione ogni fonte disponibile: vengono richieste competenze specifiche (grazie al contributo dei finanziamenti) per portare a termine un lavoro adeguato, avendo cura dei principi di trasparenza, riservatezza e privacy a garanzia che i dettagli personali non vengano utilizzati in modo improprio.
Un esempio virtuoso è quello dalla Tanzania e del Malawi. In Tanzania, le persone con disabilità hanno affrontato significativi ostacoli quotidiani, come dimostrato dalla storia di Jonas Lubago, un uomo cieco che ha incontrato difficoltà nell’aprire un conto bancario e nell’accesso a servizi pubblici. Nonostante i miglioramenti, le barriere persistono, e il censimento nazionale del 2012 non aveva coperto tutte le categorie di disabilità né la loro gravità.
Nel 2022, il report tanzaniano ha fatto significativi progressi includendo 17 categorie e classificandole in maniera accurata: circa l’11% della popolazione è stata identificata con una disabilità, segnalando un incremento rispetto al censimento del 2012 grazie alla metodologia più dettagliata e adottando anche approcci innovativi.
Il Malawi ha seguito un percorso simile, includendo l’albinismo nelle indagini del 2018 per mettere insieme statistiche su questa popolazione vulnerabile, spesso soggetta a violenze e discriminazioni. Questo miglioramento è cruciale per garantire che le persone con disabilità e albinismo ricevano il supporto e la protezione di cui hanno bisogno.

Le analisi sono fondamentali non solo per le politiche e i bilanci, ma anche per garantire i diritti umani e supportare la partecipazione e le decisioni individuali. Tuttavia, l’accesso ai dati varia ampiamente in base alla posizione geografica, e molte categorie fra queste, come quelle su etnia, lingua, e identità Lgbtqia+, sono ancora scarse sia per esclusione esplicita che per invisibilità.
Le disabilità sono meglio monitorate, ma ci sono ancora lacune significative, soprattutto per quelle cognitive. Le politiche e la raccolta di informazioni spesso presuppongono che ciò che viene misurato abbia importanza ma non sempre è così, come dimostra la situazione della maternità adolescenziale. Ogni anno, circa 12,8 milioni di adolescenti tra i 15 e i 19 anni e mezzo milione di ragazze tra i 10 e i 14 anni partoriscono. La maternità in età adolescenziale è considerata una forma di violenza di genere e comporta gravi rischi per la salute e la vita sociale delle giovani madri. La qualità delle statistiche sulla fertilità minorile varia notevolmente in base all’area geografica: in Africa subsahariana, Asia, Caraibi e Oceania i censimenti sono scarsi o assenti, mentre in Europa e Nord America sono generalmente più completi e affidabili.
All’interno dei Paesi, esistono anche disparità importanti. Ad esempio, in Brasile, le registrazioni delle nascite sono più attendibili nelle fasce di reddito più alto; dall’altro lato, in Bangladesh solo il 56% delle nascite sono registrate ufficialmente. Anche nelle località con indicazioni complete, spesso mancano informazioni rilevanti rendendo difficile analizzare le disparità tra gruppi. Questo accade in Slovacchia, dove non vengono fatti rilevamenti sull’etnia nella registrazione delle nascite, ma le indagini mostrano tassi di fertilità adolescenziale molto più alti tra le ragazze Rom rispetto alla popolazione generale.
I dati “disarticolati” (s’intende una classificazione specifica che tiene conto di fattori di incidenza come genere ed età) permettono di analizzare il contesto per particolari sottogruppi, ma non vengono presi in considerazione per diverse ragioni.
Raccogliere dettagli di questo tipo richiede campioni più grandi e complessi, il che può essere costoso e logisticamente impegnativo. Anche se ci sono metodi per ridurre i costi, come le indagini mirate su gruppi specifici, queste soluzioni non sono sempre adottate.
In alcuni contesti, invece, la raccolta di dati su etnia o religione può condurre a discriminazioni. Esperienze storiche, come il genocidio degli ebrei e dei Rom durante la Seconda Guerra Mondiale e il genocidio in Ruanda, hanno portato alla reticenza di molti paesi ad affrontare l’argomento poiché si teme che un aumento delle tensioni politiche o sociali potrebbero essere utilizzati contro di loro o da oppositori politici per criticare i loro piani d’azione.
Il loro mancato reperimento può riflettere una mancanza di impegno verso l’inclusione dei gruppi marginalizzati o una preferenza per vantaggi politici a breve termine piuttosto che per il progresso a lungo termine e l’inclusione sociale. Come ha affermato il Minority Rights Group, «nessun dato è già un dato» (Thomas, 2023).

Al termine di questo capitolo, si legge una frase, o forse un incoraggiamento: «i dati riguardano tutti noi, in ogni parte del mondo, per spingerci a comprendere, partecipare, compiere delle scelte e riaffermare i nostri diritti».

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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.

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