Attiviste e pioniere della carta stampata negli Usa. Susan B. Anthony

Le rappresentazioni delle suffragiste statunitensi della prima generazione e in generale delle donne impegnate nello spazio pubblico in un’epoca di diritti negati, solitamente restituiscono immagini di figure austere, sgraziate e severe, «…emergono come sante disumanizzate… rigide icone di democrazia femminista» (Jean H. Baker, Sisters The Lives of America’s Suffragists, Hill and Wang, New York 2005). Si tratta di figure che non riescono a diventare familiari nella memoria collettiva come portatrici di valori della comunità, come invece è accaduto per i Padri fondatori. Del resto, per Baker, «sicuramente le Sorelle fondatrici non avevano il tempo, né il denaro, né l’ego di sedersi per un ritratto» e quando nel 1921, l’ultima generazione di attiviste, ottenne che si celebrassero le pioniere Lucretia Mott, Elisabeth Cady Stanton e Susan B. Anthony con una statua destinata al Campidoglio «…le donne erano irriconoscibili. Il Congresso prontamente le soprannominò ‘tre donne in una vasca’ e le consegnò per mezzo secolo ai sotterranei».
Sul versante opposto anche la critica le ha ridicolizzate e prese in giro e non bonariamente, talvolta con sufficienza, più spesso rendendole oggetto di battute sessiste, insulti e oscenità con articoli e vignette satiriche, in tutti i casi sminuendone il valore rispetto ai modelli stereotipati del femminile.

Fra le sorelle fondatrici, Susan B. Anthony (1820-1906), energica e fisicamente imponente, si distingueva per senso pratico e grandi capacità organizzative. Fu una delle poche che, decisa a rimanere single, visse una militanza a tempo pieno senza interruzioni dovute a gravidanze e obblighi coniugali. Disapprovava la tendenza del tempo a dar vita a una prole numerosa per via dei limiti e dei sacrifici imposti alle donne, ma non esitò ad aiutare le altre compagne in difficoltà, come quando Elisabeth Cady Stanton, incinta del settimo figlio e bisognosa di concentrazione e tranquillità per scrivere un discorso sui diritti delle donne, le chiese aiuto per «fare il pudding» e prendersi cura del resto della prole.
Susan visse da riformatrice itinerante organizzando meeting, conferenze e convention su abolizionismo, temperanza e diritti delle donne, affrontando i disagi di viaggi da sola e con le compagne a bordo di treni e carrozze malandate e sempre in ritardo, sopportando i rigori del clima e arrivando a orari improbabili per alloggiare in hotel malfamati. Il pubblico, riunito nelle sale parrocchiali prese in affitto, era prevalentemente maschile, perché le donne non sempre ottenevano il permesso di uscire e nei casi peggiori l’ostilità dell’uditorio poteva degenerare in fischi, grida e lancio di uova. I giornali a loro volta la ridicolizzavano, definendola «sgraziata ermafrodita mezzo uomo e mezza donna… amazzone delle riforme… zitella filantropa che parlava al Sabbah delle streghe… che non sa nulla di matrimonio e per questo non dovrebbe parlarne». Al contrario alcune giornaliste contemporanee ne diedero descrizioni ammirate e benevole, sicuramente più aderenti alla realtà.

Nellie Hutchinson, corrispondente del Cincinnati Commercial, che si aspettava di trovare una donna dall’aspetto duro, si trovò a intervistare «una donna sorridente in un’atmosfera pura e delicata ‘dalla voce affascinante con una debole vibrazione di contralto che le dava un tono di potere, un sorriso dolce e una luce geniale che a tratti illuminava il suo volto pallido e consumato…». La lunga intervista rilasciata a Nelly Bly e pubblicata sul New York World il 2 febbraio 1896 con il titolo Champion of Her Sex, la ritraeva come una donna piacevole e aggraziata nei tratti e nella postura, una vivace, autentica e spontanea «guerriera dai capelli argentati», disponibile non solo a spiegare le ragioni dell’impegno per la causa, ma anche a rispondere alle domande sui gusti personali e sull’amore. Ne usciva il ritratto di una persona vera, originale, carismatica e vitale. «Ha un temperamento solare, tutti la amano e ha una notevole memoria, non dimentica mai di vedere il lato buffo delle cose anche a sue spese. Rappresenta tutto ciò che di buono e di nobile può stare in una donna… e se avremo il voto lo dovremo a lei, aiutiamola a promuovere la causa del suffragio femminile».

L’ottimismo, la tenacia nel perseguire gli obiettivi e la fiducia in sé stessa le derivavano dalla famiglia. Era nata ad Adams (Massachussetts) nel 1820, ma presto si trasferì con la famiglia nello Stato di New York. I genitori Daniel e Lucy Read avevano educato la numerosa prole secondo principi filantropici e umanitari «nella completa libertà personale mentale e spirituale» per svilupparne l’autostima, il rispetto di sé e il sentimento di solidarietà. Il fatto stesso che lui fosse quacchero di tendenze liberali, non sempre osservante dell’ortodossia religiosa, mentre lei era metodista, erano prova dell’autonomia di pensiero che regnava in famiglia. Abolizionisti convinti e punto di riferimento della Railway Underground avevano accolto in casa lo stesso Frederick Douglass. Mentre Daniel prosperava negli affari e si impegnava in azioni filantropiche, Lucy, pur prostrata dai numerosi parti e dalle incombenze domestiche, come in seguito ricorderà Susan, sosteneva le iniziative del marito salvaguardando un minimo di autonomia personale, se è vero che alla fine del 1848 partecipò alla Convenzione di Rochester sui diritti delle donne portando con sé la figlia minore. Avendo provato il livello scadente dell’istruzione pubblica impartita alle femmine ed esigendo la migliore educazione per le sue figlie, Daniel se ne occupò personalmente istituendo una scuola domestica di gruppo e avvalendosi dell’insegnamento di Mary Perkins convinta assertrice dell’eguaglianza fra i sessi. In seguito Susan fu mandata al Deborah Moulson’s Female Seminary di Filadelfia da cui tornò presto per soccorrere la famiglia in difficoltà economiche.

Lavorò come insegnante e poi come preside di una sezione femminile in una scuola di New Rochelle, sperimentando a sue spese il fatto che «uomini stupidi erano pagati il doppio e il triplo rispetto a una donna solo per il fatto di essere uomini». Fu uno dei motivi che la convinsero a dare il suo contributo al movimento per le riforme, impegnandosi su più fronti tutti legati ai diritti delle donne rivendicò la parità in tutti i campi: giuridico, politico, economico e sociale, si batté per la temperanza al fine di proteggere le donne dagli abusi di mariti alcolisti e per l’abolizione della schiavitù che avrebbe posto fine agli stupri e alle violenze dei padroni sulle schiave. Divenne presto una delle leader più carismatiche delle suffragiste di prima generazione e rimase legata da lunga e profonda amicizia a Elisabeth Cady Stanton. Instaurò un vero rapporto di sorellanza con tutte le attiviste del movimento con cui condivise le campagne di sensibilizzazione e, confidando nel clamore e nell’attenzione suscitati nel pubblico da atti di sfida e gesti plateali, si rese protagonista di azioni dimostrative giudicate provocatorie, quando non scandalose e illegali da parte delle autorità e dell’opinione pubblica.

Nel 1853 all’annuale Convention degli insegnanti di New York protestò contro il gender pay gap e chiese che le donne fossero ammesse ai vertici dell’organizzazione. Ne derivò un dibattito acceso sull’opportunità di ascoltarla o meno accompagnato da sprezzanti grida di protesta, mentre lei, rifiutando di tornare a sedersi, volle rimanere eretta e immobile di fronte al pubblico durante tutta la discussione. Seguirono altri gesti forti. Durante la guerra le suffragiste organizzarono Tour di Emancipazione interrazziali con relatori e relatrici e nel 1863 fondarono la Women’s Loyal National League decise a combattere «una guerra di idee e non di fucili». Raccolsero più di quattrocentomila firme sottoscrivendo una petizione a sostegno del XIII emendamento che dichiarava fuorilegge la schiavitù e che per Susan rappresentava «un primo passo verso una nuova libertà che avrebbe incluso anche le donne bianche e nere» (Baker).
Nel 1865 Susan e Stanton promossero una petizione per il Suffragio universale: «Le sottoscritte, donne degli Stati Uniti chiedono rispettosamente un emendamento della Costituzione che proibisca ai vari Stati di privare i cittadini del diritto di voto in base al sesso». Ma le aspettative rimasero deluse perché se il XIV emendamento del 1868 ampliò il concetto di cittadinanza, il XV, approvato nel 1870 garantì il diritto di voto a tutti i cittadini senza distinzione di razza, colore o precedente condizione di schiavitù continuando a ignorare le donne. Il movimento suffragista si spaccò proprio su questo emendamento. L’American Women’s Suffrage Association (Awsa) di Lucy Stone, di posizioni moderate e favorevole al XV emendamento, decise che per la conquista del voto si sarebbe adottata una strategia di piccoli passi Stato per Stato, mentre la National Women Suffrage Association (Nwsa) di Stanton e Anthony, ostile all’emendamento «non per quello che era, ma per quello che non era» e cioè non perché garantisse il voto agli afroamericani, ma perché non lo garantiva alle donne, come precisò Susan, puntava a ottenere una legge federale. Portavoce della Nwsa dal 1868 al 1871 fu il settimanale The Revolution fondato da Susan e Stanton e finanziato da George Francis Train, eccentrico e controverso imprenditore sostenitore del suffragio e di opinioni razziste. Motto del giornale: Uomini. I loro diritti e niente di più. Donne, i loro diritti e niente di meno. Coerentemente con il suo nome (ben diverso dai precedenti The Una o The Lily) il giornale veicolava una visione radicale su temi controversi quali divorzio, prostituzione, controllo delle nascite, religione, discriminazioni sul lavoro, coinvolgendo nel discorso sui diritti anche le donne della classe operaia.

Susan rimase ben decisa a esercitare comunque il diritto di voto propugnando un’interpretazione favorevole alle donne della legge sulla cittadinanza. Il XIV emendamento stabiliva che le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti erano da considerarsi cittadine degli Stati Uniti con diritto di godere dei privilegi di tutti i cittadini. Per Susan «tali privilegi includevano certamente il diritto di voto» e fu così che in prossimità delle elezioni presidenziali del 1872 organizzò un gruppo di cinquanta donne che avrebbero chiesto di essere registrate come elettrici nei rispettivi uffici elettorali. Quando lei e le sue tre sorelle si presentarono in uno degli uffici di Rochester fu grande l’imbarazzo dei cancellieri che, dopo aver rifiutato e consultato i superiori, trascorsa un’ora abbondante di discussione, cedettero di fronte alle argomentazioni di Susan che citò il XIV emendamento aggiungendo: «Se ci rifiutate di esercitare questo diritto come cittadine vi denuncerò al tribunale penale e farò causa a ciascuno di voi per gravi danni. So di poter vincere, ho il giudice Selden come avvocato e il denaro per sostenere le spese e se sarà necessario arriverò fino all’ultimo grado di giudizio» (Douglas Linder, The Trial of Susan B. Anthony for Illegal Voting ed. online). A Rochester nello stesso giorno riuscirono a registrarsi altre quattordici cittadine. «La cittadinanza non comporta il diritto di voto più di quanto comporti il potere di volare sulla luna… Se queste donne dell’Ottava circoscrizione si offrissero di votare, bisognerebbe opporvisi… e se gli ispettori ricevessero e depositassero le loro schede, dovrebbero essere tutti perseguiti dalla legge» (Rochester Union and Advertiser, 4 Novembre 1872).

Il 5 Novembre Susan andò per la prima volta a votare suscitando un grande clamore sulla stampa e nell’opinione pubblica. Denunciata per voto illegale fu arrestata e processata. La legge prevedeva una pena massima di 500 dollari o tre anni di reclusione, ma lei rifiutò di pagare, sperando di poter portare il suo caso davanti alla Corte Suprema. Tuttavia la protesta non ebbe seguito perché l’avvocato Selden, «non sopportando di veder incarcerare una donna che rispettava», pagò personalmente la cauzione suscitando le proteste di Susan. Senza dubbio il caso fu una grande opportunità per diffondere le argomentazioni a favore del suffragio, ma contribuì anche ad allontanare ulteriormente quella parte benpensante, moderata e credente della popolazione, fra cui molte donne, per la quale la messa in discussione dei ruoli e l’uguaglianza erano sinonimo di disordine sociale e irreligiosità.

Nel 1876 alla World’s Fair di Filadelfia le donne della Nwsa che avevano chiesto di inserire nel programma delle celebrazioni per il Centenario della Rivoluzione anche la lettura della Dichiarazione di Seneca Falls, ricevettero un rifiuto ottenendo solo qualche biglietto d’ingresso per la Philadelphia Independence Hall, sede storica dei festeggiamenti del 4 luglio presieduti dal Senatore Thomas Ferry del Michigan. Alla cerimonia Susan, dopo aver assistito alla lettura della Dichiarazione d’Indipendenza si allontanò dal suo posto e avanzando dignitosamente, forte anche della sua presenza fisica, salì sul palco consegnando allo «sbalordito senatore» una copia della versione femminile della Dichiarazione. Nel parapiglia che ne seguì tra le grida che le intimavano di sedersi e richiamavano all’ordine, Susan tornò lentamente sui suoi passi tenendo tra le mani la sua Dichiarazione e uscì dalla sala. Fuori lei e le compagne, salite su un palchetto allestito per i musicisti e sotto un ombrello che le riparava dal sole, lessero a turno la loro Dichiarazione lanciando un appello alla disobbedienza civile delle donne che erano tassate senza essere rappresentate e private del diritto a un giusto processo da parte di una giuria di pari. Susan dichiarò «Chiediamo giustizia, chiediamo uguaglianza, chiediamo che tutti i diritti civili e politici che appartengono ai cittadini degli Stati Uniti siano garantiti a noi e alle nostre figlie per sempre!».

Sul matrimonio Susan espresse posizioni alquanto radicali per i suoi tempi, lo definiva manmarriage in quanto le donne «buttavano via ogni progetto e scopo della propria vita per conformarsi ai piani e agli scopi della vita di un uomo… il matrimonio è sempre stato una questione unilaterale… diseguale… l’uomo guadagna tutto e la donna perde tutto… le donne non sono state pensate altrimenti che come proprietà al pari degli schiavi» (Baker). A Nelly Bly che l’aveva interrogata sull’amore rispose che pur essendosi innamorata migliaia di volte, non aveva mai pensato di lasciare la sua libertà per diventare «la governante di un uomo». Le donne sposate se di condizione sociale bassa erano destinate a diventare governanti e donne di fatica e se benestanti, sarebbero diventate bambole decorative da salotto. Al contrario, un matrimonio vero avrebbe dovuto unire due anime su un piano di perfetta eguaglianza, senza che ci fosse desiderio di controllo dell’uno sull’altro o di schiavizzare il/la partner. La sua singletudine le consentì di spendersi pienamente per la causa e di vivere consapevolmente una condizione che non era un ripiego, ma una scelta da cui partire per ipotizzare formule di convivenza solidali, alternative al rapporto di coppia tradizionale in cui le donne avrebbero potuto realizzare pienamente una vita indipendente. Puntava a «un’epoca di donne single che non saranno controllate e non accetteranno la dipendenza dal vitto e dall’alloggio dei parenti maschi e, se ne avessero avuto la possibilità, ognuna con una casa propria. Tra queste giovani donne single comprendeva donne abbandonate, fanciulle deluse, madri vedove, mogli in fuga con i bambini». Erano tipi di donne che Susan aveva incontrato e aiutato nella sua vita diventando sempre più consapevole della necessità di cambiare le leggi. Tra le tante anche Phoebe Phelps, moglie di un senatore del Massachussetts fuggita dal Manicomio in cui il marito violento l’aveva fatta internare. Susan l’accolse e organizzò la sua fuga dallo Stato facendole passare clandestinamente il confine per condurla in salvo in Pennsylvania dove il marito non avrebbe legalmente potuto imporle di tornare a casa. Aveva compiuto un atto illegale, ma aveva seguito la sua coscienza.

Come tutte le altre suffragiste della prima generazione anche Susan non riuscì a vedere il risultato del suo lavoro perché morì nel 1906. Bisognò aspettare il 1920 per la ratifica del XIX emendamento sul suffragio femminile, che prese il nome di Emendamento Anthony.

Per approfondire
Jean H. Baker, Sisters The Lives of America’s Suffragists, Hill and Wang, New York 2005
Douglas Linder, The Trial of Susan B. Anthony for Illegal Voting ed. online
https://www.rarenewspapers.com/view/621269?acl=851761768&imagelist=1#

In copertina: Museo nazionale di Storia Americana. Dalla scrivania di Susan B. Anthony. Calamaio utilizzato da per produrre gli articoli per The Revolution.

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Articolo di Rossana Laterza

Insegnante di Italiano e Storia in pensione. Con il gruppo Toponomastica femminile ha curato progetti di genere nella scuola superiore e collaborato a biografie di donne di valore dimenticate.

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