Due belle esposizioni alle virtuose dell’arte in pochi mesi. A giugno era stata inaugurata la mostra Artiste a Roma. Percorsi tra secessione, Futurismo e Ritorno all’ordine, al Casino dei Principi di Villa Torlonia (https://vitaminevaganti.com/2024/06/29/artiste-a-roma-percorsi-tra-secessione-futurismo-e-ritorno-allordine/); dal 25 ottobre, e fino al 23 marzo, è possibile visitare l’esposizione Roma Pittrice. Artiste al lavoro tra XVI e XIX secolo ospitata nelle sale del Museo di Roma a Palazzo Braschi.
Lo scenario è ancora una volta l’Urbe, la «città delle arti, pittrice essa stessa» si legge nel ricco catalogo a cura di Ilaria Miarelli Mariani, Direttrice dei Musei Civici, e Raffaella Morselli, docente ordinaria di Storia dell’arte moderna presso l’Università degli Studi La Sapienza. Roma ha dato i natali ad alcune delle 56 artiste esposte, mentre altre hanno trovato qui il luogo e l’opportunità della pratica, dello studio, della formazione. Città eterna e scrigno d’arte, realtà cosmopolita e vivace, Roma le ha accolte “maternamente” nei secoli, offrendo vedute uniche e luci incomparabili, ma anche l’attenzione dei committenti, la possibilità di affermazione, l’opportunità di essere ammesse nelle accademie — quella di San Luca, dell’Arcadia e dei Virtuosi —, luoghi tradizionalmente maschili che, non senza riluttanza, cominciarono ad aprirsi alle donne.
Protagoniste sono le pittrici, le incisore, le miniaturiste, l’architettrice Plautilla Bricci, presente in mostra con la Madonna col Bambino ed evocata in tre prospetti ottocenteschi della villa detta Il Vascello — forse il suo lavoro più celebre — e in una veduta dello stesso edificio in rovina dopo i combattimenti del 1849, opera di Giambattista Bassi.


Coprotagoniste sono le circa 130 opere che accompagnano il pubblico lungo un cammino importante nell’arte a firma femminile, in un arco temporale ampio che va dal Rinascimento al tardo Ottocento. Un cammino che è una sorprendente scoperta e un felice incanto, sala dopo sala, opera dopo opera, alcune più conosciute, altre meno, altre ancora presentate per la prima volta in questa occasione dopo un lungo oblio nei depositi museali. «Per far riemergere le opere delle artiste — scrivono le curatrici — è stato necessario interpretare molti silenzi: poco ricordate nei documenti e spesso relegate a ruoli minori nel sistema delle arti, la loro produzione è stata sovente confusa con quella dei loro maestri e familiari. Attraverso tralasciate citazioni in fonti, documenti, qualche ricordo in diari e corrispondenze, autoritratti e firme, unico modo ufficiale per affermare pubblicamente il loro operato, è stato possibile cominciare a delineare questa realtà inedita».


Alcune protagoniste della mostra sono note al pubblico amante dell’arte: Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi — è con i loro dipinti che si apre l’esposizione — oppure Giovanna Garzoni, della quale si possono ammirare un autoritratto nelle vesti di Apollo e un album di raffinate e dettagliate miniature proveniente dall’Accademia di San Luca; e ancora la svizzera Angelica Kauffmann, che nell’Urbe visse a lungo e morì nel 1807, ammirata prima e compianta poi da Antonio Canova, e la francese Élisabeth Vigée Le Brun, che a Roma si rifugiò all’indomani della presa della Bastiglia nell’autunno del 1789.
Le ricerche avviate su di loro da tempo hanno consentito di superare la cortina di silenzio in cui le aveva relegate la storiografia ufficiale (e maschile), nonostante la fama che le illuminava e l’attenzione ricevuta in vita. Non per tutte però è stato così.


Marianna Candidi Dionigi, i cui dipinti esposti (L’Aniene presso Tivoli ed Ercole che conduce le mandrie di Gerione) costituiscono importanti saggi di pittura paesaggistica neoclassica aperta alle moderne suggestioni del pittoresco e del sublime, e il suo volume Viaggi in alcune città del Lazio che diconsi fondate dal re Saturno è uno straordinario esempio di letteratura odeporica, è un’artista ancora non completamente indagata dalla critica; Emma Gaggiotti, celebre ritrattista del XIX secolo, fervente patriota risorgimentale e dotata pianista e arpista, fu apprezzata dalla regina Vittoria e dall’imperatore Guglielmo di Prussia e celebrata da molte figure di intellettuali italiani e stranieri, ma dopo la morte il suo ricordo è sfumato. Stessa sorte per Erminia De Sanctis e Virginia Barlocci, artiste del XIX secolo a lungo trascurate e le cui opere sono quasi del tutto inedite.

È il destino comune delle donne: essere state a lungo assenti «dalla considerazione e dalle pratiche di riconoscimento pubblico e duraturo», per usare le parole di Daniela Brogi (Lo spazio delle donne, 2022), e condannate a un duraturo e ostile “fuori-campo” nella narrazione storico-culturale, dopo aver scontato anni di difficile carriera lungo sentieri tortuosi e in faticosa salita. È un loro tratto comune quello di aver avuto accesso all’arte solo attraverso la bottega di un padre, di un fratello, di un marito; di aver lottato per la propria autonomia; di essere rimaste a lungo escluse dai centri del sapere ufficiale, in vita dalle scuole e dalle accademie, dopo la morte dalle sale dei musei. È importante averle riunite in questa mostra, come è importante che siano state realizzate due mappe della città: una dedicata alle residenze e agli studi (o botteghe) in cui operavano le artiste e l’altra che riunisce le indicazioni dei luoghi di Roma in cui recarsi per proseguire la conoscenza diretta del loro lavoro.
Pitture morte, dipinti sacri, quadri a tema mitologico o allegorico, paesaggi, miniature, disegni, incisioni, ritratti e autoritratti offrono saggi di notevole perizia tecnica che tolgono ogni dubbio sul valore dell’arte a firma femminile.


Potente e innovativa l’iconografia dell’Aurora di Artemisia Gentileschi che, eliminando il carro solare, fa muovere la dea dell’alba in mezzo a un campo, con la natura rugiadosa e la luce ancora tra buio e primi bagliori; sontuose le nature morte delle seicentesche Laura Bernasconi, detta anche Laura “dei Fiori”, e Anna Stanchi, pittrice sulla quale da poco si sono aperte prospettive di ricerca; meticolosi i lavori di incisione della cinquecentesca Diana Scultori, detta Diana Mantovana, di Girolama Cagnucci, Teresa Del Po, Laura Piranesi, figlia del celebre Giovanni Battista, apprezzata e conosciuta dai suoi contemporanei, meno da noi. Nella sala che accoglie i ritratti e gli autoritratti delle artiste del XIX secolo regna uno spirito «fortemente identitario», frutto di una nuova considerazione che le pittrici hanno di se stesse e la società ha di loro: determinazione, consapevolezza, orgoglio per il proprio lavoro emergono negli autoritratti ma anche, in un riuscito gioco di rimandi tra quadro e quadro, nelle opere che le immortalano a firma dei colleghi.



Viene esposta per la prima volta in Roma Pittrice l’opera Allegoria della Poesia e della Musica dipinta nel 1619 da Giustiniana Guidotti, accademica di San Luca, l’unica opera ascritta alla pittrice grazie alla firma apposta. Su di lei poca la documentazione e ancor meno le attribuzioni e c’è da immaginare che le sue opere possano essere attribuite al pittore Paolo Guidotti, suo padre e maestro.
Anche Claudia Del Bufalo è presente con un dipinto (il ritratto della sorella Faustina in abito nuziale), l’unico che si conosca perché firmato. La firma era il solo modo che avevano per affermare pubblicamente la propria attività e ribadire il proprio valore, l’unico modo per sconfiggere il tempo. Una produzione dispersa anche quella di Maria Felice Tibaldi, miniaturista romana del XVIII secolo, la cui attività di pittrice, riferita da diverse fonti, non è attestata né da dipinti né da documenti e solo studi recenti hanno rintracciato una sua raccolta di miniature.

Eppure per meriti artistici fece parte dell’Accademia di San Luca e dell’Arcadia, il suo atelier fu frequentato dalla numerosa élite internazionale presente a Roma e col suo lavoro mantenne l’intera famiglia per molti anni; la miniatura esposta in mostra (Cena in casa del fariseo) venne acquistata da papa Benedetto XIV nel 1752 per mille scudi romani e fu la prima opera di artista vivente nelle collezioni pubbliche della Pinacoteca Capitolina, la più antica al mondo. Basterebbero questi tre casi per riflettere sulla disparità, sul divario e gli squilibri con cui sono state condotte le ricerche nel campo artistico.
Prima di accedere agli ambienti dell’esposizione Roma Pittrice, si viene accolte da una figura di giovane donna che tiene con la mano un supporto sul quale sta per tracciare le linee di un disegno; alle spalle il cavalletto con una tela montata, sul piano un vaso di fiori, i pennelli e la tavolozza dei colori pronta. È il Ritratto di un’artista di Pietro Paolini (XVII secolo), una figura femminile ignota che, per la vivezza dei colori e della luce e per la naturalezza dei tratti, sembra viva, intenta a osservarci col suo profondo sguardo.

È il simbolo di chissà quante altre pittrici dimenticate, sepolte dai secoli trascorsi, dal silenzio e dai pregiudizi con cui si è guardato all’arte delle donne, dalla disattenzione e dagli stereotipi con cui ci si è occupati di loro. L’assenza delle artiste (ma più in generale delle donne in ogni campo dell’agire umano) è un fenomeno macroscopico davanti ai nostri occhi e, per dirla ancora una volta con Daniela Brogi, «di cui non si discute in maniera collettiva; proprio come se si trattasse di un grosso elefante, o per meglio dire un’elefantessa, intrappolata in una stanza dove si continua a conversare amabilmente, fingendo di non vedere». Per le curatrici dell’esposizione di Palazzo Braschi «la mostra costituisce una prima ricognizione sulla storia complessiva delle presenze delle artiste a Roma nell’era moderna». Le 56 artiste esposte fino a marzo 2025 nelle stanze del Museo di Roma sono un’importante drappello ma, appunto, una pattuglia che precede le altre ancora da recuperare alla storia e alla conoscenza. I loro nomi, al di là di alcune personalità di maggior spicco, aprono un cammino non più rimandabile. Ma elencare i nomi, creare lunghe liste non basta più, è necessario — e l’esposizione questo lo fa — costruire prospettive di studio nuove, articolate e complete. Credo sia questo il mondo che si apre alle ricerche future, suggestivo e affascinante perché gli orizzonti sono in gran parte ancora da esplorare.
In copertina: Emma Gaggiotti, La famiglia Gaggiotti Richards, particolare dell’autoritratto dell’artista, 1853 ca., pastello e tempera su carta, Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe.
***
Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.
