Donne come noi

Menandro, a cavallo tra due epoche, mette in scena nelle forme classiche della commedia donne e uomini che, indipendentemente dalla loro condizione sociale, sperimentano tutta la gamma delle emozioni e delle passioni suscitate dall’amore — dalla tenerezza alla violenza, dall’abnegazione alla gelosia — e cercano di conciliarle con le richieste di conformarsi alle regole elaborate dalla collettività, rischiando di esserne travolti.
Teocrito, in pieno III secolo a. C., fa dell’amore un gioco — sia pure a volte crudele — e lo trasferisce nel mondo idealizzato dei pastori, che, vivendo a contatto con la natura, sembrano poter conservare quella purezza e autenticità di sentimenti che la vita nelle grandi metropoli ellenistiche mette seriamente a rischio.
Ma è a lui che dobbiamo i ritratti femminili più realistici e moderni che la letteratura greca ci abbia tramandato. Gorgo e Prassinoa, protagoniste di quello che nella raccolta degli idilli teocritei porta il numero XV ed è meglio noto come Le Siracusane o Le donne alla festa di Adone.
Esse ci raccontano un mondo molto simile al nostro e irrimediabilmente lontano da quello in cui si muovevano le grandi eroine del mito messe in scena dalla tragedia, ma anche diversissimo da quello reale del secolo d’oro della democrazia ateniese. Fino al punto che, se Fedra, Medea, Ifigenia, ma anche Aspasia e la moglie adultera di Eufileto — il cittadino ateniese che Lisia fa assolvere per aver ucciso l’uomo che gliel’aveva rovinata — le sentiamo lontane anni luce per sensibilità e valori, Gorgo e Prassinoa, le due amiche delle Siracusane ci sembrano invece del tutto simili a quelle che incontriamo a spasso per le città moderne.

Nei pochi decenni che separano Menandro da Teocrito, il mondo è profondamente cambiato: all’organizzazione politica e sociale delle singole città greche, che, pur nelle loro differenze, condividono una visione del mondo in cui non c’è opposizione tra pubblico e privato e ogni singolo cittadino si sente depositario di responsabilità e capacità di scelta, si è sostituita quella centralizzata dei regni ellenistici nati dalla dissoluzione dell’impero di Alessandro Magno, governati da sovrani assoluti che, in cambio della delega totale di ogni potere, assicurano sicurezza e benessere. Le conquiste del mitico re macedone hanno unificato buona parte del mondo allora conosciuto, realizzando una sorta di globalizzazione sotto il segno della lingua greca. E alle rappresentazioni teatrali, concepite ancora ai tempi di Menandro come strumento efficace per proporre all’attenzione e alla riflessione di tutti il dibattito sui grandi temi che attraversano sia la vita collettiva che quella individuale, si sostituiscono grandi eventi che, pur ispirati ai miti e al culto delle divinità tradizionali, ne esaltano la dimensione spettacolare, capace di attrarre persone di tutte le categorie sociali, non più cittadini chiamati a ragionare e decidere, ma spettatori da stupire e intrattenere. Le donne ora escono liberamente di casa, magari in compagnia di amiche e di serve, sempre che, beninteso, riescano a conciliare i loro svaghi con le incombenze della vita familiare: l’accudimento di figli/e in primis e le esigenze di mariti preoccupati che siano rispettati gli orari dei pasti.

Il chiacchiericcio con cui le nostre siracusane — che in realtà vivono ad Alessandria d’Egitto — accompagnano i preparativi per uscire di casa, tra le sgridate alla bambina o bambino e gli ordini impartiti alla serva, non sfigurerebbe in una commedia di Goldoni. Ma vediamole meglio.
Gorgo va a prendere l’amica Prassinoa per andare con lei alla festa organizzata dalla regina Arsinoe II, moglie di Tolomeo, in occasione delle Adonie, la festa dedicata al giovinetto amato da Afrodite e da lei prematuramente perduto. La donna arriva trafelata, lamentandosi della gran folla che riempie le strade, dei carri e delle guardie che rendono difficile farsi largo. E accenna, con una punta di malignità, agli svantaggi di abitare in periferia. Prassinoa ne conviene: «Tutta colpa di quel matto di mio marito, che ha scovato questa bicocca ai confini del mondo… difficile chiamarla casa. E l’ha fatto, ne sono certa, perché non stessimo vicine, per farmi dispetto… è invidioso». Teocrito, Idilli, XV, vv. 7 -10.
Gorgo invita l’amica a non parlar male del marito davanti al bambino, ma quella proprio non si tiene: «Figurati che l’altro giorno gli avevo chiesto di comprarmi al mercato delle cose che mi servivano per il trucco… e lui è arrivato col sale… ci credi? Il sale! grande e grosso com’è!». Gorgo la capisce perfettamente: anche suo marito al mercato si fa imbrogliare, spende un sacco di soldi per tessuti e pelli scadenti, e poi tocca a lei cercare di metterle insieme in qualche modo. Incita l’amica a far presto: «Su, prendi lo scialle e il vestito con le fibbie, andiamo al palazzo reale… sembra che la regina abbia preparato una sorpresa spettacolare». Ma Prassinoa non riesce a districarsi, mentre si lava continua a parlare alternando moine per tenere buono il bambino e rimbrotti continui alla serva che non ne fa una giusta: soprattutto non fa attenzione a non sprecare il sapone per il bagno. Quando finalmente è pronta, Gorgo le fa i complimenti per come le cade il vestito nuovo e le chiede quanto le sia costato: «Un sacco di soldi, meglio che me lo dimentichi — risponde lei — per non parlare della fatica che mi ci è voluta per cucirlo». Il bambino frigna, vorrebbe uscire con la mamma, ma quella non ci pensa affatto a portarselo dietro: il pretesto è la gran folla e il pericolo costituito da cani e cavalli. Un’ultima raccomandazione alla schiava — di origine non greca — che si occupa del piccolo, perché lo faccia divertire, richiami in casa il cane e chiuda bene la porta e finalmente le due amiche sono fuori.

Ma la gente è davvero tanta, la confusione è infernale, si fa fatica a camminare; un tempo ci si sarebbe anche dovute guardare dai ladri. Ma ora, grazie al re, che, tra le prime cose, si è fatto carico della sicurezza delle sue e dei suoi sudditi, le cose sono cambiate: «Non c’è più un furfante che ti si avvicini di nascosto e ti dia fastidio, mentre cammini, non è più come prima, che ogni imbroglione era libero di farti brutti scherzi, impunemente: tutti uguali, ladri, gentaglia». Man mano che le due amiche, con le rispettive serve, si avvicinano al palazzo, la calca aumenta e i cavalli da parata del re rendono difficoltoso procedere: chissà se alla fine riusciranno a entrare a palazzo e comunque i posti migliori saranno già tutti presi. Lo scialle di Prassinoa si strappa e lei se la prende con uno che le sta troppo addosso. Poi, a forza di spintoni, riescono a conquistare una posizione buona per godersi lo spettacolo: affascinate dalla grandiosa scenografia, le due signore non la smettono di commentare ogni particolare degli abiti, degli arredi, delle acconciature di cantanti e attori. Finché qualcuno accanto a loro non ne può più: «Smettetela, disgraziate, di ciarlare in continuazione, come tortore… ci state sfinendo con tutte quelle vocali aperte!». La battuta fa riferimento al fatto che Gorgo e Prassinoa hanno un forte accento provinciale, che risulta sgradevole a chi parla la lingua della metropoli, quella lingua comune che è stata privata di ogni inflessione regionale. Ma Prassinoa non è certo una che si lascia zittire e anzi rivendica le sue origini siciliane con dotte citazioni di miti famosi. Soprattutto afferma di non essere disposta a prendere ordini da nessuno. L’amica Gorgo la invita tuttavia a tacere, per non perdersi la performance della prima attrice. Da questo momento in poi anche chi legge è trascinato letteralmente dentro la scena.
Purtroppo però già sui titoli di coda le due donne sono costrette ad andare via. È Gorgo a ricordarlo all’amica: «Che bravi tutti, Prassinoa… però è ora di tornare a casa: Dioclide [così si chiama suo marito] non ha ancora pranzato e avrà sicuro preso d’aceto… meglio che non ti avvicini a lui, se ha fame».
È un vero e proprio invito a scendere dalle nuvole, dove per pochi minuti Gorgo e Prassinoa si sono lasciate trasportare, grazie alla magia dell’arte. La realtà quotidiana ha le sue esigenze e le sue meschinità. Con cui bisogna imparare a convivere, se si vuole ritagliarsi ogni tanto uno scampolo di sogno.

Può essere interessante ricordare brevemente un altro dei mimi di Teocrito, il II, noto col titolo Le incantatrici. In esso Simeta, una ragazza addolorata per la lunga assenza del giovane che l’ha sedotta, si rivolge alla magia con la speranza di riuscire a riportarlo al suo amore: qualcuno le ha detto che si è invaghito di un’altra, e lei oscilla tra il desiderio di vendicarsi e quello di ottenere semplicemente il suo ritorno. Rivolgendosi alla Luna, ripercorre struggendosi tutte le fasi dell’innamoramento e della passione, osservandone gli effetti sul suo corpo, con accenti che ricordano Saffo.
Ma nulla resta della dimensione tragica che accompagna l’esperienza amorosa nella poesia della poeta del VII secolo: anche l’amore è ormai solo un gioco soggetto alle alterne sorti che caratterizzano ogni esperienza umana.

In copertina: scena dal mito di Medea. Hydria attica da Vulci, 500-470 a.C. British Museum Londra. (Particolare).

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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.

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