Il primo incontro di La violenza di genere: teorie e pratiche fra passato e presente, il nuovo corso della Società italiana delle storiche (Sis), si intitola Genere e violenze nel tempo lungo del patriarcato e viene presentato da Annastella Carrino. Il corso, gratuito, è collocato all’interno del progetto La storia (di genere) al servizio del tempo presente, finanziato dai fondi “Otto per mille 2023 della Chiesa Valdese”.
La prima parte del corso ha trattato la definizione di alcuni termini, cercando di andare oltre le interpretazioni tradizionali e semplicistiche. Secondo l’esperta, il primo di questi, il patriarcato, non può più essere visto solo come un sistema di oppressione dell’uomo sulla donna, ma come una struttura più articolata che include dinamiche di potere anche all’interno del mondo maschile. Questa visione è frutto di studi scientifici e storici che hanno contribuito a destrutturare un’immagine monolitica e binaria del patriarcato, portando a interpretazioni che lo vedono come un sistema sfaccettato, legato, in qualche modo, al concetto di genere.
Se tradizionalmente è stato visto come una costruzione sociale legata al sesso biologico, oggi è diventato una nozione che va oltre al dato, e si avvicina di più a una concezione sociale simbolica. Studiose come Sylvie Steinberg, Joan Scott e Judith Butler hanno permesso un’esplorazione più profonda di questo tema, designando il genere come una categoria fondamentale per interpretare le relazioni sociali e i ruoli sessuali nella storia. La storia a esso connessa non si concentra semplicemente sulle differenze biologiche tra i sessi, ma cerca di andare oltre una visione essenzialista il cui rischio è quello ridurre donne e uomini a meri gruppi fissi, definiti da caratteristiche e ruoli immutabili: un approccio, questo, che oltre a generalizzare in modo pericoloso, riproduce anche stereotipi occidentali e spesso legati alle persone bianche.
Le identità non sono naturali o costanti, ma si costruiscono e si trasformano nel tempo, vengono influenzate dalle relazioni, dai rapporti di potere, dalle norme sociali e dalle istituzioni: per questo, storici e storiche devono essere consapevoli dei propri pregiudizi che spesso derivano dal contesto culturale di riferimento, cercando approcci per affrontare i propri preconcetti con spirito critico. Di pari passo, è di vitale importanza educare le nuove generazioni a riconoscere le trappole legate a visioni stereotipate, come l’uso inconsapevole del “maschile sovraesteso” e il rischio di vedere il genere come qualcosa che riguarda solo le donne.
Tali fenomeni, però, includono sia le donne che gli uomini: a causa di queste trappole, vi è una mancanza di studi sulla pluralità delle maschilità che pur c’è bisogno di indagare. Il dibattito sul patriarcato, infatti, si concentra ancora principalmente sulle donne, mentre gli uomini vengono spesso trascurati, nonostante siano parte integrante di questo sistema i cui gli effetti collaterali, seppur in modi diversi, si ripercuotono su tutte le identità.
Il predominio di questa prospettiva prettamente occidentale negli studi in questo ambito ha portato a interpretazioni per lo più unilaterali: la soluzione sarebbe adottare uno sguardo non etnocentrico e non gerarchico, trattando nel dibattito anche studi transnazionali, coloniali, e intersezionali; per costruire un quadro interpretativo che riflette in maniera più puntuale la complessità della realtà, è necessario includere teorie e metodologie differenziate, dai queer studies, agli studi postcoloniali fino agli studi sulla disabilità.
L’incontro, poi, ha trattato anche il tema della violenza, che spesso viene vista in modo dicotomico dove l’uomo è aggressore e la donna è vittima, ma c’è molto più di questo: nelle ricerche recenti si è cercato di abbandonare l’analisi sugli atti in sé, studiando invece anche le precondizioni e le dinamiche che portano a questi fenomeni. È importante tenere a mente che anche le donne possono compiere dei soprusi e ciò sfida l’immagine tradizionale della donna solo come vittima di un carnefice, restituendo una visione più complessa dell’essere umano. Molto spesso ciò avviene perché ci si concentra sulla violenza fisica, dimenticando che essa può essere — specialmente tra le nuove generazioni — anche simbolica e verbale: queste forme sottili di soprusi possono essere esercitate tramite il linguaggio e i social media e meritano attenzione perché altrettanto dannose.
Per quel che riguarda le forme tradizionali di questi fenomeni e sebbene ci sia maggiore consapevolezza a riguardo, permangono ancora tabù e resistenze culturali rispetto agli abusi domestici, specialmente riguardo allo stupro coniugale e alla questione del consenso, spesso frainteso come irrevocabile una volta dato.
Si delineano, quindi, molte tipologie di oppressione, le cui modalità si diversificano in maniera abbastanza netta fra le generazioni: tanto per le/gli adulti quanto per i/le più giovani, diventa indispensabile superare le dinamiche che conducono a queste manifestazioni. Un modo per raggiungere questo obiettivo potrebbe essere la rivista Genesis, pubblicata dalla Società italiana delle storiche, che approfondisce quanto detto; anche il recente libro di Laura Schettini, che tratta della storia della violenza sulle donne, e il film francese Le Garçon et Guillaume, à table! (in italiano Tutto sua madre) possono essere validi strumenti di approfondimento. Quest’ultimo, una riflessione sull’identità, racconta di Guillaume, un ragazzo che si distingue dai suoi fratelli e viene visto in modo differente dalla madre, che quando chiama i ragazzi e Guillaume a tavola implicitamente compie una distinzione tra loro, stimolando una discussione profonda sul tema.
Proprio per questo, per comprendere il patriarcato e le dinamiche di potere, bisogna ampliare l’analisi di genere includendo le identità trans, non binarie e appartenenti in generale alla comunità Lgbtqia+: questo concetto è stato esplorato nelle teorie di studiose come Joan Scott e Judith Butler; mentre Scott invita a intenderlo in termini di relazioni di potere, Butler introduce l’idea di performance di genere, riferendosi al modo in cui gli individui agiscono secondo certe aspettative, sia per scelta che per imposizione culturale. Ma quali possono essere queste convenzioni legate a tali cariche performative? Già dall’infanzia i sensi di appartenenza binari vengono influenzati in modo spesso involontario ma influente, ad esempio attraverso i giochi assegnati ai bambini o alle bambine, fatti che, se perpetrati nella crescita, portano a specifiche conseguenze in età adulta. In questi contesti, anche e soprattutto il linguaggio può avere forti ripercussioni, tanto negative quanto potenzialmente positive: nelle nuove generazioni cresce uno spiccato interesse per queste tematiche, motivo per cui includere nel dialogo concetti e linguaggi non binari, rispettosi delle identità di genere diverse si dimostrerebbe un metodo fruttuoso in tutti i livelli educativi.
Emerge, però, la necessità di testimonianze e approcci concreti alle discriminazioni, che vanno trattati con attenzione per evitare danni e superficialità.
***
Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.
