Le parole sono le porte e le finestre della nostra percezione. La nostra esperienza del mondo dipende dalle parole che ascoltiamo e da quelle che usiamo. Lavorare sul linguaggio equivale a lavorare sull’organizzazione della coscienza. È nella zona più inavvertita del nostro cervello che si disegnano i perimetri delle sfere concettuali, si tracciano le frontiere del dicibile e dell’indicibile, si evocano correlazioni e inferenze.
Immerse/i come siamo fin dalla nascita nel liquido amniotico della lingua non a caso detta “materna”, siamo portati a ritenerla “naturale”, spontanea al punto che riconoscere e magari modificare le proprie abitudini linguistiche può essere assimilato a qualcosa di rivoluzionario e scioccante.
Si pensa di sapere che cos’è una lingua, di conoscere la propria, di poterne disquisire: eppure per lo più la si maneggia senza attenzione, replicando ciò che si è introiettato senza rendersene conto.
Nel corso della socializzazione avviene l’adattamento spontaneo e irriflesso del soggetto alle pratiche già in uso nella propria comunità linguistica. Il linguaggio è veicolo principale del cosiddetto ‘senso comune’, costituito dalla fitta trama delle conoscenze pretese come autoevidenti, condivise come valide a livello sociale e largamente interiorizzate da ogni parlante.
Parole e costrutti che controllano l’immaginario, che producono e regolano il mondo, si dicono a nome di tutti e di tutte, si presentano neutri dunque non opinabili: in questa inerzia sta la loro forza.
Solo se ne abbiamo motivo, poiché costa sforzo, accediamo a quello che chiamiamo ‘metalinguismo’: usiamo cioè la lingua come strumento per riflettere sulla lingua stessa, per trattarla come oggetto da esaminare riconoscendola come creatura storica, costruita e arbitraria. Per questa via possiamo accorgerci che essa non solo manifesta, ma condiziona il nostro modo di pensare: incorpora una visione del mondo e ce la impone. Non ha solo la funzione di rispecchiare i valori ma anche quella di concorrere a determinarli, organizzando le nostre menti su binari prevedibili tramite automatismi ben congegnati, che ci difendono dalla fatica del cambiamento ma coltivano il conformismo.
C’è un interesse evidente, da parte di chi detiene il potere ed è in condizione di arrogarsi il compito di trasmettere o imporre modelli, a farne realtà definite e autonome da tramandare inalterabili nel tempo perché siano assorbite in ogni modello pedagogico. Lo si fa posizionandosi al centro del mondo, guardandolo dalla propria prospettiva e presentandola come l’unica possibile, anzi tacendo su tutte le altre e dunque occultando i propri privilegi.
Gli stereotipi vengono trasmessi e accolti spesso in modo inconsapevole: è quindi importante capire come funziona il meccanismo di trasmissione e renderlo visibile per poter cambiare, con i contenuti dei messaggi, la cultura stessa.
Gli automatici stereotipi di genere sono i più diffusi nelle nostre società. Se è vero che pesano su entrambi i generi è anche vero che storicamente hanno appoggiato la disuguaglianza fra uomini e donne, ponendo queste ultime in una posizione di inferiorità, di marginalità se non di vera e propria cancellazione.
L’uomo ritiene da sempre di poter essere al centro della lingua perché da sempre è al centro del potere. Non solo le istituzioni, il diritto, il mondo del lavoro e quello dell’economia, la scienza, la medicina, i canoni artistici ma più in profondità il lessico, le metafore, la grammatica stessa si sono improntati sempre a questo tacito assunto: il maschio (vir) è misura di tutte le cose. Fu chiaro fin dai tempi della Rivoluzione francese, quando si iniziò a parlare di diritti dell’uomo ma si ghigliottinò Olympe de Gouges che chiedeva diritti per le donne. È chiaro nei testi di storia che parlano dell’uomo primitivo, o che chiamano suffragio universale un diritto di voto esteso ai soli maschi. Bourdieu lo chiama potere simbolico. Scriveva il linguista Giulio Lepschy nel 1989: «Mentre gli uomini sentono che la lingua manifesta nello stesso tempo sia la loro condizione di esseri umani sia la loro condizione di maschi, le donne trovano che la stessa lingua non corrisponde ugualmente alla loro condizione specifica di donne e che perciò è inficiata anche la sua presunta universalità umana» (Nuovi saggi di linguistica italiana, Il Mulino, Bologna, 1989, p.62).

La nozione di ‘sessismo linguistico’ è recente: se la lotta per l’emancipazione femminile ha una storia secolare, solo nella seconda metà del ‘900 nacque un dibattito sulle implicazioni linguistiche della differenziazione gerarchica dei ruoli tra maschio e femmina.
Il privilegio maschile si palesò tra l’altro nel pretendere che non esista problema tentando di opacizzare la messa in questione del linguaggio: questo sosteneva Georg Simmel nel 1911 e si può dire riconfermato nello studio di Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, datato 1998.
Presa coscienza dell’invisibilità linguistica delle donne, del loro oscuramento, si avviò un processo di rivendicazione di una lingua non discriminatoria, a partire dal momento in cui (nel lontano 1987) la linguista femminista Alma Sabatini pubblicò per la Presidenza del Consiglio dei ministri un volumetto intitolato Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, che oggi si trova facilmente in rete: mostrava in modo inequivocabile che non esistono motivi linguistici per cui la base delle parole debba essere il maschile, eppure le stesse istituzioni che lo pubblicarono poi per decenni l’ignorarono. Vennero prodotti Vademecum, Linee guida, Manuali, Codici, Direttive che rimasero e rimangono intonsi sui tavoli della burocrazia.
Sciatteria, noncuranza, pigrizia, diffidenza, paura? Il rifiuto di accettare il fatto che le parole (desinenze comprese) non sono provvisorie bolle di fiato ma mattoni che costruiscono mondi? La convinzione che questi temi siano marginali (“i problemi sono ben altri”)? Questioni di lana caprina da relegare a una schiera ristretta di addetti (per lo più addette) ai lavori? Nostalgia dei tempi che furono (“si è sempre detto così”)?
Il presidente Giorgia Meloni Il direttore Beatrice Venezi? Il ministro è incinto? Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti adducono l’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di ingegnera), la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra proprio non piace!), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne.
Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico ma in realtà sono, celatamente e perfino inconsciamente, di tipo culturale.
No, l’italiano non ha il neutro. No, non c’è ragione per cui si possa parlare di “maschile universale”. No, il maschile non è “generico”: è maschile. No, non va bene ‘inclusivo’: a quale titolo qualcuno dovrebbe detenere il diritto di includermi o escludermi dal discorso e dalle narrazioni?
Perché cameriera suona bene e ingegnera suona male? Operaia sì, notaia no? Si tratta di una qualità acustica o di un’abitudine antica fondata su un sessismo che accetta le presenze femminili nelle qualifiche meno prestigiose, ma le rifiuta se si sale nella scala sociale? È vero che “alla gente comune non interessa”? Provate a chiamare ‘impiegata’ un impiegato, ‘operaia’ un operaio… e vedrete.
La furia di molte reazioni inviperite testimonia tutt’altro che un’insignificanza del tema. Negli ultimi anni il cambiamento si sta facendo strada, nelle redazioni giornalistiche ancora percorse da dubbi, nei corsi di formazione per dipendenti pubblici, nelle scuole di base a opera di docenti preparate. Non è una moda. Lo spingono ormai sedi autorevoli, da Treccani all’Accademia della Crusca.
Nel 1994 il dizionario Zingarelli, con un ribaltamento storico, ha inserito la declinazione al femminile di 800 parole prima usate solo al maschile, nonostante il fastidio di diversi accademici e il leggero ribrezzo di non pochi studiosi (e studiose).
La lingua si evolve con la società: se fino a poco tempo fa non si nominavano le magistrate perché le donne non potevano accedere alla magistratura, non esistevano le astronaute ed erano pochissime le ingegnere, dopo tante battaglie vinte barriere formali non ce ne sono più. Rimangono le barriere mentali, spesso purtroppo condivise dalle donne stesse.
Rimane — e si allarga — un’altra domanda fondativa di una democrazia compiuta, forse prematura in questo momento di regressione collettiva: quali soggettività hanno il diritto di nominarsi? A quali questo diritto viene negato in nome di incasellamenti in forzose dicotomie? Chi viene ancora relegato nell’invisibilità o nel disagio?
Responsabilità comune, ovunque noi siamo: a parlare della lingua e a farla vivere. A disegnare nuovi immaginari. A risarcire vecchie ferite.
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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.
