Barbie e Odisseo

Io non ho avuto bambole con cui giocare, nella mia crescita non le hanno previste. Però esiste ancora, nella mia vecchia camera della casa di famiglia, un bambolotto di coccio non più alto di una trentina di centimetri con diverse fratture sul retro del capo, risultati di violente cadute. Mio padre lo comprò al mercato di Porta Portese di Roma quando io ero molto piccola, forse alla fine degli anni Cinquanta. Praticamente lo ricordo da sempre. Lo chiamo bambolotto ma impropriamente, perché si tratta di un fraticello con saio marrone e cordino alla vita, finti capelli scuri intorno alla tonsura e grandi occhiali da vista con montatura scura disegnati intorno agli occhi mobili. Come potessi giocare col fraticello di coccio appare poco chiaro e infatti non ricordo di averlo fatto; ma gli spacchi sul retro della testa indicano più di una fracassata in terra e quindi tra le mani l’avrò avuto certamente. Credo che più che un regalo per me fosse una burla (o un dispetto) a sua madre — mia nonna — che sulle questioni religiose era molto poco propensa allo scherzo. E infatti fece la sua reprimenda, chiedendo ancora una volta a se stessa in che cosa avesse sbagliato nell’educare lui e quell’altra figlia ingrata, che poi sarebbe mia zia.
Con lei (che chiamavo e ho sempre chiamato solo Elena) e suo marito sono partita per una vacanza sull’isola di Corfù nell’estate del 1964, avevo sette anni ed ero stata promossa in seconda elementare: quattro settimane circa senza mamma, papà e fratello. Il magone per la lontananza da mia madre lo ricordo ancora oggi, però si mescolava alla grande curiosità per tutto quello che mi stava accadendo, quindi affiorava in genere la sera al momento di andare a dormire, oppure quando, raramente, la sentivo al telefono. Il magone lo sentiva anche mia madre, me lo ha confessato molti anni dopo, ma teneva duro. Non so di mio padre, credo però che anche lui, nonostante l’apparenza, accusasse qualche colpo. Infatti appena prima della partenza si presentò con un regalo di buon viaggio, una bambola Barbie con capelli mori corti e cotonati, dotata di elegante guardaroba: un costume da bagno intero e un bikini, scarpe chiuse col tacco, un vezzoso sandalo estivo, uno sciccosissimo abito da cocktail bianco a strisce d’oro — che mi piaceva molto — e la tenuta completa da sci, scarponi compresi. Quest’ultimo capo sembrava rimandare ai miei primi tentativi di spazzaneve dell’inverno precedente, maestro di sci proprio papà.
Barbie era approdata sugli scaffali dei negozi italiani in quel 1964 qualche mese prima della mia vacanza greca, evidentemente mio padre era stato tra i primissimi acquirenti. Forse ai suoi occhi quel nuovo tipo di bambola era una visione del futuro, una sua proiezione di mie scelte che avrebbero potuto riscuotere la sua approvazione. Non ne sono sicura, ma penso proprio che sia andata così.
Insieme a Barbie arrivò anche un bellissimo libro dal titolo Il paziente Odisseo, una versione delle vicende omeriche ridotta e semplificata ma arricchita da illustrazioni di grande effetto. Durante il soggiorno sull’isola un po’ leggevo da sola, un po’ ascoltavo affascinata la voce di chi si lasciava incastrare dalle mie richieste di lettura. Sta di fatto che quello è diventato uno dei libri del cuore. È ancora qui, sugli scaffali di una libreria in casa; anche Barbie è ancora qui con me, chiusa però in una scatola.

***

Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.

Lascia un commento