Quale educazione per la decostruzione di pregiudizi e stereotipi?

Nel terzo incontro del corso La violenza di genere: teorie e pratiche fra passato e presente dal nome Quale educazione per la decostruzione di pregiudizi e stereotipi?, tenuto da Alberto Fornasari, abbiamo esplorato i luoghi comuni e il ruolo che hanno nella nostra società. Essendo idee preconcette e generalizzazioni ― a cui ricorriamo per semplificare la complessità del mondo ― ciascuno/a di noi ne è portatore/portatrice inconsapevole. In particolare, quelli di genere, si sviluppano principalmente nell’ambiente familiare, dove modelli conservatori possono rafforzare ruoli tradizionali, come quello della madre “angelo del focolare”. Questo tipo di educazione in famiglia spesso limita le prospettive di bambini e bambine, definendo i loro gusti e le attività in base a rigide identità precostituite. Quest’impostazione si riflette anche in ambito professionale: ad esempio, nella scuola primaria e nelle strutture per l’infanzia è raro trovare educatori, mentre in ambienti come le strutture detentive viene preferito personale maschile, un esempio che rende tangibile l’idea che socialmente ci siano ruoli più adatti a un genere rispetto all’altro, indipendentemente dalle competenze.

In età scolare sarebbe necessario fornire un’educazione affettiva e sessuale, la quale però spesso viene ostacolata dalla riluttanza delle famiglie ad affrontare questi temi; poi, la mancanza di dialogo didattico, a scuola quanto in famiglia, non consente ai/le giovani di ragionare su questioni rilevanti per la loro crescita, come i ruoli di genere, le relazioni e la sessualità, perpetuando ancora stereotipi dannosi che si riflettono talvolta in età adulta. Per contrastare tali modelli, bisognerebbe incoraggiare l’uso di strumenti pedagogici inclusivi, come libri illustrati e attività didattiche, che incoraggino i/le bambini/e a riflettere su esempi più paritari; il learning by doing di John Dewey può essere un metodo utile, in quanto impiega laboratori pratici per applicare e comprendere concetti complessi. Altrettanto essenziale è l’utilizzo di un linguaggio inclusivo per nominare e rendere visibili i ruoli femminili, favorendo una rappresentazione più equa e superando l’uso del maschile inclusivo, come suggerito dalla linguista Cecilia Robustelli.

Anche le rappresentazioni pubblicitarie hanno un impatto significativo, rafforzando gli stereotipi di genere e mercificando il corpo femminile. Sebbene (ma con rammarico) negli ultimi vent’anni si stia osservando una crescente oggettivazione anche del corpo maschile, storicamente la pubblicità ha trattato la donna come un oggetto, spesso ritraendola in ruoli subordinati, sessualizzati o legati alla cura. Tali rappresentazioni possono risultare offensive o controproducenti e per questo diventa fondamentale sviluppare competenze interculturali nella pubblicità che possano restituire un quadro più variegato.

Se alcuni di questi vengono riproposti in contesti pubblici, come abbiamo appena visto, particolarmente ostici sono quelli che si trovano nei libri di testo e nei modelli educativi ― come dimostra una ricerca di Cristiano Corsini che tratta di come alcuni testi scolastici continuino a perpetuare tali credenze dannose. La responsabilità dei/delle docenti nella scelta dei materiali didattici e nell’insegnamento della lettura critica dei media (media education) permetterebbe agli studenti di imparare a riconoscere e riflettere adottando uno sguardo attento. Seppur l’apprendimento sia sempre più digitale, la scuola ha il compito di fornire agli studenti gli strumenti per decostruire i messaggi mediatici, andando oltre il semplice riconoscimento delle fake news.

La didattica dei punti di vista avrebbe il potere di aiutare gli/le studenti a sviluppare una mentalità democratica e a vedere la storia da diverse prospettive promuovendo l’apertura verso altre culture e favorendo il decentramento senza cadere nell’etnocentrismo: un rischio, emerso anche nei precedenti incontri del corso, che impedisce di adottare una visione completa rispetto alle disparità e ai diversi contesti in cui esse agiscono. È la capacità di convenzione, cioè la flessibilità nel rispettare regole e norme culturali diverse senza rinunciare alla propria identità, a configurarsi come mezzo di contrasto rispetto a tali pratiche. Questa didattica permette di riconsiderare eventi come le colonizzazioni in una luce multi-prospettica, stimolando il pensiero critico su una narrazione che spesso ha nascosto le brutalità dei Paesi oppressori compiute sulle terre di arrivo. Per sviluppare queste competenze si devono offrire strumenti educativi alternativi, come materiali selezionati dal corpo docente poiché far costruire agli studenti autonomamente il proprio sapere online richiede competenze critiche solide che talvolta mancano. In un contesto in cui le nuove generazioni sono costantemente esposte a immagini e video, la lettura rimane fondamentale per lo sviluppo del vocabolario e di capacità linguistiche: grazie alla tecnologia e al più immediato reperimento di libri e materiale, diventa un’occasione preziosa sfruttare anche i formati digitali. Non bisogna dimenticare, però, che il coinvolgimento dei genitori è cruciale: la famiglia dovrebbe essere il primo punto di riferimento educativo, anche se spesso si concentrano solo sui voti, trascurando il benessere e lo sviluppo dei figli.

L’influenza dei social media ha risvolti anche sulle le percezioni di sé e degli altri: la costante e instancabile ricerca di approvazione sociale porta inconsapevolmente a un’esposizione e oggettivazione del corpo, sia maschile che femminile, secondo standard estetici imposti dagli algoritmi o dalle tendenze che si impongono su larga scala. Questi standard sono spesso temporanei e inaccessibili, come dimostrano le app di beautification che alterano l’aspetto degli utenti per renderlo conforme ai canoni dominanti: ciò genera tanto la necessità di adeguarsi quanto la rinnegazione del proprio aspetto che può influire negativamente sugli/sulle adolescenti, accrescendo insicurezze e spingendo alcuni/e di loro a ricorrere alla chirurgia estetica per aderire ai modelli di bellezza.

Sul finire della spiegazione del prof. Fornasari, si è avuto modo di discutere nuovamente di linguaggio e ruoli di genere. Soprattutto in contesti lavorativi o pubblici, quando una donna ricopre un ruolo di potere, come ad esempio esponente di rilievo di un dipartimento, spesso tende a firmarsi al maschile, utilizzando termini come “direttore” invece di “direttrice”. Mentre molti mestieri sono declinati al femminile ― si pensi ad esempio infermiera, maestra ― ruoli apicali restano declinati al maschile, suggerendo una persistente visione patriarcale in cui è l’uomo a ricoprire incarichi di prestigio, possibilità che non viene contemplata per le figure femminili. Questa condizione, specialmente in contesti socialmente e culturalmente deprivati, porta alcune ragazze ad aspirare a una vita di sostentamento attraverso il matrimonio piuttosto che alla realizzazione professionale. Dopotutto, più che essere un fenomeno sociale legato prettamente a condizioni economiche, riguarda nello specifico la dimensione culturale: anche in situazioni più agiate, donne istruite scelgono di non lavorare per non mettere in ombra i mariti. D’altro canto, si sta avvertendo anche un’inversione di rotta che rende il binarismo di genere di gran lunga meno categorizzante. Pratiche socialmente e culturalmente associate all’universo femminile, come l’epilazione e le tendenze di alta moda, iniziano a coinvolgere anche uomini o chi si identifica come tale, un risvolto per cui possiamo ringraziare l’abbandono di categorizzazioni binarie opprimenti. Questo nuovo modello di metrosexualità ha reso la cura del corpo maschile, inclusi trattamenti estetici e cosmetici, una pratica molto diffusa; ha anche contribuito a una maggiore fluidità nell’espressione di genere e un cambiamento nei modelli di bellezza che, dobbiamo ricordare, non è nulla di completamente nuovo rispetto alla celebrazione di un ideale, come avveniva per le statue classiche.

Il vero problema, infatti, sono i messaggi sulla bellezza e sul corpo sull’impatto che possono avere sui giovani in una società dominata dalla cultura della performance: tanto in ambienti scolastici quanto in ambienti sociali, l’obiettivo del corpo docenti, di genitori e istituzioni è aiutare le giovani generazioni ad affrontare criticamente queste circostanze.

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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.

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