Pannicelli caldi

La violenza di genere interroga direttamente e tragicamente il nostro presente ma è intessuta nell’ordito delle strutture archetipiche dell’immaginario e della cultura cui apparteniamo. Non è un fatto emergenziale ma un dato strutturale: quante volte l’abbiamo detto e scritto?
Non mi stupisce che il ministro dell’istruzione, negatore della sopravvivenza del patriarcato, per cavalcare l’onda dell’indignazione che ha seguito la vicenda di Giulia Cecchettin avanzi una proposta chiamata “educazione all’affettività”, variamente declinata in giro come educazione sentimentale, educazione emotiva, educazione al rispetto et similia (a volte aggiungendo “sessuale” come ciliegina sulla torta); mi colpisce però che siano movimenti, gruppi, educatrici femministe ad accedere alla stessa dizione senza discuterla.
Sono affetti i pregiudizi, gli stereotipi che da tanto tempo cerchiamo di smontare nelle scuole? O non sono piuttosto rappresentazioni, convinzioni e perfino percezioni che provengono da una cultura millenaria, dagli insegnamenti familiari, dalle tradizioni religiose e civili, dalla storia tutta? Sono insiti soltanto nel cuore e nella pancia di individui singoli cui rivolgere appelli, o circolano in tutta la società, nella sua organizzazione, nelle sue gerarchie, nelle sue abitudini, nel suo linguaggio, nei suoi mezzi di comunicazione? Si possono smontare senza mettere in discussione tutto ciò che abbiamo ereditato, compresa la serie infinita delle dicotomie che inchiodano le persone a scelte obbligate?
Gli stereotipi vengono trasmessi e accolti spesso in modo inconsapevole: è quindi importante capire come funziona il meccanismo di trasmissione, chi lo gestisce e come si fa a renderlo visibile per poter cambiare, con i contenuti dei messaggi, la cultura stessa.

Sui dettagli della recente direttiva ministeriale io espongo poi altre convinzioni, ovviamente opinabili anche se consolidate da un’esperienza più che ventennale di studi di genere e da quarant’anni di insegnamento universitario.

1. In primo luogo il target: se lo si limita alla scuola secondaria superiore è già tardi, l’imprinting c’è già stato. È ben prima che si formano atteggiamenti, comportamenti e abitudini di relazioni tossiche come quelle che troviamo già operanti tra gli e le adolescenti. Oggi la costruzione delle identità è più complessa rispetto al passato, eppure in molti punti è ancora influenzata dalle antiche modalità di costruzione dei generi. Ne troviamo esempi già dalle primarie.
2. Non condivido l’impianto del corso extracurricolare, opzionale, di breve durata e affidato a esperti esterni o addirittura ai cosiddetti influencer. La formazione non si improvvisa e non è serio affidarla a personaggi improvvisati. In Italia non mancano specialiste, molte Regioni hanno costruito albi in materia; si dispone di ricche bibliografie e di numerosi case studies. È nei curricula ordinari che le cose devono cambiare. Creare corsi paralleli a ridosso dei problemi sociali e delle tragedie contemporanee significa comunicare alla popolazione studentesca che le discipline che si insegnano a scuola non servono per capire la vita vera. A me pare un tradimento del concetto stesso di cultura.
3. Pare che siamo all’anno zero, mentre partiamo da operazioni ben più ambiziose che non a caso vengono osteggiate da gruppi reazionari.

Da tempo tante insegnanti in tanti luoghi sperimentano una didattica che prevede mutamenti importanti nei canoni ufficiali delle discipline, proponendo una lettura della storia, delle arti, del diritto, del mondo a doppio sguardo e un’analisi delle radici profonde delle disuguaglianze che hanno segnato l’esperienza delle donne nei millenni. Esistono manuali alternativi, case editrici dedicate, che hanno esaminato le prassi consolidate e le loro lacune; hanno scoperto filoni nuovi, hanno affrontato stereotipi e pregiudizi da non perpetuare, hanno scandagliato dicotomie e gerarchie ancora presenti nelle immagini e nei testi. Si è riesaminato il linguaggio, si sono suggeriti percorsi per ogni livello di studio, tesi a sviluppare nei discenti le capacità critiche rispetto ai ruoli sociali e ai modelli tradizionali di maschilità e di femminilità.
Evitare disinformazione, approssimazione, confusione è il primo passo per fare didattica seria. Il corpo docente deve essere messo in grado di avere strumenti appropriati e obiettivi chiari per lavorare bene.
Tutto questo è diverso dalla proposta che oggi va per la maggiore ma in cui è difficile rintracciare un impianto didattico rigoroso, con il rischio che tutto si concluda con un appello retorico. E se si intende procedere addirittura a una ristrutturazione della gestione delle emozioni, mi pare infine assai difficile portarla a buon fine con modalità e risultati verificabili in meno di 30 ore annue, con gruppi numerosi ed eterogenei, con supervisioni non definite.
Varare provvedimenti all’acqua di rose significa lasciare le cose come stanno per chissà quanto tempo.

***

Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.

Lascia un commento