Nella tana del lupo con Gabriella Tupini

Quello di Gabriella Tupini è un pensiero divergente: pur esprimendo una critica incisiva nei confronti del modello patriarcale, la prospettiva dell’analisi è tutt’altro che politica. Il quadro d’insieme si sviluppa su stratificazioni feconde che saldano insieme ordini di ragionamento antropologico, storico, psicologico e metafisico. Ciononostante, le considerazioni che propone la dottoressa Nella tana del lupo partono sempre dalla sua esperienza diretta, cosicché i riferimenti agli ipse dixit sono sempre calibrati in virtù della base empirica. Per questo si potrebbe definire cartesiana, ma solo nel metodo.
Il nucleo su cui si innerva la riflessione è la relazione diadica figlio-genitore. Quest’aspetto è stato accuratamente studiato da ciascuna scuola psicanalitica che l’ha descritto e spiegato in base alla propria grammatica. L’impostazione della dottoressa non si avvale di teorie complicate per impressionarci con la sua cultura, ma esamina la questione formulando discorsi ragionevoli, comprensibili e condivisibili.
L’infante, tanto più sarà investito dall’amore genitoriale, tanto più il suo percorso di crescita sarà proficuo al punto da sviluppare la capacità di amare e di essere felice. C’è un’osmosi vantaggiosa che coinvolge l’amore e la felicità: chi è amato dai suoi genitori sarà in grado di acquisire fiducia in sé stesso e amare il prossimo. Questi aspetti sono conditio sine qua non per raggiungere un certo grado di felicità. Qualora, invece, l’affetto genitoriale sia stato insufficiente e si sia manifestato con cure sommarie e carenti, il bambino o la bambina — affamata d’amore — conserverà lo stigma di non essere stata meritevole. Tale vertiginoso inappagamento sarà mediato da opportune strategie inconsce, atte a eludere o intensificare l’autostima e il senso di colpa: due aspetti strettamente coordinati tra loro. Dunque disturbi alimentari, derive narcisistiche, spirito competitivo sono una possibile costellazione di rimedi inconsci vòlti ad attenuare o superare la fragilità affettiva sperimentata nel periodo infantile. Si tratta di tentativi disperati destinati a naufragare nella sofferenza.
La genìa umana — osserva la dottoressa Tupini — è popolata da individui insoddisfatti e infelici proprio in ragione delle catene generazionali che hanno avviato un circolo vizioso, per cui di genitore in figlia/o si sono succeduti errori educativi, condizionamenti limitanti, umiliazioni. Questi aspetti si sedimentano subdolamente fino a edificare recinti entro i quali si rischia di rimanere recluse/i per tutta l’esistenza: incapaci di esercitare la propria libertà. E tale processo dà luogo a un perpetuarsi di questa realtà umana, perché «per amare occorre essere liberi, per essere liberi occorre essere stati amati, se non si è liberi non si è capaci di amare» (Gabriella Tupini, Nella tana del lupo).

Gabriella Tupini

Cosa significa amare? Quali sono le modalità con cui questo sentimento si dimostra? La dottoressa Tupini non intende annoiare con citazioni complesse o ragionamenti metafisici, ma ci invita semplicemente a passare in rassegna gli effetti implicati dall’amore: quando si ama qualcuno lo si investe di valore, gli si attribuisce importanza e lo si ritiene degno di attenzione, si è lieti di donargli il proprio tempo e le cure necessarie al suo benessere. Amare significa essere predisposti a capire, empatizzare, prendersi cura, incoraggiare, sostenere. È un sentimento non ellittico perché non lèsina, bensì dà in sovrabbondanza. Amare, per quanto scontato possa sembrare, non ha e non dà mai nulla per scontato, perché è nella cura che si realizza. Quando la consapevolezza bussa al nostro destino, si ha una visione in trasparenza della dimensione a cui apparteniamo: siamo parti di un respiro cosmico che si sostanzia in esseri animati e inanimati, visibili e invisibili. È un’espansione di orizzonti in cui trova spazio uno struggente senso di tenerezza.

Sul crinale antropologico, nota la dottoressa, siamo dotate/i di due menti: una organizza il ragionamento, formula deduzioni e opinioni; l’altra è la mente condizionata, composta dal corredo di regole, credenze e convenzioni sociali trasmesse dalla famiglia (e da qualsiasi autorità che instilla o plasma convinzioni preesistenti). Quest’ultima è, a conti fatti, la grammatica sociale, per cui l’opinione comune ha una forza tale da creare percorsi di pensiero automatici. Ma le scorciatoie si rivelano dei vicoli ciechi per il nostro desiderio creativo, ad esempio: «Le donne sono capricciose e volubili […] Per vivere è indispensabile lavorare almeno 7-8 ore al giorno», sono sentenze castranti, esse introducono un disvalore e un verdetto privi di alcun fondamento empirico. Generalizzazioni di questo tipo sono un ricettacolo di luoghi comuni, che, benché consumati, producono tuttora degli effetti deleteri sul nostro apparato di credenze.

Se la mente esercita il suo potere in favore della mondanità, l’Anima riguarda il mondo interiore abitato da istinto, sentimenti, emozioni, desideri e sogni. È la regione più autentica dell’essere umano. Essa non asseconda le leggi della logica, ma ha un suo modo peculiare di comunicare. La dimensione dell’Anima è estranea tanto ai retaggi della religione cattolica, quanto alla concezione archetipica junghiana, giacché non è un modello psicologico strutturale che si differenzia secondo il genere, né è una prerogativa esclusivamente umana, poiché questo principio si estende a tutte le creature animate e non. Probabilmente l’Anima sperimentata dalla dottoressa si accorda col principio vitale di tradizione neoplatonica, ma privata della matrice monoteistica.
Dunque l’essere umano è teatro di questa tensione in cui la mente risponde alle sue logiche meccaniche e l’Anima si esprime mediante analogie, allusioni, realtà onirica. Mente e Anima non hanno una permeabilità comunicativa, ma sembrano influenzarsi reciprocamente senza un apparente contatto osmotico. L’Anima si nutre di esperienze attraverso emozioni, sensazioni, sentimenti e orienta verso un destino, mentre la mente, per sua costituzione, agisce come funzione regolativa decretando comportamenti e schemi in virtù di obiettivi biografici.

L’enigma di Dio è interpretato attraverso la relazione genitore-figlia/o, proiettata nella realtà trascendente. Così come il bambino/la bambina investe la persona adulta di richieste talvolta impossibili, attribuendogli doti di onnipotenza, allo stesso modo il/la fedele prega Dio di esaudire le sue necessità anche se l’accordo di esse supera le leggi di causa-effetto. Il fenomeno, in ambedue i casi, avrebbe la stessa origine: il collaudato rapporto padre-figlio si manifesta in quello di fedele-Dio, laddove l’esigenza di protezione e l’esperire il senso di colpa governerebbero le dinamiche diadiche. Il polo trascendente non sarebbe altro che la figura dei genitori dilatata fino alla massima potenza, cosicché le condotte sacrificali sarebbero conformi all’urgenza espiativa propria del senso di colpa, mentre il fattore miracolistico risponderebbe al bisogno di protezione e rassicurazione.
Questa rappresentazione trova un’eco nella letteratura psicanalitica: antesignano sul fronte interpretativo è stato Sigmund Freud che, in Totem e Tabù, elabora una teoria sull’ontogenesi del sentimento religioso sulla base delle meccaniche psicologiche. Il sentimento ambivalente di amore-odio è il perno che sostiene l’ipotesi: la simultaneità di sentimenti contraddittori, fortemente polarizzati e dotati della medesima intensità, caratterizzerebbe l’investimento affettivo dell’infante nei confronti della figura paterna. In età adulta, in specifiche contingenze biografiche, il processo acquisisce una formula regressiva, per cui la figura paterna alimenta fantasie religiose che si concretizzano nell’immagine di Dio.

Per la vocazione della nostra rivista, è di legittimo interesse il riferimento alla Dea Natura. Qui, pur mantenendo una coerenza esplicativa, i piani slittano su più àmbiti disciplinari: dalla storia all’antropologia, fino alla mitologia. La Dea Madre si configura per la sua natura trinitaria in grado di donare Nascita, Crescita e Morte, aspetto che nel Cristianesimo si sarebbe sclerotizzato nel dogma della Santissima Trinità, sovvertendo il senso più profondo della triade divina. Per la forza generativa le si attribuiva l’epiteto di Grande Prostituta, laddove il termine non declassa la promiscuità sessuale, ma, al contrario, esalta il potere sacro del femminile in grado di esprimersi senza il condizionamento maschile. Analogamente, in quest’epoca prepatriarcale, il concetto di verginità non si collegava all’integrità dell’imene, ma era un lemma connesso alla virtù femminile: libera di giacere con tanti uomini senza mai sottomettersi al potere maschile.
Con il passaggio al paradigma patriarcale, il corpo della donna diviene soggetto alla potestà maschile, l’istituzione del matrimonio dà luogo a un’inversione semantica dei termini “prostituta” e “verginità”, riconducendoli all’interno di una logica di possesso (su questo aspetto si veda la generosa eredità saggistica di Lévi Strauss). Da qui, una condotta femminile definita “libera” assume i tratti di una degenerazione morale qualificabile come “libertina”.

I riferimenti bibliografici non sono inclusi nel volume, probabilmente è una scelta editoriale ponderata dall’autrice ché intende incoraggiare lettrici e lettori a intraprendere una ricerca ambiziosa e quanto mai necessaria per la propria crescita individuale. In questo percorso verso la consapevolezza è necessario distinguere il «sapere-sapiente», quello autentico perché appreso dall’esperienza diretta, dal «sapere-saputo», ovvero l’insieme di credenze di astrazione mentale che, prive di riscontro empirico, costituiscono degli steccati limitanti.

Gabriella Tupini
Nella tana del lupo
Independently published, 2024
pp. 306

Gabriella Tupini Official è il canale YouTube della dottoressa.

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Articolo di Sathya Cucco

Studiosa di filosofia e comunicazione, uso la conoscenza come compagna di vita.

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