Clara Sereni. Sigma Epsilon

Perché Clara Sereni? E chi era costei? Non so quante delle persone che si troveranno a leggermi saprebbero dare una risposta men che generica. Il fatto è che, oltre al canone irriformabile che vige nelle scuole, dove, come sappiamo, la lista degli autori irrinunciabili include un numero irrisorio di donne, esiste un altro canone, decretato dai media: i giornali che pubblicano le recensioni e fanno le graduatorie dei libri “assolutamente da leggere”, e le emittenti radiotelevisive che ospitano e intervistano nei loro studi gli autori e le autrici di quegli stessi libri.
Clara Sereni, che pure scriveva per l’Unità e Il manifesto (o forse proprio per questo) è stata costantemente ignorata dalle testate giornalistiche più diffuse e i suoi libri, anche quelli cui è capitato di essere candidati a premi letterari prestigiosi, sono stati per lo più ignorati, spesso stampati in pochissime copie e mai più ristampati. Con due sole eccezioni, Casalinghitudine e Il gioco dei regni.
Eppure Clara Sereni (1946–2018) è stata una delle scrittrici che è riuscita meglio a raccontare, un libro dopo l’altro, la storia della generazione di donne nate come lei nell’immediato dopoguerra, o nel decennio successivo; di quelle, in particolare, che non hanno mai smesso di interrogarsi sul senso del loro stare al mondo in quanto donne e hanno cercato, insieme alle altre, di trovare risposte, in una continuità tra scrittura e impegno civile che ha pochi confronti.

Clara nasce in una famiglia di cui molti membri, come afferma lei stessa, «avevano tutti i numeri per entrare nei libri di storia»: il padre e la madre militanti comunisti già sotto il fascismo, avevano occupato posizioni di spicco nel partito dopo la Liberazione, uno zio paterno e sua moglie nel movimento sionista e nella resistenza al nazismo; ma già nei primi anni del secolo nonno e nonna materna avevano combattuto, a costo della vita, il regime zarista. Uomini e donne eccezionali, dunque, della cui eredità Clara sentirà in un primo momento soprattutto il peso. Deciderà perciò molto presto di abbandonare la famiglia d’origine, e la grande casa costruita ai margini della città per accoglierla, e andare a vivere da sola in un appartamento piccolo, ma in pieno centro di Roma, rinunciando a ogni sicurezza e accettando il rischio di fare letteralmente la fame, visto che non poteva contare su alcun introito fisso. Di questa scelta, e delle sue implicazioni, la scrittrice racconterà distesamente nel suo ultimo libro, Via Ripetta 155, ripercorrendo uno per uno, a distanza di circa mezzo secolo, i dieci anni vissuti come eroici dalla sua generazione, quelli che vanno dal 1968 al 1977, l’epoca delle più grandi speranze e delle più grandi delusioni del dopoguerra.
Ma quella intensa esperienza di ricerca di sé vissuta da molti giovani, uomini e donne, che recidendo i legami con la famiglia biologica, cercavano di inventare nuove forme di relazione, basate sulla condivisione di valori e ideali, ma anche sulla riscoperta di una sessualità libera da ogni regola, aveva già fornito il materiale, fortemente autobiografico, al primo romanzo di Clara Sereni, Sigma Epsilon, pubblicato nel 1974 dalla Marsilio di Cesare De Michelis.
La scrittrice aveva appena ventott’anni e lavorava per la FICC (Federazione Italiana Cicoli del Cinema) col ruolo di segretaria tuttofare. Lei stessa racconta in varie occasioni come la sua particolare velocità nel battere a macchina, acquisita grazie ai sette anni di pianoforte imposti dalla zia Ermelinda, le avesse procurato i primi lavori, saltuari e mal pagati, ma comunque indispensabili per non rimangiarsi la scelta dell’indipendenza. Ma quella stessa abilità l’aveva poi ingabbiata nel ruolo di indispensabile “angelo del ciclostile” cui delegare la riproduzione di documenti e comunicati, sempre urgentissimi, magari redatti a tarda notte. Nello stesso periodo Sereni andava sperimentando la scrittura narrativa e alcuni racconti erano stati accettati da riviste di grande tiratura. La pubblicazione di un vero e proprio romanzo da parte di un editore prestigioso, grazie al giudizio favorevole di un intellettuale come Mario Socrate e addirittura la candidatura al premio Viareggio Opera Prima presentata da Cesare Zavattini, l’avevano inorgoglita e fatta sognare. Ma la disillusione era arrivata presto: il libro era stato stampato in pochissime copie, non si trovava sugli scaffali delle librerie, neppure nella Libreria delle Donne, aperta a Roma sulla spinta del movimento femminista: in realtà l’editore aveva accettato di pubblicarlo solo perché aveva bisogno di arricchire il suo catalogo.

Dopo quella prima esperienza Clara Sereni sembra rinunciare alla scrittura: il suo secondo libro (o, come preferiva chiamarlo lei stessa, il suo “secondo primo libro”) vide la luce solo nel 1987 e fu Casalinghitudine. Per molti anni successivi, fin quasi agli ultimi della sua vita, la scrittrice sembrò voler rinnegare e far dimenticare quel primo romanzo, giudicandolo “un parto prematuro”, mal riuscito dal punto di vista della lingua e dello stile, soprattutto, privo di quella voce autentica tutta sua che non era riuscita a trovare. «I desideri finiscono sempre per avverarsi, perciò bisogna stare bene attenti a cosa si desidera». Sereni stessa in un’intervista rilasciata negli ultimi anni, fa questa citazione attribuendola con qualche incertezza a Cesare Pavese e aggiunge che tutto il libro può essere letto alla luce di quella, come se ne fosse l’esergo.

Sigma Epsilon è un titolo enigmatico, che, ridotto alle sole iniziali, evidenziate, delle due parole che lo compongono, diventa SE: non solo particella ipotetica, ma anche allusione al cognome di famiglia e alle iniziali dei nomi di tutti i maschi Sereni. La copertina, disegnata dall’autrice stessa su un foglietto a righe durante una delle interminabili riunioni descritte nel romanzo, cela, all’interno di un disegno di stile vagamente cubista, i nomi dei personaggi che si muovono intorno alla protagonista.
Il libro è articolato in tre capitoli di lunghezza simile, più un quarto, brevissimo, che riprende l’incipit, introducendo una variante decisiva. L’io narrante non ha nome, ma coincide in modo evidente con l’autrice stessa. Racconta il disagio di una giovane donna che ha il privilegio di lavorare per un gruppo di intellettuali politicamente impegnati a sinistra e che fa fatica a districarsi tra i molteplici ruoli che le vengono assegnati senza chiedere il suo consenso: impiegata (e soprattutto addetta al ciclostile) senza limiti di orario; amante (quasi segreta) del capo universalmente riconosciuto e idolatrato; amica emancipata e, per ciò stesso, considerata disponibile a far l’amore con chiunque ne abbia voglia (e pronta a fargli il caffè subito dopo).
«Giulio mi accompagna su a casa […] – Mi dai un bacio?
– No.
– Perché no?
– Perché non ne ho voglia. 
Si diverte […] Io non mi diverto nemmeno un po’, ho sonno: ma non sono capace di dirgli chiaro e tondo di andarsene
– Allora? Sono così ributtante? Non puoi dare un bacio a un vecchio amico?
Mi avvicino, gli sfioro le guance con le labbra. Credo di cavarmela così, ma lui si gira di scatto e mi ritrovo sulla sua bocca. Mi bacia con cattiveria, con durezza: le aggressioni mi danno fastidio, ho uno scatto di ripulsa. Lui ci resta male, lo vedo e mi dispiace […] So che mi sta imbrogliando, che lo sguardo da cane bastonato è fasullo, ma non mi riesce di non consolarlo. 
– Ma allora non mi vuoi bene? chiede.
– Ma certo, Giulio, ti voglio molto bene, e ti stimo, sono tua amica, veramente: ma non ho voglia di altro. Le mie parole hanno un’inflessione di scusa: gli sto chiedendo perdono. Di cosa non lo capisco bene, però non riesco a fare altrimenti».
Di ritorno da un breve periodo di vacanza passato in solitudine — l’amante ha pur sempre una moglie, troppo fragile per essere abbandonata — la protagonista trova una città deserta delle presenze abituali e, senza averlo mai progettato, finisce con l’ingoiare una dopo l’altra le pillole dei sonniferi che tiene sempre a portata di mano.
Si risveglia in un ospedale, dove amiche, compagni e amante accorrono a congratularsi con lei per essere scampata a un banale incidente, da archiviare rapidamente senza dargli troppa importanza. Ma quando torna a casa con una paresi facciale che la sfigura e l’insonnia persistente, dubita di riuscire a riprendersi. Finché un giorno, come nelle favole, qualcuno le manda una specie di fata che ha le sembianze di una fisioterapista. Si chiama Maria e poco alla volta prende su di sé di sua iniziativa la gestione di tutta la casa, regalando alla mancata suicida l’esperienza di un accudimento totale, di cui presto non potrà fare a meno. Tanto più che i gesti di cura si trasformano a poco a poco in gesti d’amore. Ma un brutto giorno la ragazza è costretta a rivelarle la sua vera identità di “aliena” che ancora per qualche ora può trasformarsi in un affascinante Mario. Subito dopo le chiede di scegliere tra le due versioni, visto che il tempo della sperimentazione è scaduto.

Il lettore scopre la scelta della protagonista nella scena della festa finale che riprende alla lettera quella del ricevimento dell’incipit: «La terrazza è inondata di invitati, di bicchieri pieni e vuoti, di cuscini, di mozziconi di sigaretta […] I miei invitati hanno, tutti, quella stessa aria annoiata che con ogni probabilità ho anch’io, e credo sia assolutamente impossibile trovare qualcosa di nuovo, qualcosa che possa smuoverci, scuoterci un po’».
Ma è diversa la frase inserita fra le due immagini che compongono la scena. In quella iniziale è la protagonista stessa che passa tra gli invitati servendo da bere: «Giro con un carico di bicchieri pieni — tutti tanto moderni e spregiudicati, ma nessuno che si degni di versarsi da bere da solo». Nella scena dell’epilogo, per il resto identica, «Maria gira — impeccabile — con un nuovo carico di bicchieri pieni. La guardo con il compiacimento della buona padrona di casa: con lei, ai ricevimenti, tutto ha un altro tono.»

Al di là della conclusione, che utilizza alcuni espedienti della narrativa fantascientifica, molto di moda a quei tempi, il libro restituisce bene, e lo fa in tempo reale, l’atmosfera che si respirava negli anni Settanta tra gli intellettuali orientati politicamente a sinistra. Dove, mentre si lottava per rovesciare la struttura capitalista e si dichiarava di essere pronti a dare spazio alle aspirazioni delle donne alla parità, non si mettevano minimamente in discussione i ruoli tradizionali e la divisione dei compiti consolidata nelle società fondate sul patriarcato.

A chi lo legge oggi Sigma Epsilon appare un romanzo d’esordio, commovente per una sorta di ingenuità che lo percorre; ma già rivelatore di caratteristiche stilistiche — l’attenta descrizione degli ambienti, che rivela la passione della scrittrice per i dettagli del vivere quotidiano — e anticipatore di elementi autobiografici che ritroveremo più volte nei suoi romanzi a venire: come il glicine del giardino tra i cui rami Clara si rifugiava da bambina per nascondersi, lo stesso che ritroveremo nel primo capitolo del Lupo Mercante. Ma, soprattutto, il libro contiene il primo, indimenticabile, racconto della tragedia che segna la sua infanzia: «C’erano tante cose magiche in casa: la fisarmonica di mia sorella per esempio, che manifestava arcane assonanze con il pianoforte, che io suonavo; la biblioteca di papà, con il suo odore particolare di fumo e polvere e la cassaforte dietro i libri; e c’era la poltrona azzurra, alla quale la consunta scivolosità della fodera damascata conferiva un carattere tangibilmente misterioso. Deve essere stato per questo che quando mio padre ci si sedette, e fece sedere me sul tappeto, contro le sue ginocchia, per dirmi che mamma era morta, io presi la cosa proprio come un fatto magico (e quindi per me naturale). Dopo un po’ piansi, ma perché mi resi conto che lì intorno ci si aspettava che io lo facessi. Mia sorella, per esempio, già piangeva da un po’ e anche papà era molto serio (ma i suoi occhi non erano così severi come quando mi sgridava)».

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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.

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