La secessione romana. Introduzione

Quattro mostre in quattro anni, dal 1913 al 1916-17. Questo il panorama cronologico che caratterizza l’azione innovativa della cosiddetta “Secessione romana”, un’associazione di artiste e artisti italiani che segnò, pur non costituendo un vero e proprio movimento — troppo varie le esperienze, le formazioni culturali e le produzioni di chi partecipò anche solo a una delle esposizioni —, un percorso internazionale e inedito nell’arte romana e italiana. Già il nome spiega gli intenti: porsi come elemento di netta separazione e distacco dalla realtà culturale circostante collocandosi in una posizione di aperta contestazione e ribellione. Definita più un laboratorio che un movimento artistico, la Secessione volle da una parte opporsi alla concezione accademica della “Società degli amatori e cultori di Belle arti”, al loro sistema di selezione e al modo di concepire mostre e produzione artistica, dall’altra volle differenziarsi dallo spirito rivoluzionario del Futurismo e dalla sua visione estrema di cambiamento.
La “Società degli amatori e cultori di Belle arti”, i cui membri erano tutti rigorosamente uomini provenienti da ambiti accademici, da quasi un secolo organizzava con regolarità a Roma le esposizioni pubbliche; pur con aperture all’arte internazionale, per gli artisti il percorso di partecipazione alle mostre non era scontato, per le artiste arduo; i componenti delle giurie di valutazione garantivano selezioni rigide per l’ammissione, erano meno inclini verso le formule di rinnovamento e le ricerche stilistiche lontane dalla tradizione. Nelle mostre della Secessione, al contrario, si procedeva con maggior libertà, i membri dei consigli direttivi — anche in questo caso però formati solo da uomini — erano convinti assertori di un clima di modernità e apertura, volto a sprovincializzare l’arte e a favorire l’infiltrazione di idee nuove, anche con decise aperture verso l’estero e i linguaggi d’avanguardia europei; le linee d’indirizzo seguite comprendevano la partecipazione di artisti affermati e di artisti più giovani, non di rado esordienti, senza trascurare l’apertura alle donne. Il valore significativo di questa azione risiedeva nel fatto che le rassegne della Secessione ricevevano finanziamenti pubblici ed erano allestite in spazi pubblici — i saloni del palazzo delle Esposizioni in via Nazionale —, non all’interno di gallerie o luoghi privati, come accadeva per esempio per il Futurismo.

Roma, il Palazzo delle Esposizioni

Per l’arte femminile la possibilità di esporre in spazi pubblici, per niente scontata, divenne un appuntamento importante per dare continuità alla professione delle donne e ampiezza alla loro visibilità.

Il panorama artistico nazionale, dopo l’apertura al genere femminile dei corsi delle Accademie di Belle Arti, presentava un considerevole numero di artiste che però restavano presenze celate, vista la difficoltà a essere ammesse alle manifestazioni ufficiali e a essere considerate vere professioniste. Rimaneva ben radicata l’idea che le donne si dovessero esprimere all’interno del perimetro amatoriale, magari con capacità, estro e piacevoli risultati raggiunti, ma pur sempre relegate nella sfera del dilettantismo. Per loro risultava più facile varcare le porte delle arti applicate e decorative, agire negli ambiti del disegno dei tessuti, delle arti tessili, della ceramica, campi ritenuti più consoni all’”indole” femminile in cui riuscire più facilmente a costruire carriere professionali, guadagnare soldi e raggiungere l’indipendenza. Le “arti maggiori”, tranne alcune eccezioni, restavano un terreno di manovra arduo, regno indiscusso degli uomini su cui regnava l’aura del genio, dimensione ritenuta irraggiungibile dalle donne.
In Italia una prima vera opportunità per farsi conoscere come produttrici di arte e cultura si ebbe in occasione della I Esposizione internazionale femminile di Belle Arti svoltasi a Torino tra il 4 dicembre 1910 e il 15 gennaio 1911, durante la quale furono esposte quattrocentottantuno opere realizzate da oltre duecento artiste, soprattutto italiane ma anche con presenze straniere, alcune invitate altre sottoposte al giudizio di selezione della giuria. La risonanza dell’evento, la partecipazione del pubblico e, non ultimo, il successo delle vendite illuminarono, probabilmente per la prima volta, una realtà ignorata e volutamente lasciata ai margini, permettendo che si avviassero le prime valutazioni e considerazioni sull’arte femminile. Sulla scia di questa iniziativa, e mentre si stava organizzando, sempre a Torino, la II Esposizione internazionale femminile di Belle Arti, si inserì la prima mostra della Secessione romana, inaugurata il 22 marzo 1913.

Copertina del numero speciale della rivista La Donna dedicato alla II Esposizione internazionale femminile di Belle Arti, Torino, 5 luglio 1913

Gli organizzatori per quella prima edizione concentrarono la loro attenzione sul Divisionismo italiano e sull’arte francese, rappresentata da una cinquantina di opere tra linguaggi impressionisti, post-impressionisti, sintetisti; per Roma furono vere novità quelle esperienze straniere, l’influenza delle quali rivive ancora oggi nelle parole di Leonetta Cecchi Pieraccini, una delle pittrici presenti alle mostre della Secessione: «Il 22 marzo alla Esposizione dei Secessionisti, una sala francese con due notevolissime opere di Pissarro, un Forain (Les danseuses), alcuni Monet e Sisley, Renoir e Signac, infine i conturbanti Pesci rossi del Matisse» (in Agendine 1911-1929, Sellerio editore, p.47).

Henri Matisse, Pesci rossi, 1912, olio su tela, Mosca, Museo Puškin

Se il giudizio rievoca la fascinazione provata di fronte all’opera di Matisse, ben altra valutazione scrisse Leonetta Pieraccini l’anno successivo in occasione della LXXXII edizione della “Società degli amatori e cultori di Belle arti”: «21 febbraio 1914. Inaugurazione mostra “Amatori e cultori”. Miserissima. Niente che richiami l’attenzione o procuri piacere. Gira e rigira non si salvano che tre bozzetti […]» (op. cit., p. 52). La frattura presente nel mondo dell’arte tra rinnovamento e tradizione è tutta in queste parole.
Non in modo unanime il mondo della critica, e ancor meno quello del pubblico, fu pronto ad accettare le novità europee. Nella seconda edizione della Secessione, quella del ’14 per esempio, pezzi da novanta come Cézanne e Matisse furono poco apprezzati nonostante il considerevole numero di opere esposte: i colori, gli inquadramenti prospettici (o l’assenza di essi come in Matisse), le strutture compositive, l’organizzazione delle forme ponevano dubbi sul reale valore dei linguaggi proposti. Eppure per le donne e gli uomini della Secessione furono lezioni importanti.

Paul Cézanne, Mont Sainte-Victoire, 1904-1906, olio su tela, Zurigo, Kunsthaus

Sulle ultime due edizioni, quella del 1915 e del 1916-17, gli echi della Prima guerra mondiale si fecero sentire. Diminuirono le presenze straniere, soprattutto di quelle personalità che provenivano da Paesi ormai considerati “nemici” dalla propaganda bellica e, nella quarta e ultima mostra, diminuì in generale il numero dei partecipanti, mentre restò pressoché invariato quello delle partecipanti. Che non furono mai ritenute figure di contorno, ma solide realtà innovative.
Alcuni dati aiutano a comprendere il valore di quanto accadde in quei quattro anni. In tutte le edizioni della Secessione la pittura femminile fu rappresentata da più di venti artiste, circa il 10% delle presenze totali (contro il 3% delle Biennali e delle altre manifestazioni pubbliche, per esempio); solo nell’ultima edizione la percentuale crebbe fino a sfiorare il 24%, ma in questo caso, restando pressoché invariato il numero delle artiste (22), scese a 70 quello degli uomini, a causa della drammatica situazione della Prima guerra mondiale.

Deiva De Angelis, ritratto fotografico dei primi anni
del Novecento

Le quattro esposizioni “secessioniste” furono un’occasione importante per le artiste già affermate, furono veri trampolini di lancio per le esordienti come Deiva De Angelis (https://vitaminevaganti.com/2024/04/27/via-angelo-brunetti-n-35-la-casa-della-pittrice-deiva-de-angelis/) o Maria Grandinetti Mancuso e Pasquarosa Marcelli, le cui carriere ebbero poi crescita e risonanza nazionale. Nonostante le differenti provenienze e formazioni, le mostre della Secessione consentirono alle artiste la creazione di reti di relazioni umane e professionali difficili da costruire se private di spazi e occasioni espositive, se escluse dal dibattito e ignorate dalla critica. La quale, pur utilizzando in più di un caso formule e metri di valutazione sbilanciati sull’arte maschile («un ottimo cervello maschio» fu definita Deiva De Angelis da Anton Giulio Bragaglia mentre di Maria Immacolata Zaffuto si scrisse che possedeva «un maschio disegno»), fu capace di comprendere la portata di quelle menti creative.

I loro linguaggi, vista la mancanza di barriere stilistiche ed espressive della Secessione, trovarono il clima adatto per sviluppare la diversità delle formule stilistiche e delle grammatiche comunicative, tra influenze simboliste, ricerche impressioniste e post impressioniste, dirompenti proposte fauve ed espressioniste. Si formò in quegli anni, quindi, un affascinante intreccio polifonico di voci.
Eterogenee anche le storie della loro formazione: alcune frequentarono regolarmente i corsi accademici conseguendo il diploma finale, altre le scuole private, altre furono autodidatte. Se in loro fu comune la volontà di essere riconosciute come artiste professioniste, altrettanto comuni furono le difficoltà incontrate nel dare continuità alle proprie produzioni artistiche, nel vincere premi e riconoscimenti, nel far quotare adeguatamente le proprie opere, nel conquistare spazio nel mondo del collezionismo. Esercitando la professione artistica le donne vissero nella continua dimensione del compromesso: con gli affetti, con le esigenze familiari, con gli obblighi di cura, col marchio del talento minore, del posto usurpato, di essere madri, mogli, figlie, allieve di qualcuno; rubando le parole a Virginia Woolf, «il diritto a guadagnarsi da vivere» si scontrò con pregiudizi, obblighi e necessità della vita.

Copertina del catalogo della I Esposizione internazionale d’Arte della Secessione, Roma, 1913

Comune è stato anche il destino di essere dimenticate. I riconoscimenti raggiunti, spesso faticosamente, non sono bastati a far entrare di diritto tra le grandi personalità dell’arte italiana del primo Novecento le artiste della Secessione romana. Anche dopo carriere brillanti, all’indomani della morte, il loro ricordo si è sbiadito, la ricostruzione dei percorsi professionali si è fatta ardua; solo negli ultimi anni, grazie a esposizioni pubbliche e private, a scritti storici e critici e a convegni, è tornata la luce su molte di loro. La serie di articoli che si inaugura oggi s Vitamine vaganti vuole essere un ulteriore contributo all’allargamento della conoscenza di alcune di queste protagoniste, artiste che, parafrasando le parole della pittrice Alice Neel, vollero dipingere come donne ma non come ci si sarebbe aspettato dalle donne.

In copertina: Deiva De Angelis, Toelette, 1915, olio su cartone, Firenze, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi

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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.

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