Dopo Sigma Epsilon, passano tredici anni prima che, nel 1987, esca in libreria un nuovo libro di Clara Sereni, quello che le darà notorietà e resterà saldamente connesso al suo nome. Nel Taccuino di un’ultimista la scrittrice racconta come in quel lungo periodo abbia continuato a praticare la scrittura, lavorando alla traduzione dal francese di molti classici, ma non solo. Scriveva quasi di nascosto: da sé stessa, oltre che dal compagno e dal figlio.
Chiusa con il 1977, la stagione delle grandi speranze, nel 1978 la nascita del figlio Matteo aveva segnato una svolta fondamentale nella sua vita, come in quella di tutte le donne che sperimentano per la prima volta la gravidanza e la maternità. Tanto più che la sua si presenta da subito come una maternità speciale, che le propone sfide impensate. Proprio a Casalinghitudine Sereni consegna il racconto di questo inizio difficile, nel primo capitolo, intitolato Per un bambino. Il libro è organizzato come un vero e proprio manuale di cucina, con sezioni dedicate agli antipasti (qui stuzzichini), ai primi piatti, ai secondi, e così via, secondo l’ordine tradizionale delle portate di un pasto italiano.

La prima sezione elenca cinque ricette di pappe e, per ognuna, alla lista degli ingredienti segue, come di rito, la descrizione del procedimento. Chi legge attentamente, tuttavia, si accorge di qualcosa d’insolito: a partire dall’uso del tempo presente e della prima persona — al posto della seconda dell’imperativo o addirittura dell’impersonalissimo infinito — come se la scrittrice volesse mettere subito in chiaro la dimensione soggettiva del racconto: «Metto in una padella […] sciolgo le farine in poco latte». Poi, sparse qua e là, notazioni che esulano dalla ricetta vera e propria: «In casa aleggia un odore di noccioline tostate […] Per tenerezza, aggiungo talvolta un po’ di miele […] Le foglie di cavolo macchiano duramente di verde perfino il vetro». Come a dire: vi sto parlando di me, questa è la mia personalissima storia, anzi, questa è una storia, non un manuale per aspiranti cuochi o per casalinghe. E infatti, dopo la descrizione delle cinque preparazioni, il racconto continua: «Tommaso piangeva sempre […] le amiche esperte mi dicevano: “Vedrai, sono i primi quaranta giorni, fanno tutti così, poi si regolarizzano” […] Passarono i quaranta giorni […] le amiche esperte dicevano “Vedrai, con le prime pappe…”». Ci troviamo così in una casa definita, in un momento preciso della storia di una coppia che cerca di districarsi tra il senso di inadeguatezza, il disorientamento, le difficoltà economiche, i pareri contrastanti dei medici: una storia diversa da tutte le altre.
Sereni stessa racconta la complicata gestazione del libro, tra l’evidente gelosia del figlio, capace di romperle gli occhiali quando la vede impegnata nella scrittura, e quella più subdola del compagno, che le suggerisce una cospicua bibliografia, da leggere in modo approfondito, prima di scrivere. Nel frattempo lei osserva l’accumularsi dei foglietti di quaderno su cui appunta le ricette, senza dire nemmeno a se stessa quale ne sia lo scopo, fino al disvelamento: è un nuovo libro. Segue la descrizione delle peripezie editoriali e dei dubbi sul titolo, manifestati dalla editor eccezionale cui Einaudi affidò l’opera, Natalia Ginzburg: quel vocabolo inventato, costruito sul modello di tanti altri, che fa rima con abitudine, solitudine, negritudine — come scopriremo nell’ultima pagina dell’opera. E poi la piccola battaglia per ottenere che le ricette non fossero distinte, con l’uso di caratteri tipografici diversi, dai racconti, perché risultasse evidente che esse sono parte integrante, e non pretesto, del racconto. E ancora la difficoltà a collocare il libro all’interno di un genere, e i conseguenti problemi con la Siae: solo nell’ultima edizione, in copertina, sotto il titolo, apparirà la dicitura romanzo.
Oggi la parola casalinghitudine è entrata nei dizionari — anche se resta impossibile tradurla in altre lingue — e le librerie pullulano di «libri di cucina che non sono solo libri di ricette, scritti soprattutto da donne, dunque attente al quotidiano e a nutrire, mentre i maschi si spericolano spesso in cibi raffinati quanto astrusi […] Per molti di loro, nei libri e nella vita, il cibo resta una piccola o grande questione di potere». Il successo del libro lo decretarono le donne, che se lo regalavano fra loro, mentre i maschi confessavano che lo leggevano saltando “ovviamente” le ricette. «Perché il cibo è un linguaggio che tutte e tutti usiamo […] ma che le donne, talvolta escluse dalla parola maschile, usano con particolare sapienza»: così il racconto che fa da prefazione all’edizione del 2015, intitolato Una gravidanza a rischio.
Di tutti i libri di Sereni, Casalinghitudine è forse il più esplicitamente autobiografico. Ma si tratta di un’autobiografia destrutturata, fatta di frammenti di storie, che si susseguono, una ricetta dopo l’altra, in ordine non cronologico. Ci si accorge solo alla fine che quelle storie, nel loro insieme, compongono un affresco completo della vita della scrittrice; o forse è meglio dire “un mosaico fatto di tessere mal tagliate”, per usare un’immagine che le è cara. La frammentarietà è la scelta che caratterizzerà tutti i libri della scrittrice, dei quali quasi sempre è difficile dire se si tratti di una raccolta di racconti o di un romanzo unitario: una cifra stilistica che corrisponde al sentire del nostro tempo e in particolare della generazione nata nel dopoguerra, della cui esperienza Clara si fa testimone e portavoce. Come se la deflagrazione della bomba atomica avesse prodotto una deflagrazione interiore con la quale tutti, uomini e donne, dobbiamo fare i conti. Tanto più che l’eco di quella deflagrazione continua a risuonare ogni giorno, nelle immagini dei conflitti che i media portano materialmente nelle nostre case.
Autobiografia frammentaria, dunque, ma completa: sparsa nelle ricette e nei racconti che le accompagnano c’è la storia di Clara, a cominciare dalle origini, cioè dai personaggi principali della famiglia paterna. E se la storia di quella materna non può essere ricostruita attraverso ricordi personali — sarà oggetto di ricerche successive che confluiranno nel Gioco dei regni — Clara non rinuncia ogni tanto a colmarne almeno un po’ il vuoto con l’immaginazione: «Quando [mamma] morì, per me era già morta da tanto, e la mia infanzia era avviata su binari che non prevedevano la sua presenza. Lasciava dietro di sé un nome difficile (non una delle mie pagelle ne reca la grafia esatta); una fama di donna coraggiosa, innamorata di cose belle, che mai, nella sua vita avventurosa, aveva avuto; di donna piena di gusto e sensibilità, capace, come Rossella O’Hara, di inventare un vestito con una tenda. E di pessima cuoca. Mi piace pensare che gli involtini di cavolo — credo di tradizione slava — discendano da lei, ma non è affatto detto che sia così. Come incerte sono tutte le cose che mi sono giunte della sua vita».
L’amore per le cose belle e la certezza che «è impossibile una vita solo funzionale, senza piccoli gesti di agio, senza un odore di cura, senza una qualche ricchezza», li ritrova in casa della sorella maggiore Ada e nella “frivolezza” di una prozia, quella “zia Mela” cui deve, oltre all’insegnamento del pianoforte, la sapienza nella preparazione degli gnocchi di semolino: «Nella sarabanda domestica che precedeva i pranzi importanti di cui esigeva la supervisione, zia Ermelinda si ritagliava inflessibilmente lo spazio degli gnocchi di semolino. Ce ne andavamo a prepararli nella sua cucina, noi due sole, mentre di là fervevano i preparativi. Imburrava la teglia e ritagliava i dischetti con una cura quasi religiosa: e l’oro della crosticina era la garanzia che nemmeno fra gli ospiti di riguardo, nemmeno nel cuore di discussioni accalorate in lingue incomprensibili, avrebbe dimenticato di controllare se ero seduta convenientemente, o di aggiustarmi il fermaglio nei capelli […] Non aveva rinunciato ai suoi gioielli sontuosi neanche con la guerra (li indossava con totale naturalezza, il valore che avevano dipendeva dalla loro storia e non dal prezzo; glieli rubarono e poco dopo morì, sradicata, senza neanche più uno zaffiro a mantenerle fermo lo scialle). Per me zia Mela resta un profumo, la musica, dei gesti eleganti, la sensazione di qualcuno che chiede molto ma molto è disposto a dare, il calore di sentirmi prediletta e unica».
Più volte la scrittrice ribadisce che solo se c’è un profumo di superfluo la cucina — come le altre attività “femminili”, come il cucito, il lavoro a maglia, la cura delle piante — è libertà, è creatività, è gioco. Così, caparbiamente, al superfluo Clara non rinuncia neppure negli anni di militanza politica in cui la cura, i soldi, il tempo dedicati a cucinare, decorare una pietanza e apparecchiare la tavola erano passibili di disapprovazione: «Sembrava indispensabile non solo spendere tutti esattamente la stessa cifra, ma anche impiegare lo stesso tempo in cucina, e con risultati che non privilegiassero le qualità culinarie di qualcuno, a scapito di qualcun altro […] Il menù era fisso: pasta scotta e ascetiche frittate insapori. Il massimo di economicità, il minimo tempo in cucina, servire il popolo era adeguarsi ai suoi standard più bassi e incolti […] A casa mia avevo smesso di proporre prelibati manicaretti: tutti mangiavano di gusto, ma Aldo bollava il mio essere borghese. […] Il bollito costa poco, pensai che fosse accettabile. I colori dei sottaceti, i ricami di maionese lo rendevano tollerabile per me. Aldo disse: “Devi averci perso tutta la giornata”».
Quando è creativa la casalinghitudine è «anche un angolino caldo. Un angolino da modificare continuamente, se fosse fisso sarebbe morire, le ricette solo una base per costruire ogni volta sapori nuovi, combinazioni diverse. Reinventare unico sconfinamento possibile, reinventare per non rimasticare, reinventare per non mangiarsi il cuore».
Reinventare e sconfinare, del resto è la sfida di Clara nei confronti del padre: un padre ingombrante, figura carismatica del Partito Comunista delle origini, sfuggito avventurosamente al carcere e alla condanna a morte, membro della Costituente e poi ministro della Repubblica; ma anche studioso di scienze agrarie e puntiglioso giudice delle preparazioni culinarie, nonostante fosse costretto a dieta da problemi di salute. Così che, quando Clara si trova a dover sostituire per un periodo non breve la nonna Alfonsa, non rinuncia a sottolineare con un “però” ogni minima differenza con i piatti di “mammà”: «Tutta la mia vita, sotto lo sguardo di mio padre, diventava un immancabile però, e ogni mio atto di autonomia, di libertà, di intellettualità si scontrava con il suo furore, o con un sorriso di sufficienza. In età più verde aveva sempre già fatto, e meglio, qualunque cosa io tentassi di fare: gli studi, i rapporti sentimentali, la politica, perfino la cucina».
Casalinghitudine, oltre che come un romanzo germogliato dal femminismo — quasi “rubato”, confessa la sua autrice, al movimento delle donne degli anni Settanta — è anche il romanzo che racconta il difficile percorso che una figlia compie per distanziarsi dal padre e insieme riconciliarsi con lui. Con una significativa inversione del tempo cronologico, il libro che si è aperto con le pappe per Tommaso, si conclude con le sezioni intitolate Dolcezze e Conservare, suggellate da due frammenti narrativi sulla morte del padre: «All’inizio non c’era dolore, solo sollievo per una pena finita, rassegnazione per quell’ultimo tentativo che forse si poteva fare ma a che prezzo, senso di colpa preciso per quel sollievo […] Di fronte a me non avevo più l’Avversario, e non avevo più, anagraficamente, radici. Allora ho pensato che potevo smettere di suicidarmi, potevo persino permettermi di avere della felicità da regalare, di farmi radice: è nato Tommaso».
Ma a Emilio Sereni storico dell’alimentazione Clara lascia l’ultima parola, perché «Tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto»: a epilogo è posta una pagina del suo trattato I Napoletani da mangiafoglia a mangiamaccheroni.
Un omaggio, certo, e insieme la consapevolezza che il cibo è anche storia e che di esso è intessuta la storia di ognuno di noi e la storia dei popoli: raccontare queste storie è uno dei modi in cui donne e uomini mettono al mondo il mondo.
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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.
