Antigone e Ismene, sorelle

Insieme all’Edipo re, Antigone è forse la tragedia più conosciuta e ammirata, non solo tra quelle di Sofocle, ma tra tutte quelle — 31 i testi pervenutici per intero — che l’Atene del V secolo ci ha tramandato e che ancora ci appassionano e ci interrogano su questioni cruciali nella vita dei singoli esseri umani e delle collettività in cui essi si organizzano.
Tra tali questioni quella più dibattuta da spettatori e spettatrici e studiose/i di tutti i tempi è il diritto dell’individuo a scegliere quando si trovi davanti al contrasto tra legge positiva e legge naturale.
Tuttavia è c’è un altro nodo conflittuale che Sofocle propone fin dai primi versi dell’opera, affidando alle due figlie di Edipo il compito di rappresentare posizioni antitetiche sul diritto che hanno le donne di agire nello spazio sociale.

L’antefatto è presto riassunto. Giocasta, moglie di Laio, re di Tebe, dopo la morte violenta del marito, avvenuta in circostanze oscure, viene data in sposa come premio a Edipo, che ha liberato la città dal flagello della Sfinge: lui stesso crede di essere figlio del re di Corinto e solo dopo lunghi anni, e la nascita di due maschi e due femmine, si scoprirà trattarsi di quel bambino nato dall’originaria coppia reale, condannato, per un oscuro presagio, a essere esposto (e quindi a morire).
L’unione tra madre e figlio, incestuosa e quindi colpevole, nonostante l’inconsapevolezza dei protagonisti, è inevitabilmente foriera di morte, sofferenze e lutti per tutti coloro che ne discendono, ma non solo. Dopo che Giocasta si è uccisa impiccandosi, ed Edipo si è accecato ed è andato in volontario esilio accompagnato dalla figlia Antigone — come Sofocle racconterà nell’Edipo a Colono, probabilmente l’ultima delle sue tragedie, messa in scena dopo la sua morte — i suoi figli maschi, Eteocle e Polinice, entrano in conflitto per il potere: il primo, benché più giovane, occupa per primo il trono, il secondo, per riprenderselo, fa guerra alla sua città.

Tebe resiste ma i due fratelli scontrandosi in duello si danno reciprocamente la morte. Diventa re Creonte, fratello della loro madre, e decreta che gli onori funebri siano resi solo a Eteocle, sovrano in carica al momento dello scoppio del conflitto, e non a Polinice, considerato traditore della patria e condannato perciò a rimanere insepolto, alla mercé di uccelli rapaci e animali vari.
La tragedia comincia qui: Antigone ha saputo dell’editto, cui non ha nessuna intenzione di obbedire, e chiama fuori del palazzo la sorella Ismene cui intende chiedere di sostenerla nel progetto di ricoprire di terra il corpo del fratello, per consentire al suo spirito di raggiungere il mondo dei morti e trovare pace. Ma il dialogo diventa subito scontro, sebbene Antigone si rivolga alla sorella, anzi al volto di Ismene, che — con un’espressione difficilissima da tradurre — definisce identico al suo e a quello dei fratelli: la prima parola della tragedia è “comune”. Tutto il testo insiste su quello che accomuna e rende uguali i protagonisti della vicenda e quello che li rende diversi, antagonisti.
Figlie e insieme sorelle di Edipo, non sono solo i tratti del volto e il sangue, che Antigone e Ismene hanno in comune tra loro e con i fratelli Eteocle e Polinice, che si sono dati reciprocamente la morte, per la brama di regnare sulla città di Tebe: nessuna delle due vuole rinunciare ad aver ragione e non riuscendo ad allearsi contro colui che minaccia di una fine orribile chi si ribelli alla sua legge, vanno incontro al loro destino, ciascuna in totale solitudine. Anche Creonte, incapace di ascoltare chiunque gli prospetti un modo diverso di valutare le azioni e le parole di familiari e sudditi, alla fine rimarrà solo sulla scena a piangere la morte del figlio Emone e della moglie Euridice. Nessuno dei tre ha una relazione di sangue con la discendenza di Laio, ma Creonte è il fratello di Giocasta.

Il tema del legame tra fratelli e sorelle è un vero e proprio leitmotiv nella tragedia: quel legame primario cui Antigone vuole mantenersi fedele fino a morirne, mentre Ismene, pur addolorata, ritiene che si debba cedere a chi ha il potere e la forza. Tanto più se si è donne. Quando Antigone le propone di aiutarla a sollevare il corpo del fratello privato degli onori dovuti a ogni morto, e di mostrare così «se sia di animo nobile, oppure se, nonostante la nascita illustre, sia solo una vigliacca», Ismene risponde sgomenta e incredula, e lo fa usando quella forma, il duale, che la lingua greca usa per cose o persone considerate inscindibili: «Rifletti sulla fine terribile che aspetta noi due, sole, abbandonate, se trasgredendo la legge, ci opporremo all’editto e al potere di chi governa. Devi pensarci, a questo, che siamo nate donne, non siamo fatte per combattere contro uomini. Io chiederò a coloro che sono sotto terra di perdonarmi, perché sono obbligata a comportarmi così e obbedirò ai vivi che comandano. Non ha nessun senso compiere gesti eccessivi». Sofocle, Antigone, 38 – 68, passim.
Antigone a questo punto tratta la sorella in modo sprezzante, proclama che, anche se in seguito cambiasse idea, non vorrà più saperne di lei: andrà fino in fondo da sola, nella certezza che nessun re può toglierle ciò che è suo di diritto: «Sarà bello morire per aver fatto ciò. Giacerò, amata, vicino a lui che amo, colpevole di un gesto santo. Devo piacere di più a chi sta sotto terra, perché là giacerò per sempre». Accusa la sorella di disprezzare ciò che gli dei apprezzano, di usare come pretesto per la sua viltà la volontà dei cittadini. Ismene ribatte che Antigone sfida l’impossibile, che si comporta da folle; ma riconosce che merita l’amore di coloro che ama.

La tematica dell’inferiorità del femminile rispetto al maschile, introdotta da Ismene, sarà ripetutamente ripresa nei versi successivi, soprattutto per bocca di Creonte, che sembra perdere il controllo della situazione quando si trova davanti all’autrice della violazione del suo decreto. Scoprire che si tratta di sua nipote, che per di più è anche la promessa sposa dell’unico figlio che gli è rimasto dopo la morte dell’altro, lo fa quasi uscire di senno: non può rimangiarsi l’editto, pena la perdita di ogni credibilità come sovrano; anche se il coro, costituito dagli anziani di Tebe, gli suggerisce che potrebbe esserci la mano divina dietro quello che è accaduto. Convinto com’era che il tentativo di sepoltura fosse opera di una delle guardie, corrotta con la promessa di una ricompensa in denaro, si trova invece davanti a una donna impavida che suscita l’ammirazione dei cittadini. Antigone afferma di essere perfettamente a conoscenza dei suoi ordini, ma di non poter credere «che gli editti di un essere mortale possano essere ritenuti superiori alle leggi non scritte, infallibili, degli dei: esse esistono non da ieri, ma da sempre e nessuno sa da dove siano apparse nel loro splendore». Creonte riflette ad alta voce: «Non sarei più io l’uomo, sarebbe lei l’uomo, se quest’atto di forza non fosse punito». Ivi, 454 – 485, passim. Antigone ribatte che anche gli altri la pensano come lei, anche se non osano dirlo per paura e che persino Eteocle, ora che è morto, le darebbe ragione: perché non è un’azione turpe onorare chi ha lo stesso sangue.
Torna in scena Ismene, che ora si dichiara colpevole come la sorella: non avrà più senso la sua vita, quando sarà rimasta sola. Ma Antigone rifiuta di riconoscerle una complicità che non c’è stata, e l’onore del gesto nobile, che solo a lei spetta. Creonte inveisce anche contro Ismene e quando questa gli ricorda che, uccidendo Antigone, uccide le nozze del suo stesso figlio, fa ricorso a una volgare metafora e ribatte: «Ce ne sono, di donne i cui solchi si possono arare».
Uscite di scena le due sorelle, nell’episodio successivo sarà lo stesso Emone a cercar di far riflettere il padre, pur ribadendo che nessun matrimonio è per lui più importante della sua guida. Dopo un lungo discorso sui pericoli dell’anarchia, ancora una volta Creonte rivela quale sia la sua vera preoccupazione: «Non lasciarsi vincere da una donna: se dobbiamo soccombere, che sia per mano di un uomo, purché non si dica mai che siamo inferiori alle donne». Emone gli riferisce che tutta la città è dalla parte di Antigone, ma il re non lo sta a sentire: è convinto che, oltre che dalle donne, non bisogna prendere lezioni dai giovani. E quando il figlio, con tutta la delicatezza possibile, ma con determinazione, tenta ancora una volta di farlo ragionare, conclude in modo sprezzante, senza rivolgersi direttamente a lui, ma parlando al pubblico: «Credo proprio che costui si batta per quella donna»; e ancora: «ha un carattere ignobile, sottomesso a una donna». In un serratissimo scontro verbale lo accusa: «sai parlare solo per difendere lei» e conclude: «sei proprio schiavo suo».

Da questo momento la tragedia corre veloce verso la catastrofe finale. Antigone, in cammino verso il loculo dove sarà rinchiusa viva, si esprime, per una volta, come farebbe qualsiasi giovane donna che dà l’addio alla luce del sole e lamenta le nozze col dio degli Inferi che l’attendono: la tomba sarà la sua stanza nuziale. Ma la consola il pensiero che nel mondo dei morti incontrerà tutti i suoi cari: confida che da loro sarà ben accolta e amata. Aggiunge poi parole che hanno lasciato perplesse lettrici/lettori e commentatori antichi e moderni: afferma che non avrebbe sacrificato la sua vita se il morto insepolto fosse stato lo sposo o un figlio. Perché di mariti se ne possono trovare altri e anche di figli se ne possono generare, con altri uomini. Mentre di fratelli, essendo morti il padre e la madre, non avrebbe potuto averne più. Il ragionamento viene di solito spiegato come un topos letterario: la ripresa da parte di Sofocle di una storia raccontata da Erodoto.
In realtà Antigone non fa che ribadire la priorità dei legami di sangue rispetto a quelli che nascono dall’istituzione del matrimonio, che sono di tipo sociale e politico, e sono dunque caratterizzati da una sorta di precarietà. Mentre i legami di sangue sono eterni e non soggetti alla storia, esattamente come le leggi: quelle degli uomini sono temporanee, fallibili, opinabili, a volte ingiuste. Quelle che non derivano da scelte umane, s’iscrivono al contrario in una dimensione di eternità o naturalità, come i legami di sangue.

Quando, nel 442 a. C., andò in scena l’Antigone, erano passati quasi vent’anni dalla rappresentazione delle Eumenidi di Eschilo, ma probabilmente le tensioni all’interno della polis tra le fazioni interessate al mantenimento dell’ordine tradizionale e del potere dei clan familiari e quelle che sostenevano i campioni della democrazia, accusati spesso di aspirare alla tirannide, erano ancora forti.
L’ultima riscrittura italiana del mito che io conosca è una breve pièce teatrale del 2012, di Valeria Parrella, che affronta il tema dell’eutanasia: uno di quelli su cui è più arduo legiferare, visto che ha a che fare con la vita e con la morte. E quando si tratta di vita e di morte chiunque gestisca il potere non può non interrogarsi su quale ne sia il limite: comunque sia arrivato nella posizione che occupa, nel compito di governare e stabilire leggi uguali per tutti, non potrà evitare di scontrarsi con la coscienza individuale e con il diritto di scegliere.

In copertina: Frederic Leighton, Antigone, olio su tela, 1882.

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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.

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