Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie,
ma la risposta che dà a una tua domanda
Italo Calvino, Le città invisibili
Nell’Agenda europea 2030 l’11° obiettivo recita: «Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili».
Il coordinamento donne Cgil di Messina, insieme ad altre realtà cittadine, ha avviato il progetto Città a misura delle donne, che punta a una città «a misura di genere e in generale delle persone». Il primo passo dell’analisi è un questionario teso a comprendere quali sono le abitudini e quali le esigenze, in modo da riuscire a esprimerle in chiave progettuale e di indirizzo. I risultati saranno presentati alla città il 18 marzo.
È quasi impossibile definire lo spazio senza far riferimento alle relazioni sociali. Esso non è un semplice contenitore di eventi ma il luogo dove comportamenti e immaginari vengono riprodotti e legittimati o esclusi e stigmatizzati. Le divisioni e le disuguaglianze spaziali sono determinate e riflesse in interazioni sociali vissute, percezioni assimilate, narrazioni diffuse.
L’abitato è effetto di pratiche che scrivono il testo urbano, creano e trasformano lo spazio. La pratica è un intreccio tra un’azione volontaria e un’abitudine: habitus, qualcosa che prendiamo a fare senza rendercene conto, come buona parte del nostro agire quotidiano.
Una delle cose straordinarie degli insediamenti umani nello spazio è la loro capacità di trasformarsi: durante tutta la storia si sono adattati a mutamenti del clima, spostamenti delle rotte commerciali, cambiamenti tecnologici, guerre, epidemie, sconvolgimenti politici.
Allo spazio dei luoghi si intreccia quello dei flussi. Oggi non sono pensati per le persone ma per macchine veloci, ingombranti, energivore: la città deve far circolare le merci. Ci si deve spostare in fretta, sempre più in fretta.
Lo spazio urbano, il suo significato, il modo con cui viene usato ha ovviamente subìto l’effetto delle trasformazioni della società contemporanea, con le profonde contraddizioni che esse comportano: un solo dato non è cambiato nel tempo. Nelle città — in cui si concentra ormai il 54% degli abitanti della Terra — tutto è progettato, testato e impostato su standard determinati dalle esigenze di un cittadino modello (nella pratica maschio, bianco, etero, normoabile, di classe medio-alta): vi si rintraccia un ordine simbolico storicamente costruito che ne ha fatto un universale. È il golden standard per qualsiasi cosa, dalla grammatica agli attrezzi da lavoro ai manichini dei crash test, dai bagni pubblici alle infrastrutture di trasporto.
Come dice Caroline Criado Perez nel suo libro Invisibili, «quando i pianificatori non tengono conto del genere, gli spazi pubblici diventano di default spazi maschili».
Sono ormai molte le urbaniste che invece ne parlano e che si dedicano ai temi della produzione dello spazio in ottica di genere, anche se faticano a farsi ascoltare (per l’Italia penso a Elena Granata, Il senso delle donne per la città. In Toscana a Daniela Poli, che coordina il master universitario Città di genere).
Per citare la geografa statunitense Jane Darke, «le città sono patriarcato scritto in pietra, mattoni, vetro e cemento». Leslie Kern (La città femminista) aggiunge: «Una volta costruite, le nostre città continuano a plasmare e influenzare le relazioni sociali, i rapporti di potere, le disuguaglianze innanzitutto di genere».
Dall’utilizzo dei mezzi di trasporto a quello delle toilette, dalla percezione di violabilità alla fruizione degli spazi, le ricerche internazionali (ad esempio il Global Mobility Report 2017 della World Bank) indicano che l’approccio al tessuto urbano crea esperienza dei luoghi al punto di modellarne la percezione e il modo in cui li attraversiamo e li abitiamo.
Novembre 1976: con lo slogan La notte ci piace, vogliamo uscire in pace le donne italiane si ritrovarono nelle piazze antistanti le principali stazioni ferroviarie, da Termini a Roma alla Centrale di Milano a Brignole a Genova. Da allora si organizzano ogni anno passeggiate notturne in molte città: Le strade sicure le fanno le donne che le attraversano.
La libertà di movimento, l’agio nei luoghi pubblici è ancor oggi un lusso: pur se l’immaginario non le relega più nella sola sfera della domesticità, le donne vengono educate alla paura dello spazio pubblico. Gli avvertimenti di prudenza si rivolgono solo a loro (chiunque per strada può subire un furto, ma nessuno consiglierebbe per questo di non uscire col portafogli). Gli uomini non sprecano tempo a preoccuparsi.
Mani in tasca, passo veloce, sguardo basso, rapida valutazione del percorso, ricerca delle zone illuminate, quotidiano stato di allerta: questo facciamo quasi inconsciamente. Eppure non basta essere guardinghe, non percorrere strade solitarie, tanto meno dopo il calar del sole; non accettare nulla dagli uomini, tanto meno se sconosciuti; non rincasare tardi, tanto meno da sole (pur se le statistiche dimostrano che la violenza domestica è più diffusa e letale di quella urbana, equivalendo al 68% dei delitti consumati sulle donne).
I dati del rapporto Istat 2022 sul Benessere equo e sostenibile dicono che in Italia una donna su due se può evita di uscire da sola la sera. Ai video su TikTok le giovanissime affidano non solo testimonianze ma consigli di sopravvivenza, dalle app con messaggi automatici allo spray al peperoncino, fino alla costruzione di una vera e propria mappa della paura.
I maschi che dicono? Non tutti sminuiscono.
Nel 2015 uno dei partecipanti al corso di formazione Il fenomeno della violenza: conoscerla per fermarla riferì che una sera, trovandosi a camminare dietro a una donna, ebbe la sconcertante percezione di essere per lei fonte di paura. «Ho percepito me stesso come pericoloso», ebbe il coraggio di dire. Non ci aveva mai pensato prima.
Vedi una donna per strada, le fischi dietro, cerchi di toccarla, la tocchi … bricconcello, sono peccati veniali. «A una palpatina si sopravvive», «dimostra che gli piaci», «non sai stare allo scherzo», «sotto sotto sei lusingata dall’attenzione nei tuoi confronti». In presenza di episodi di molestie per lo più i presenti non intervengono o peggio strizzano l’occhio — realmente o simbolicamente — ai molestatori. Street harassment: «commenti, gesti e azioni indesiderate messe in atto in luoghi pubblici». Tutte ne siamo state oggetto.
Le molestie di strada o sono taciute («non ne vale la pena») o vengono ritenute seccature minori, o ne viene imputata la colpa alle donne stesse. «Se non vuoi essere infastidita, fatti accompagnare da un ragazzo»: hanno bisogno di svalutare le donne indipendenti per sentirsi “fighi”.
Sono dinamiche sociali trainate dall’inerzia del senso comune, che dà per scontato che la sessualità maschile sia anche un’arma di intimidazione. Sono dinamiche della psiche individuale, che se femminile deve convivere con la sensazione della violabilità.
Le istituzioni ne sono consapevoli, tanto che in molte città (Trento, Bologna, Milano, Modena, Ferrara …) è stato creato il “taxi rosa” a prezzo contenuto, per consentire alle donne di sentirsi più sicure quando escono di sera. In Germania una società regionale di trasporti ha deciso di introdurre sui treni scompartimenti speciali per le donne che viaggiano da sole. Analoga l’idea inglese di istituire nelle metropolitane vagoni per sole donne. Anche in India è stato lanciato un servizio di moto-taxi guidati da donne e rivolti a sole donne: gli scooter sono rosa e le conducenti hanno in dotazione uno spray al peperoncino. La politica securitaria può servire a tamponare l’emergenza ma ha il grave difetto di confermare che ciò che accade sia un fatto inevitabile. Ritenerlo “normale” è già violenza. Devo insegnare a mia figlia che deve difendersi dal fatto d’esser nata donna?
Le politiche che riguardano la sicurezza sono spesso espressione di retoriche che ci vedono come soggetti deboli, da proteggere attraverso meccanismi tampone. Noi pensiamo che vada smontato l’immaginario che racconta le donne come fragili, che le mette continuamente in guardia. La sfida è invece capire come trasformare i luoghi pubblici in modo che possano essere attraversati da più della metà della popolazione. Ciò che non si misura per le politiche pubbliche non esiste, lo sappiamo, ma non bastano le statistiche con i loro numeri: è l’esperienza di chi vive lo spazio urbano che bisogna sondare, uscendo sia dalle esigenze imposte dalle regole del mercato sia dalla prospettiva che guarda le città solo dall’alto. Per questo ho preso le mosse dall’iniziativa messinese.
A Torino lo chiamano city storytelling; a Vienna lo si attua fin da quando (1991) due urbaniste, Eva Kail e Jutta Kleedorfer, organizzarono una mostra fotografica sul modo in cui le donne vivevano la città. La stessa Vienna insieme a Barcellona e alla svedese Umea rappresenta uno dei pochi casi in Europa in cui siano stati effettivamente condotti studi urbanistici in ottica di genere, avviando al contempo una ristrutturazione delle amministrazioni in chiave di gender mainstreaming.
Recentemente Roma Capitale con l’indagine Spatium Urbis (che ha pubblicato i dati in rete) ha cercato di capire come le donne fruiscono degli spazi della metropoli e quali sono le loro priorità. Bologna lavora da tempo al progetto Bologna libera e sostenibile. Milano ha realizzato un Atlante di genere. Qui lo studio di Sex and the city ha fatto dell’ascolto un metodo: si tratta di un’associazione di promozione sociale che osserva la città da un punto di vista di genere, realizzando progetti — sia teorici che pratici — in ottica di co-progettazione. Nel 2024 ha pubblicato Libere, non coraggiose. Le donne e la paura nello spazio pubblico, una ricerca capace di dimostrare il ruolo della pianificazione urbana nell’affrontare il disagio di chi attraversa la città.
Da anni il tema dell’integrazione della dimensione di genere nello sviluppo urbano è balzato in cima all’agenda politica dell’Unione europea. Nel 2006, al fine di promuovere l’uguaglianza di genere a livello locale e regionale, il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa (CCRE) lanciò la Carta europea per la parità e l’uguaglianza di donne e uomini nella vita locale.
Può l’urbanistica contribuire alla parità, traguardo invocato ormai dappertutto?
A fondamento della disparità c’è il modo in cui la dialettica pubblico/privato è stata costruita nei secoli, traendo origine dalla divisione sessuale del lavoro. Le diverse possibilità di utilizzo degli spazi non sono determinate dalla diversità biologica tra i generi, bensì da un diverso approccio alla vita quotidiana.
Oggi la vita delle donne è più complessa rispetto al passato: moltissime lavorano fuori casa ma la necessità di conciliare impegni lavorativi e impegni familiari ricade ancora prevalentemente su di loro. Trovare un incastro tra gli orari molto dipende dalle offerte di servizi delle città, ed è ancora un miraggio e una fatica: la separazione fisica tra i luoghi del lavoro e quelli delle residenze complica non poco la vita.
Si legge disparità nei dati base sulla mobilità: gli uomini si muovono per lo più in maniera lineare, casa-lavoro, lavoro-casa. Le donne seguono invece un iter frammentato, fatto di alternanza tra percorsi pedonali e motorizzati, tra i piccoli e i lunghi spostamenti imposti dalla compresenza del lavoro di cura e del lavoro professionale.
Mi sta a cuore, dunque me ne prendo cura: I care. Una città che metta al centro la cura non prevede che questa debba rimanere un lavoro esclusivamente da donne ma lavora per ripartirla in modo più uniforme non solo tra i generi ma all’interno delle comunità. Non la ritiene una responsabilità solo privata ma ne sottolinea la valenza pubblica.
La progettazione degli anni ‘70 fu basata sul principio della separazione delle funzioni, con uno spazio suddiviso in parti a cui attribuire funzioni specifiche: l’area in cui si risiede, quella in cui si lavora, quella in cui ci si svaga, quella in cui ci si rifornisce. Spesso sono lontane tra loro. L’approccio contrario è rappresentato dalla città di prossimità, una città policentrica i cui quartieri hanno tutto ciò di cui si ha bisogno nello svolgersi della vita quotidiana. Uno slogan sintetizza questo cambiamento: La città dei 15 minuti, la pianificazione di un territorio che preveda che in un raggio di un quarto d’ora si possano raggiungere tutti i servizi essenziali, anche quelli di welfare e culturali. Connettere spazio e tempo non è più un’utopia.
Abitare, studiare, lavorare, comprare, curarsi, fare sport, divertirsi … vivere, insomma, non più solo spostarsi: la città ci offre scelte che le nostre antenate non hanno mai avuto. Nonostante le sue ostilità rimane la migliore speranza per un cambiamento radicale di qualità della vita.
Un mondo che si adatti alle persone, non viceversa.
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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.
