Nel 1989, due anni dopo Casalinghitudine, Clara Sereni torna in libreria con un nuovo volumetto, Manicomio Primavera, «un libro di racconti costruito come un romanzo», che ruota tutto intorno ai temi della fragilità e della disabilità. Una poesia di Sylvia Plath, La zitella, posta in esergo, racconta la difficoltà ad affrontare il rischio che la vita, ogni vita, comporta. Dalla poesia sono tratti sia il titolo della raccolta che quelli delle due sezioni in cui sono organizzati i racconti. E questi titoli sono caratterizzati dall’accostamento di due vocaboli in forte contrasto tra loro: uno parla di vita, di fertilità — primavera, germogliare, rigoglio; l’altro di un intoppo, di una difficoltà — manicomio, anomalo, solitario.

I racconti stavolta non sono direttamente autobiografici, ma affondano le radici nell’esperienza più importante che ha modellato la vita della scrittrice nei dieci anni precedenti, dalla nascita di suo figlio Matteo in poi. Quel bambino che piangeva sempre, cui sono dedicate le pappe del primo capitolo di Casalinghitudine, e che con la sua difficoltà a vivere fa di Clara una “madre handicappata” resta ora sullo sfondo: i racconti hanno per protagoniste le donne — mamme, maestre, nonne, semplici amiche o madri di compagni di scuola — costrette a misurarsi con diverse incarnazioni della “differenza” che, tutte, stentano a convivere con la cosiddetta “normalità”. E fanno riflettere sul fatto che chiunque, per un accidente qualsiasi, può essere sbalzato via istantaneamente dalla posizione di persona sana e forte con cui fino ad allora si è identificato.
A fare da filo conduttore tra i racconti spicca in primo luogo il tema del cibo; ma anche alcuni elementi lessicali ricorrenti, singole parole — “rasoio”, o “vetro”: il rischio di ferirsi o di rompersi — o termini che contengono l’idea di luce. Direttamente da Casalinghitudine arrivano espressioni come “radice aerea”, per dire la necessità di stare con i piedi ben piantati a terra e insieme il desiderio di abbattere le barriere e sconfinare; o “irretire il mondo” per sforzarsi di metterlo in ordine, con le attività di cura della casa, con il lavoro a maglia, con la scrittura, soprattutto.
La prima sezione, intitolata Un germogliare anomalo, si apre con il racconto Un rischio mortale, che mette in scena una protagonista molto somigliante alla “zitella” dell’esergo: una storia d’amore che sta appena cominciando è sul punto di sgretolarsi per il terrore che prova la donna all’idea di abbandonare i puntelli di cui ha bisogno per sentirsi sicura.
Perché il mondo, e anche ogni singola persona, rischia continuamente di andare in pezzi, come il cristallo di cui sembra fatta la protagonista dell’omonimo racconto, il secondo: «Frutto atteso e tardivo di un ménage colto e benestante», cresce circondata da attenzioni amorevoli, il suo corpo si sviluppa «come un calice… senza disarmonie o ruvidezze», al riparo da urti che potrebbero incrinarlo, perfino nel periodo delle leggi razziali, cui la sua famiglia benestante sfugge con un soggiorno in Svizzera. «Fu dopo il matrimonio che incominciò a produrre quelle sue pagine distillate e diafane, destinate allo sguardo innamorato di lui e ai cassetti del secrétaire […] come il grano d’impurità attorno al quale la perla prende forma, la paura fluiva nelle parole, si impreziosiva, trovava nella scrittura il suo argine più impenetrabile». Anche dopo la morte del marito, che l’ha protetta come un oggetto fragile, e la catastrofe economica, la donna riesce a tenere a bada la paura con la lettura e la scrittura: «Le sembra che le parole possano irretire il mondo. Finché un giorno, leggendo di Sara e di quel frutto tardivo e ridente perciò chiamato Isacco, s’immaginò un figlio, una creatura uscita da lei, che avrebbe continuato la sua vita, che avrebbe succhiato libri e parole trasformandoli e inventandone di nuovi… una lama di luce nella sua memoria confusa». Così si trova ad accogliere il commesso del droghiere «in veste di madre, con le braccia dell’amore» e, alla sua reazione spaventata e scomposta, crolla a terra.
Il tema della nascita di un figlio viene ripreso nel terzo racconto, Tutto si impara, in cui traspare l’esperienza di una maternità difficile che la scrittrice descriverà poi in Diario, pubblicato nel libro collettivo Mi riguarda. Un bambino, nato con il parto cesareo, viene tenuto lontano dalla madre per diversi giorni: così che quando, mentre il dolore è ancora forte, le depositano accanto «un fagotto di panni minacciosamente irreale […] un neonato rosso grinzoso e brutto, la bocca aperta e vorace» lei sente crescere la ripulsa e insieme «il disagio per un sentimento inopportuno, anzi colpevole, in contrasto con tutto quello che ti hanno insegnato e raccontato». Ma i corpi si riconoscono, si scambiano calore e nasce la fiducia che tutto si può imparare, anche l’amore.
Amore è il titolo di un racconto della seconda sezione, che allude con delicatezza a un episodio che sfiora l’incesto, tra un adolescente “diverso” che scopre le sue pulsioni e una madre che non si sottrae, perché lui si senta «intero almeno una volta, unito nel corpo e nelle sensazioni».
La protagonista di Gabbiani che, delusa da un matrimonio con l’uomo sbagliato, ha cercato nel lavoro di psicologa uno strumento per dare sollievo alla sofferenza di tanti, si ammala gravemente e si ritrova nella solitudine assoluta. Eppure assapora un momento di felicità, quando riesce ad aprire la finestra della stanza d’ospedale in cui è confinata, per tendere la mano piena di briciole ai gabbiani che vede volteggiare intorno; e a gioire del volo di quello che afferra in mezzo ai rifiuti una scheggia che brilla nel sole a lungo.
L’ultimo racconto della prima sezione, Borderline, fa da ponte con quelli della seconda, otto storie di disabilità che tutte insieme sembrano porci una domanda: quale sia lo spartiacque che separa i sani dai malati e come s’individui la frontiera tra normalità e malattia. Protagonista è una donna, «democratica e di sinistra» che entra in crisi davanti a un bambino che sembra collocarsi proprio sulla linea di confine:
«Ai saluti, la maestra accennò al bambino nuovo che c’era in classe, diagnosticato borderline e certo sofferente, difficile, bisognoso di rapporti. Si offerse subito, malgrado la definizione che non conosceva: però in mente tutta una lunga sequenza di diversi che sempre, fin da quando suo figlio era al nido, aveva accolto in casa. […] Indagò con lo sguardo il borderline che si avvicinava: stigmate non ne presentava […] Normale nel viso e in tutto. Forse un’esagerazione della maestra. Si rallegrò dell’apparenza, ogni volta camminare per la strada con un segnato da Dio un piccolo disagio glielo dava, più vivo quando non c’era un’altra madre con lei a segnalarne una diversa appartenenza».
Ma al momento della merenda qualcosa va storto: il bambino non tocca nessuna delle cose che lei ha preparato, e continua a chiedere ossessivamente “mi dai da mangiare?” e “chi sei?”.
«Guardò suo figlio. Improvvisamente i suoi occhi furono quelli dell’altro — rasoi — e uguale la domanda: “Chi sei? Qualcosa le risuonava dentro, un’eco che si allargava e scavalcava i confini. Non voleva ascoltare, non poteva, propose giochi e favole. Per mano i bambini presero a girarle intorno con un ritmo pesante, salti rumorosi e malati, insieme gridavano forte: “Chi sei? Chi sei? Chi sei?”. Erano complici e così uguali, le loro urla potevano sgretolare aggettivi e frontiere, anche lo sguardo di lei poteva mutare e perdersi. Parlò e parlò e loro non smettevano. Senza che potesse controllarla la voce diventava più acuta, la nota stridula era spavento e violenza quando urlò a suo figlio: “Piantala o ti chiudo al buio”. Suo figlio si bloccò, spaventato dal tono e gelato dalle parole […] Si avvicinò per una carezza, ma il borderline si intromise ridendo, una brutta risata, sonora e incomprensibile. Ecco, il confine era lì davanti: un volo di follia, toccare e toccarsi, mi dai da mangiare. Gli orli slabbrati, le frontiere incerte. Stava per rischiare: scoprirsi, scoprire cosa c’è dietro il filo spinato e le barriere. Rovi e serpenti forse, o magari un tesoro: ma i racconti di chi c’è stato sono imprecisi e inquietanti. Si tirò indietro. Secca, e priva ormai di altri aggettivi, trascinò via suo figlio per un braccio, all’altro intimò: “Non muoverti di qui” e lo lasciò nella stanza. Suo figlio davanti al televisore, lo sguardo appena inebetito di sempre. Da solo il borderline batteva, domandava. Si limitò ad accostare la porta e la frontiera era ristabilita».
La mamma democratica e di sinistra perde la testa, terrorizzata dalla sensazione che anche suo figlio corra il rischio di essere trascinato al di là del limite. Perché tra normalità e malattia esiste una sottile lama di rasoio. Al contrario di altri scrittori, che, come Pontiggia, hanno fatto del racconto dell’handicap del figlio un’occasione di denuncia sociale, Clara Sereni riflette sul pericolo di perdere l’identità che avverte confusamente chiunque entri in contatto con il diverso. E se ne allontana.
In ciascuno degli otto racconti della seconda sezione otto donne — sette mamme e una maestra, o mamma di scuola — affrontano situazioni quotidiane banali — la spesa al mercato, un tragitto in macchina — che possono trasformarsi in una difficile impresa o addirittura in un incubo. Combattono in forme diverse le loro private battaglie per non arrendersi alla rassegnazione, alla fatica, agli sguardi giudicanti degli altri, alla tentazione di chiudersi al riparo delle mura domestiche e al desiderio di “dimettersi da sé stesse”. Attraversano la vita insieme a figli imperfetti, cercando di arginarne il dolore e la disperazione, credendo nella possibilità di aiutarli a crescere e festeggiando ogni piccola vittoria che dia l’illusione di accorciare la distanza dagli altri, i normali.
L’ultimo racconto, Primavera, riprende il titolo del volume e si chiude sulla parola “inferno”. È la storia di una mamma che progetta di festeggiare con una passeggiata l’arrivo della bella stagione. Si veste con un tailleur elegante, ci appunta perfino un mazzetto di fiori e va a prendere a scuola il figlio. Ma il bambino, nei cui occhi «c’è una storia lunga e una scintilla di sole» è spaventato dalla novità e vorrebbe rifugiarsi come al solito in macchina. Per fortuna un’altra mamma viene in soccorso, proponendo un gelato, e il compagno insiste: «Dai, sono pochi passi. […] Nel bar affollato il suo corpo complicato occupa molto spazio, ma per fortuna c’è un tavolino libero e i due bambini prendono posto: accaldati, eccitati, il lampo di primavera ce l’hanno sulle guance tutti e due». Quando il bambino sano chiede un cono e l’altro lo vuole uguale, la mamma del compagno propone una coppetta e non può fare a meno di guardare «quelle mani troppo grandi e percorse da spasmi». Lui però non cede e sua madre acconsente. Il disastro è inevitabile: del gelato «è più la parte che si squaglia via che quello che riesce a succhiare. […] Sua madre se ne accorge, cerca parole che non lo feriscano […] mentre lui si affanna con la lingua, con le labbra, con tutta la bocca. Sua madre non interviene, ma non riesce a scostarsi, a lasciarlo davvero solo: tutto il corpo è proteso nell’aiuto che sa di non dovergli dare […] Improvvisamente tutto il pistacchio è sulla manica blu del tailleur, lei dice “non fa niente”, ma la macchia è vistosa, l’altra ha occhi che significano “te l’avevo detto” […] Camminando storto suo figlio si aggrappa ancora a lei, dice piano e senza coraggio: “Era buono, mi piacciono i coni. Domani me lo ricompri?”. “Sì”, promette lei. Si stringono le mani, complici e forti. Quando salgono in macchina il contrassegno brilla nel sole: sedendosi lei stira con la mano la seta gualcita della camicetta, raddrizza il mazzolino sul bavero. Le calze sono rimaste ben tese. Fa una carezza a suo figlio, la mano è calda e la guancia intenerita dal sole. È primavera ancora, sull’asfalto e sui tetti, sui capelli e sulla pelle. È primavera nel cielo e anche — per quanto oscuro possa sembrare — all’inferno».
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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.
