«Coloro che sono più colpiti dall’oppressione possiedono la conoscenza più profonda delle sue manifestazioni, del suo impatto e delle possibili soluzioni».
Con queste parole si apre il report di Amnesty International, che getta luce su una realtà drammatica: nel continente africano, i diritti delle persone Lgbtqia+ sono sotto attacco. La situazione è allarmante: ben 31 Stati criminalizzano l’esistenza stessa di questa comunità, ma ciò che desta ancora più preoccupazione è l’uso sistematico delle leggi come strumenti di repressione.
Il rapporto analizza in dettaglio le dinamiche di oppressione in 12 Paesi — Botswana, Burundi, Eswatini, Ghana, Kenya, Malawi, Mozambico, Namibia, Tanzania, Uganda, Zambia e Zimbabwe — rivelando come la violenza e la discriminazione non siano fenomeni isolati, ma parte di una retorica alimentata da figure politiche e religiose. Un clima di ostilità crescente, in netto contrasto con i principi di uguaglianza e non discriminazione sanciti dal diritto internazionale. Frutto di un monitoraggio tra il 2022 e il 2023, il report raccoglie dati e testimonianze attraverso 39 interviste e incontri regionali. Le voci di attiviste/i e sopravvissuti/e dipingono un quadro agghiacciante: test genitali forzati, castrazioni, “verifiche” degli organi genitali e terapie di conversione sono diventati strumenti di repressione diffusi.
Sebbene il report non abbia valore statistico, offre uno sguardo potente e necessario sulle esperienze vissute e sul coraggio di chi lotta per un futuro più giusto. Un futuro in cui l’identità non sia motivo di persecuzione, ma di libertà.
La battaglia per i diritti Lgbtqia+ in Botswana è un’altalena tra conquiste storiche e battute d’arresto, un equilibrio precario tra speranza e resistenza.
Nel 2019, una sentenza rivoluzionaria dell’Alta Corte ha segnato una svolta: la criminalizzazione degli atti omosessuali tra adulti consenzienti è stata dichiarata incostituzionale, riconoscendo l’orientamento sessuale come parte integrante del concetto di “sesso” nella Costituzione. Un passo avanti epocale, subito messo in discussione dal governo, che ha cercato di ribaltare la decisione. Ma nel 2021, la Corte d’Appello ha confermato il verdetto: quelle leggi punitive erano obsolete, dannose e incompatibili con una società moderna. Sembrava l’inizio di un nuovo capitolo, ma il 2023 ha portato un colpo di scena. Proprio mentre il Parlamento si preparava a cancellare definitivamente le disposizioni discriminatorie dal Codice penale, il paese è stato travolto da una mobilitazione senza precedenti. Guidati dal pastore Pulafela Mabiletswane Siele della Evangelical Fellowships of Botswana, gruppi religiosi hanno organizzato proteste di massa, sostenendo che la riforma avrebbe “aperto le porte all’immoralità”. Il ministro della Giustizia ha giustificato il rinvio con la necessità di ulteriori consultazioni, ma per gli/le attiviste è stata una mossa calcolata per evitare lo scontro con le forze conservatrici. Dietro le quinte, il fronte anti-riforma si è dimostrato sorprendentemente organizzato: secondo un’attivista di BlackQueerDox, questi gruppi hanno lavorato nell’ombra, sfruttando il clima politico pre-elettorale per alimentare divisioni e frenare i progressi sui diritti umani. Il timore più grande? Un referendum che potrebbe ribaltare la decisione della Corte d’Appello, riportando il Botswana indietro di anni.
E le battute d’arresto non si fermano qui. Nonostante le conquiste giuridiche, il governo continua a ignorare sentenze fondamentali per i diritti di questa comunità. L’Ong WoMen Against Rape (WAR), che nel 2019 aveva accolto con entusiasmo la depenalizzazione, teme ora che le pressioni conservatrici possano far regredire il paese sui temi di uguaglianza e non discriminazione.
Un copione già visto: nel 2017, l’Alta Corte aveva riconosciuto il diritto delle persone transgender al riconoscimento legale del genere, imponendo allo Stato di adeguare i documenti di identità. Ma nel 2023, il Southern Africa Litigation Centre (SALC) ha denunciato nuovi ostacoli burocratici, segno di una resistenza istituzionale che continua a ostacolare i diritti fondamentali.
Il Botswana ha fatto passi da gigante, ma il cammino è tutt’altro che concluso. La lotta per i diritti Lgbtqia+ non è ancora vinta.
In Burundi, la discriminazione contro la comunità Lgbtqia+ non solo è una realtà quotidiana, ma viene alimentata apertamente dalle dichiarazioni omofobe del presidente Evariste Ndayishimiye. Il 1° marzo 2023, durante un incontro nazionale di preghiera, il presidente ha incitato i/le presenti a “maledire coloro che indulgono nell’omosessualità”, rafforzando la sua ferma opposizione ai matrimoni tra persone dello stesso sesso. Non è stata una sorpresa: già nel 2020, al suo insediamento, aveva definito l’omosessualità una “deviazione sociale”, arrivando persino a collegare la diffusione del Covid-19 al sostegno internazionale per i diritti Lgbtqia+. Ma le parole si sono trasformate in azioni. Il 22 febbraio 2023, a Gitega, capitale politica del Burundi, ventiquattro persone sono state arrestate per aver partecipato a un workshop sull’inclusione economica organizzato da un’associazione impegnata nella prevenzione dell’Hiv/Aids. L’accusa? “Omosessualità” e, in alcuni casi, “istigazione alla dissolutezza”. Un processo segnato da ingiustizie clamorose: due persone sono state aggiunte al fascicolo senza essere mai interrogate, e il rilascio di diciannove assolti/e è stato inspiegabilmente ritardato. Ma la vicenda ha avuto un tragico epilogo. Mevain Shurweryimana, uno degli arrestati, è morto in detenzione a causa delle sue precarie condizioni di salute, prima che il pubblico ministero firmasse i documenti per il suo rilascio.
Il contrasto è evidente e straziante: mentre il governo promuove campagne contro l’Hiv, criminalizza chi lavora per proteggere la comunità più esposta al virus. La legge che criminalizza l’omosessualità, introdotta nel 2009 sotto il presidente Pierre Nkurunziza, è stata confermata nel Codice penale del 2017 (articolo 590), perpetuando un ambiente di violenza, discriminazione e persecuzione sistematica.
Le parole di Ndayishimiye non sono semplici dichiarazioni: sono un megafono per l’odio, una legittimazione della violenza che emargina ancora di più la comunità Lgbtqia+ nel paese. Ma un governo non dovrebbe alimentare la discriminazione: dovrebbe garantire i diritti fondamentali di tutti i cittadini e le cittadine, proteggendo la libertà e la dignità di ciascuna/o.
In Eswatini, il quadro giuridico lascia le persone Lgbtqia+ in un limbo pericoloso, intrappolata tra promesse di uguaglianza e discriminazioni sistemiche. Sebbene la Costituzione garantisca formalmente l’uguaglianza di fronte alla legge, non offre alcuna protezione esplicita contro la discriminazione basata su orientamento sessuale o identità di genere. Inoltre, una vecchia legge coloniale continua a criminalizzare le relazioni omosessuali tra uomini, un’ombra legale che alimenta stigma ed esclusione sociale, anche se nella pratica non viene più applicata. Il risultato? Un clima di insicurezza e precarietà. Molte persone subiscono licenziamenti ingiustificati, rifiuto di servizi essenziali e isolamento sociale. Secondo un’indagine del 2022, solo il 10% degli/delle intervistate ritiene che la comunità sia trattata equamente, mentre la metà crede di non poter esprimersi senza il timore di discriminazioni. Ma il sistema offre ancora meno tutele alle vittime. Non esiste un meccanismo efficace per monitorare e contrastare le violazioni dei diritti, costringendo chi subisce ingiustizie a ricorrere a vie legali private — con scarse possibilità di successo. L’opposizione istituzionale è evidente nel caso dell’organizzazione Eswatini Sexual and Gender Minorities (ESGM): il governo si è rifiutato di registrarla, bloccandone di fatto le attività. Anche quando la Corte Suprema, nel 2023, ha dichiarato illegittima la decisione e ordinato una revisione, le autorità hanno semplicemente ignorato la sentenza, dimostrando una chiara volontà di ostacolare ogni progresso su tali diritti.
Le conseguenze di questa repressione si riflettono anche sulla salute. Il 67% degli uomini gay riferisce di aver subito discriminazioni nelle strutture mediche, mentre il 40% delle persone Lgbtqia+ ha raccontato di essere stato insultato/a da operatori/trici sanitarie e quasi un terzo ha visto negata l’assistenza medica. Il rifiuto dell’accesso ai servizi sanitari ha creato una crisi nella salute mentale della comunità, aggravata dalla mancanza di cure per le persone transgender che vogliono accedere ai trattamenti per l’affermazione di genere. E la polizia? Più della metà degli/delle intervistate ritiene impensabile rivolgersi alle forze dell’ordine per chiedere protezione senza rischiare discriminazioni. Il rifiuto del governo di riconoscere diritti fondamentali non è solo una violazione degli standard internazionali, ma perpetua un sistema in cui esclusione, paura e precarietà restano ancora la norma.
Il panorama dei diritti Lgbtqia+ in Africa è segnato da un intreccio di progressi giuridici e battute d’arresto, tra speranze di cambiamento e repressioni istituzionalizzate. In Botswana, la storica sentenza del 2019 ha aperto la strada alla depenalizzazione dell’omosessualità, ma l’opposizione conservatrice continua a ostacolare le riforme. In Burundi, la retorica omofoba del presidente e l’uso della legge come strumento di persecuzione hanno creato un clima di paura e discriminazione sistematica. In Eswatini, la mancata protezione giuridica e l’ostruzionismo del governo nei confronti delle organizzazioni per i diritti umani espongono la comunità Lgbtqia+ a emarginazione sociale e difficoltà di accesso ai servizi essenziali.
Questi esempi rivelano una strategia comune di repressione, dove governi e gruppi religiosi sfruttano l’intolleranza come strumento politico, spesso in contrasto con le stesse sentenze delle corti nazionali. Nonostante gli sforzi della società civile e delle organizzazioni internazionali, la lotta per l’uguaglianza rimane lontana dall’essere vinta. Il riconoscimento dei diritti fondamentali non è solo una questione di giustizia sociale, ma un test cruciale per la democrazia e lo stato di diritto nei Paesi del continente.
Qui il link per leggere il report.
In copertina: illustrazione di Dinah Rajemison
(continua)
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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.
