L’arte ha una grande responsabilità, non crea solo un linguaggio nuovo e originale, ma porta avanti il processo e le conquiste della storia, stimolando il pensiero critico, influendo su atteggiamenti e opinioni. È un mezzo quindi per educare giovani generazioni, ribaltare le percezioni convenzionali e dare nuova dignità a soggetti vittime nel passato di stereotipi. Può denunciare discriminazioni e razzismo, infrangendo le barriere razziali e smantellando le ingiustizie.
Dal Novecento in poi il panorama è vastissimo, soprattutto nel campo della Black Art, per cui vi proporrò una selezione delle figure più interessanti.
Uno dei maggiori artisti del XX secolo, Jean-Michel Basquiat (New York, 1960 –1988), tra i più importanti esponenti del graffitismo, associato al neoespressionismo, capace di passare dai muri delle strade di New York alle sale dei musei e alle gallerie più influenti, essendo afroamericano, ha vissuto in prima persona il peso della discriminazione e ha fatto dell’identità razziale il tema ricorrente nelle sue opere.

Defacement. The Death of Michael Stewart mostra due poliziotti bianchi intenti a picchiare con manganelli un uomo nero. L’opera fa riferimento a un fatto di cronaca: l’uccisione da parte di agenti della polizia la notte del 15 settembre 1983 di Michael Stewart, artista afroamericano, arrestato per aver fatto dei graffiti in una stazione della metropolitana di New York. La sua morte colpì profondamente l’artista che più volte confessò: «Avrei potuto essere io». Purtroppo questi eventi si ripetono, come è accaduto il 25 maggio del 2020 con George Floyd, afroamericano assassinato da un agente di polizia bianco a Minneapolis, arrestato per futili motivi.
Opera completamente diversa da quella di Basquiat è Michael Stewart – USA for Africa (1985) di Keith Haring (Reading, 1958 – New York, 1990) dedicata allo stesso episodio a cui fa riferimento Defacement. Questa volta Michael è nudo e sta per essere strozzato con un tubo tenuto da gigantesche mani bianche. È lo stile abituale di Haring, con figure bidimensionali, stilizzate e un vivace e luminoso cromatismo. Comune invece ai due artisti è il messaggio di solidarietà contro politiche razziste e discriminatorie. Keith Haring ha lottato con la sua arte contro ogni tipo di discriminazione: i suoi omini stilizzati senza tratti distintivi, sono privi di qualsiasi caratterizzazione, non sono né bianchi, né neri, né gialli, non sono né uomini né donne, riflettono uguaglianza e inclusione rispetto a ogni tipo di pregiudizio, razziale, sessuale o di qualsivoglia genere. Le figure, spesso rappresentate in movimento, col loro dinamismo simboleggiano la connessione tra le persone, l’importanza di un dialogo inclusivo, capace di superare differenze di genere, età, o orientamento sessuale, per una società più giusta e solidale.


Nella serie di venti quadri dal titolo American People Faith Ringgold (Harlem, 1930 – Englewood, 2024) mescola post-Cubismo, Pop Art e tradizione africana. L’artista, cresciuta ad Harlem, ha rappresentato con crudezza le problematiche relazioni interrazziali del tempo. Il più famoso dipinto della serie è Die (1967), in cui Ringgold descrive esplicitamente le rivolte e le violenze di quegli anni, raffigura un gruppo di persone in atteggiamenti di violenza e paura, ferite o schizzate di sangue. Nonostante i primi successi, il movimento per i diritti civili negli anni ’60 perse fiducia e ottimismo e assistette a ondate di violenza contro le comunità nere.

Carrie Mae Weems (Portland, 1953) impiega mezzi diversi, come fotografie, testo, tessuto, immagini digitali, installazioni, audio e video, per affermare l’identità razziale. Il suo lavoro rende giustizia a tante persone le cui storie sono state ignorate. Con From Here I Saw What Happened and I Cried (1995-96) Weems ha raccolto fotografie di persone schiavizzate da archivi di musei e università, abbinando a queste immagini testi potenti.

Molteplici sono anche i mezzi che usa Kerry James Marshall (Birmingham, 1955), come collage, graffiti e pittura, in potenti tele che sfidano gli stereotipi razziali. È diventato l’artista vivente nero più costoso nel 2018, quando il suo dipinto Past Times (1997) è stato venduto per 21,1 milioni di dollari da Sotheby’s. Rappresenta afroamericani che si divertono con attività ricreative, tra cui sci acquatico, croquet e golf. In primo piano alcuni soggetti stanno facendo un picnic. Sullo sfondo si vedono torri simili a quelle che si trovano nelle case popolari.

Kara Walker (Stockton, 1969) crea delle silhouettes su carta nera poste su una parete bianca, con le quali racconta la violenza della società segregazionista, la schiavitù, le ingiustizie, le torture, gli stupri dell’epoca coloniale, in particolare la sofferenza delle donne. Poco prima della chiusura definitiva della mitica fabbrica di zucchero di Brooklyn, Domino Sugar Factory ospitò una possente installazione di Kara Walker composta da una serie di sculture in zucchero, tra cui un’enorme figura di Mammy, omaggio alle donne di colore sfruttate e sottopagate nella raccolta e lavorazione della canna da zucchero.

Paladina dell’arte afroamericana e del femminismo, Mickalene Thomas (Camden, 1971) realizza sensuali e orgogliosi ritratti di donne nere, attraverso una combinazione di elementi disparati, assemblaggi, collage, ritagli di giornali, attraversati da pennellate, smalti e strass scintillanti in opere di dimensioni notevoli. Scopertasi omosessuale, la sua attenzione punta senza altre distrazioni sul corpo delle donne afroamericane che nelle sue opere appaiono come modelle, e assumono pose dignitose o provocatorie.


Kehinde Wiley (Los Angeles, 1977) è noto per i suoi ritratti di afroamericani che riprendono pose e stili classici. Una delle sue opere più celebri è Napoleon leading the army over the Alps (2005), ispirata al dipinto di Jacques-Louis David, dove l’artista sostituisce Napoleone con un giovane nero vestito con abbigliamento contemporaneo. Nel 2017 è stato incaricato di dipingere il ritratto ufficiale del Presidente Obama, primo artista nero a dipingere un ritratto presidenziale ufficiale. Il ritratto della first lady Michelle è opera di Amy Sherald (Columbus, 1973).


La nostra epoca contemporanea, più attenta rispetto al passato ai diritti delle minoranze, ha dato la possibilità a voci finora nascoste di raccontare la loro storia e la loro visione del mondo. Oggi, ufficialmente riconosciuti, molti artisti neri sono entrati nelle gallerie più importanti e vendono a quotazioni alte nelle aste le loro opere. Ma come dimenticare altre “diversità”, i nativi americani o gli aborigeni australiani?
Tra le figure influenti che hanno difeso i diritti dei nativi c’è sicuramente Jaune Quick-to-See (St. Ignatius, riserva confederata Salish e Kootenai, 1940), colonna portante dell’arte indigena americana. Le sue opere sono intrise di un simbolismo personale e politico. In State Names (2000) la vernice che cola e i ritagli di giornale oscurano una mappa del Nord America, eclissando parzialmente il passato mentre evidenziano le ingiustizie subite dai nativi americani nel corso della storia perché gli unici nomi rimasti visibili sulla mappa sono quelli che derivano da parole indigene. L’artista esprime così la sua rabbia per il fatto che le terre del paese sono state occupate e divise senza riguardo per le antiche comunità native.

Dall’altro lato del mondo, tra gli aborigeni australiani, Bella Kelly (Mount Barker, 1915 – Perth, 1994), pur lavorando come domestica e come bracciante agricola, ha dipinto per tutta la vita. I suoi dipinti raffigurano per lo più le Stirling Ranges, lunga e alta catena montuosa nella Great Southern, regione dove è nata Kelly. Il suo stile è naturalistico, la sua tavolozza luminosa. Di solito dipingeva in casa, attingendo dalla sua conoscenza e dal suo amore per quel paesaggio. Dipingeva per sfuggire alle pressioni sociali e politiche del suo tempo, che le hanno addirittura sottratto i figli. Ricostruì il rapporto con loro solo quando questi raggiunsero l’età adulta e l’aiutarono ad esporre i suoi lavori.

Continua a vivere nel suo paese natio Jessie Beasley (Wutunugurra, 1958), nota per le sue illustrazioni della variegata flora della regione. «I miei dipinti provengono da mia madre. Lei mi ha insegnato i cibi, la medicina della savana». Il suo lavoro è notevole per le raffigurazioni dettagliate delle erbe mediche della savana, la sua tavolozza riflette i cambiamenti stagionali, i rosa tenui e gli azzurri dominano i paesaggi primaverili, mentre i gialli e i marroni riflettono le stagioni invernali.

In copertina: Mama Bush, One of a Kind Two, 2009 di Mickalene Thomas. Mostra una donna nuda, che è la madre stessa dell’artista, Sandra Bush, nota modella, in una composizione che ricorda il capolavoro di Ingres, Odalisque.
***
Articolo di Livia Capasso

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte nei licei fino al pensionamento. Accostatasi a tematiche femministe, è tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile. Ha scritto Le maestre dell’arte, uno studio sull’arte fatta dalle donne dalla preistoria ai nostri giorni e curato La presenza femminile nelle arti minori, ne Le Storie di Toponomastica femminile.
