Bologna, gennaio 1943.
Il cielo sopra Bologna era grigio, come lo era spesso in quei giorni che odoravano di guerra. La città viveva sospesa tra i rintocchi delle campane e gli echi lontani degli aerei militari, ma sotto il lungo portico che sale verso la Basilica di San Luca il tempo sembrava rallentare. Giuseppina, chiamata affettuosamente Pina dai genitori, dal suo amatissimo fratello e dalle sue quattro sorelle, teneva stretto lo scialle attorno alle spalle e camminava piano, come faceva ogni domenica per andare a Messa. Ogni passo era un modo per dimenticare, anche solo per un momento, le notti passate nei primi improvvisati rifugi, i primi razionamenti, le notizie che arrivavano frammentate alla radio. All’altezza dell’arco del Meloncello un giovane uomo si fermò per farla passare. Era alto, bello, con la giacca militare sbottonata e un berretto che teneva in mano quasi con rispetto, aveva lo sguardo pulito, di quelli che sembrano cercare qualcosa tra le rughe del mondo.
«Permette, signorì?» chiese, con un accento romano appena accennato, come chi si è allontanato ma non ha mai dimenticato casa. Pina lo guardò con un filo di diffidenza — era prudente da quando il mondo aveva smesso di essere sicuro — ma rispose con un cenno del capo.
Poi aggiunse, con tono curioso: «Lei non mi sembra uno che va a pregare!».
Lui sorrise e le disse: «E lei non sembra una che ha paura della guerra!»
«Forse perché ci sto facendo l’abitudine», rispose pronta Pina.
«Comunque, io sono Ugo» riprese lui, tendendole la mano.
«Giuseppina» rispose lei, stringendogliela con un guanto sottile che profumava di sapone di Marsiglia. Per qualche secondo rimasero lì, fermi sotto l’arco, come se il portico li avesse protetti da tutto il resto. Il mondo poteva anche bruciare ma in quel preciso istante, tra un passo e l’altro, Bologna aveva regalato loro un rifugio.
Fu lui a rompere il silenzio. «Posso accompagnarla?».
Lei lo guardò, scrutandolo attentamente, poi annuì e disse decisa: «Ma solo fino alla prossima curva, non vorrei che qualcuno pensasse male».
Camminarono insieme, fianco a fianco, lei parlava del fratello al fronte, lui della sua libera uscita dalla leva forzata. Nessuno dei due lo disse, ma entrambi avevano capito di essere stanchi di sentirsi soli e quando si salutarono, proprio dove il portico si apre per un istante alla vista della città, Ugo le disse piano: «Se vengo domenica prossima, ci sarà ancora?».
Pina non rispose subito, guardò giù, verso la distesa rossa dei tetti, poi tornò a fissarlo e disse: «Forse sì, ma solo se non porta quel berretto ridicolo». Lui rise e Bologna, per un attimo, sembrò ridere con lui.
Bologna, aprile 1945.
La città, seppur segnata dalla guerra, conserva ancora quella sua antica bellezza, come un vecchio tappeto che, nonostante l’usura, non perde mai il suo fascino. In uno di quei vicoli vicino alla Chiesa di Santo Stefano, dove il rumore delle bombe sembra lontano ma mai abbastanza da non sentirne l’eco nei cuori di chi resiste, vive adesso Pina, che porta nei suoi occhi il peso di un mondo che sta cambiando. Ugo, che ora è suo marito, è disperso da ormai più di quattro mesi, dato per morto, eppure ogni mattina la donna si sveglia con la speranza che quella volta, forse, la notizia che l’ha separata dal suo amore non sarà mai stata vera. I suoi due bambini piccolissimi, Gianni e Giuliana, sono il suo rifugio e la sua ragione di vita, la casa dove vivono è piccola ma accogliente, con il tipico pavimento in cotto bolognese e i muri che, seppur vecchi, custodiscono segreti di famiglia. Ogni angolo racconta una storia: la cucina con il profumo del pane che cuoce nel forno a legna, la stanza dei bambini con i disegni colorati sulle pareti e il vecchio mobile ereditato dai nonni. La città, anche se devastata dalla guerra, ha un’anima che resiste, proprio come Pina. Le sue giornate sono scandite dalla routine della sopravvivenza e ogni mattina, dopo aver preparato i bambini per la scuola, si dirige al mercato di Porta delle Lame dove si specchia nei volti delle donne che, come il suo, sono segnati dalla fatica e dalla paura del futuro, ma non manca mai una risata o una parola gentile scambiata tra i banchi del verduraio. Dietro la sua calma apparente Pina è una donna che lotta per mantenere la normalità, per proteggere i suoi figli, per tenere viva la speranza che il marito ritorni, ma le notizie sul fronte sono poche e frammentarie.
Ogni tanto arrivano lettere, notizie che si rivelano sempre incomplete, l’unica certezza è che Ugo è stato dichiarato disperso ma lei non riesce a credere che possa essere morto e, nonostante tutto, ogni sera lascia un piatto caldo per lui, un piccolo segno di attesa, come se suo marito potesse entrare dalla porta da un momento all’altro.
Bologna, con le sue torri medievali e le strade che si intrecciano come vene di un organismo vivo, è una città che non ha mai smesso di respirare. Quasi tutte le botteghe del centro sono chiuse ma la gente continua comunque a camminare per le strade silenziose e il rumore dei passi diventa l’unico suono che riempie l’aria rarefatta di un tempo sospeso.
In una tersa mattina di inizio aprile, Pina si trova sulla strada per il mercato quando nota una nuova cicatrice sul volto della città. Piazza Maggiore, il cuore pulsante di Bologna, è parzialmente danneggiata e la facciata della basilica di San Petronio, quel simbolo imponente, ha una crepa che la attraversa come un segno indelebile. La grande piazza, solitamente affollata da mercanti e visitatori, è ora deserta, sebbene il rumore di qualche tacchettio risuoni ancora tra le colonne dei portici. Pina, camminando con passo veloce, si ferma solo un momento davanti alla biblioteca Salaborsa, inaugurata nel 1926, uno degli edifici più significativi del centro storico, simbolo di cultura e di sapere. I suoi muri sono spaccati ma i libri all’interno sono miracolosamente rimasti intatti e la donna si chiede spesso come sarebbe stato un mondo senza quei libri, senza quelle letture che tanto l’avevano affascinata prima della guerra e si consola pensando che, nonostante la devastazione, Bologna ha qualcosa di eterno e che le sue mura, i suoi portici, la sua gente sono destinati ad essere indistruttibili come il suo cuore, che batte forte nonostante tutto. I giorni passano, e con loro anche le stagioni. La primavera porta un po’ di sollievo al corpo ma non all’anima, Pina guarda spesso fuori dalla finestra verso le colline verdi che circondano la città e là, tra la nebbia della guerra e il verde dei campi, sogna di rivedere il suo Ugo. Ogni notte, prima di addormentarsi, tiene ancora la sua fotografia tra le mani, come se fosse possibile comunicare con lui attraverso la sua immagine. La guerra sembra essere ormai a un punto di non ritorno e le comunicazioni si fanno sempre più difficili, ma la donna non perde la speranza. «Ugo tornerà» si ripete ogni giorno, «queste cose una moglie le sente».
Un paio di settimane dopo, mentre è al mercato, un uomo le si avvicina. Ha la barba lunga, le mani piene di segni di fatica e un cappotto troppo largo per lui, porta dei grandi occhiali da sole che gli coprono parte del volto ma la voce risuona familiare. Pina lo guarda ma non capisce subito, poi lui le sorride, un sorriso che le fa battere forte il cuore.
«Permette, signorì?» e la sua voce è come un sussurro che arriva da lontano.
Per un attimo il mondo si ferma, la donna non crede ai suoi occhi perché il marito, dato per morto, ora è lì davanti a lei. Non riesce a parlare, le parole le si strozzano in gola ma Ugo la prende per mano e in un bacio silenzioso si ritrovano come se non fosse passato un solo minuto da quando erano stati costretti a separarsi, la guerra li ha allontanati ma non ha mai spezzato il legame che li univa. Il ritorno del marito cambia tutto, la loro casa si riempie di luce, di risate e di nuovi progetti. La guerra non è ancora finita ma per la prima volta, dopo tanto tempo, Pina sente di avere un motivo in più per sperare. Ugo è cambiato, come tutti quelli che sono tornati dal fronte, ma l’amore che li lega è più forte di qualsiasi trauma. La città stessa comincia a rifiorire lentamente: anche se piazza Santo Stefano, un altro dei luoghi simbolo di Bologna, è stata quasi interamente risparmiata dai bombardamenti, la guerra ha lasciato il suo segno in ogni angolo della città. Le macerie del centro, le strade di via Rizzoli e via Indipendenza, i luoghi che Pina aveva attraversato ogni giorno nella speranza di una notizia, ora tornano lentamente a riempirsi di vita. I negozi riaprono, la gente riprende a camminare a frotte sotto i portici come se nulla fosse cambiato, ma in realtà tutto è cambiato. Ogni passo in queste strade è un atto di resistenza, un atto di speranza e anche il Parco della Montagnola, un angolo verde che Pina amava frequentare con Gianni e Giuliana nei rari momenti di requie dai bombardamenti, ora è tornato ad accoglierli e comincia a fiorire di nuovo, con le panchine occupate dalle vecchie signore che parlano della guerra, dei sacrifici e dei sogni di un futuro migliore. Mentre le forze alleate continuano ad avanzare e la guerra sembra finalmente avviarsi alla fine, Bologna si risveglia lentamente dal suo incubo e per Pina, Ugo e per i loro figli c’è un nuovo inizio che si sta facendo strada: anche se il passato non si può cancellare, ogni giorno è una nuova occasione per ricostruire, per ridare vita alla città e alla propria famiglia. Il silenzio di Bologna, che per anni è stato interrotto dai bombardamenti e dal rumore delle armi, ora sembra cedere il passo a un futuro incerto ma possibile e Pina, con la sua forza, con i suoi sogni e con la sua speranza, sa che il viaggio non è ancora finito. La guerra ha cambiato tutto, ma l’amore e la volontà di ricostruire rimangono, come il tessuto che tiene insieme la trama della sua vita.
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Articolo di Serena Del Vecchio

Laureata in Giurisprudenza e specializzata nel sostegno didattico a studenti con disabilità della scuola secondaria di secondo grado, è stata a lungo docente di diritto ed economia e da più di dieci anni svolge con passione la professione di insegnante di sostegno. Sposata e madre di tre figli (tutti maschi!), ama cantare, leggere e andare al cinema, dividendosi fra Roma, dov’è nata, e la Valle d’Aosta, dove vive e lavora.
