Leggendo Donna si nasce di Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo e Gravidanza per altre persone di Eva Benelli comincio con una confidenza — questa più che una recensione è un parlar a voce alta, cercando un filo nelle mie idee — e con alcune domande:
Il desiderio di avere un figlio/a è di per sé un diritto?
È il benessere del figlio/a al centro del rapporto tra genitori e figli o quello della madre? O del padre?
Ciò che è naturale — qualunque cosa ciò voglia dire e su questo faremo qualche considerazione in seguito — è di per sé morale?
Che tipo di soggettività vogliamo costruire per il futuro?
Non ho la risposta, ovviamente, ma credo che anche a queste interrogazioni vada ricondotta una riflessione necessaria, ragionata e serena sul tema della Gpa (Gravidanza per altre persone). Una riflessione che, nel sostenere o nel rifiutare queste tecniche, distingua il piano dell’indagine circa la sua legittimità teorica da quello delle condizioni effettive in cui essa è attualmente praticata nel mondo: condizioni non assolute, ma evidentemente modificabili. Ma quanto, nell’attuale contesto storico, sono veramente modificabili?
Proverò qui a riassumere il ragionamento di queste autrici.

Il taglio dei due libri è differente: Cavarero e Guaraldo affrontano il tema della maternità surrogata all’interno di un lavoro più ampio, scritto in maniera molto agile e diretto in generale alle donne, in particolare alle ragazze, alle quali più volte si rivolgono apertamente. Le due autrici riflettono sull’identità femminile, sui temi della differenza sessuale, sulla relazione tra sesso e genere, sui diritti conquistati (non del tutto, non dovunque e spesso solo teoricamente), sulla “svista” della falsa logica universalistica e dell’importanza di costruire un nuovo ordine simbolico femminile; la questione della Gpa è discussa nell’ultimo capitolo del libro.
Eva Benelli fa un lavoro di chiarificazione dei termini della questione: ricostruisce rapidamente la storia delle tecniche che hanno reso possibile la Gpa; contesta, con considerazioni storiche e filosofiche, il “mito della famiglia naturale”; apre a considerazioni di taglio antropologico; studia, con i pochi dati statistici di cui disponiamo e della cui scarsità giustamente si lamenta — carenza anch’essa sintomo della sottovalutazione del problema — le condizioni che portano le persone a ricorrere a queste tecniche (cioè il cambiamento delle situazioni economiche, sociali; del lavoro per cui si ritarda il momento della maternità, ci si appoggia alle/ai nonni…) e conclude con una panoramica dettagliata della legislazione italiana relativa alla Gpa e, più in generale, alle legge 40, evidenziandone i limiti, le difformità rispetto a legislazioni di altri Paesi (della cattolicissima Irlanda per esempio), il persistere di disuguaglianze territoriali ed economiche e culturali.

Prima di procedere con le considerazioni, faccio innanzitutto un po’ di chiarezza lessicale. È evidente che parlare di utero in affitto, di maternità surrogata o di gravidanza per altre persone non è la stessa cosa. Nettamente dispregiativa la prima locuzione, velatamente critica la seconda, più neutra la terza. Ma, dunque, si deve parlare di maternità o di genitorialità? E cosa si nasconde dietro questo termine? Nell’uso del termine genitorialità, Cavarero e Guaraldo intravedono il rischio di una nuova esclusione delle donne, un escamotage per metterle in ombra, per ribadire, attraverso l’uso di un diverso universale falsamente neutro, il predominio del padre. Al contrario «parlare di diritto alla maternità ha il difetto di rafforzare un privilegio biologico delle donne, ovvero quel privilegio di generare che la natura conferisce solo ai corpi femminili» (p.175). Con questa locuzione avremmo una diminuzione del ruolo della madre, un farci ritornare ancor più nell’ombra oppure un cambiamento del ruolo del padre rispetto al passato, un suo aprirsi a una dimensione affettiva, storicamente fino ad ora trascurata?
Non è dunque neutro l’utilizzo di una o di un’altra locuzione. Ma, chiarito questo, in che modo le autrici si pongono di fronte alla questione?

Nel presentarvi il libro di Eva Benelli comincio dall’ultimo capitolo: si può parlare, a proposito della legge approvata il 16 ottobre 2024, di reato universale per la Gpa, anche nel caso in cui un cittadino italiano svolga tale pratica all’estero? Di fatto no, è una misura che ha solo un valore simbolico e non pratico per almeno due motivi: innanzitutto in Italia questa pratica era già vietata dall’articolo 12, comma 6, della Legge 40/2004 e, in secondo luogo, essa è ormai regolamentata da molti Paesi.
A vantaggio di chi è la Gpa? Eva Benelli contesta innanzitutto la rappresentazione della Gpa come di un’esperienza esclusivamente commerciale e di sfruttamento nei riguardi di donne povere a favore di persone e/o coppie benestanti. Indubbiamente ci sono stati e ci sono abusi e coercizioni e questi vanno non solo condannati ma impediti: proprio per questo servono leggi, la cui mancanza favorisce e non elimina illegalità, sfruttamento, disuguaglianze. Perché non regolamentare allora la donazione dei gameti in analogia con quanto avviene per la donazione del sangue e degli organi, sulla quale esiste già la Direttiva europea 2004/23/CE (111)?
Sul piano fattuale, invece, l’impostazione di Cavarero e Guaraldo è del tutto diversa: le autrici sottolineano quanto sia grave lo sfruttamento di donne, spesso cittadine di Paesi poveri e in condizioni di gravi difficoltà personali, a vantaggio di persone più benestanti e tutelate. E soprattutto a vantaggio di agenzie — espressione di un mercato biocapitalistico globale — che lucrano sulla Gpa e su tutto quanto gravita intorno alle tecniche di Pma (Procreazione medicalmente assistita), ad esempio la donazione di ovuli. Mi sembra, dunque, che queste autrici si muovano sul piano della realtà presente, laddove Benelli esplora una dimensione progettuale non ancora realizzata ma che ritiene possibile.
Esiste la Gpa solidale o è una contraddizione (Eugenia M. Roccella)? Le donne sono veramente libere di scegliere? Anche su questo tema le posizioni divergono.
Secondo Cavarero e Guaraldo, anche la maternità surrogata solidale è un “inganno”. Che in passato sia capitato che una donna abbia donato il suo bimbo a un’altra non lo negano: «Fino a poco tempo fa, quando di figli se ne facevano tanti, soprattutto nelle nostre campagne, il fenomeno non aveva particolari tratti di drammaticità» (p.168). Ma nel contesto attuale, di mercato, questa pratica appare alle autrici un argomento capzioso per contrattualizzare pratiche commerciali.
E poi le donne sono libere di scegliere? La loro risposta è negativa: le donne che si prestano a portare avanti la gravidanza, proprio per le condizioni in cui vivono e che abbiamo sintetizzato sopra, non possono essere considerate libere di scegliere. Più in generale, che una donna possa liberamente e autonomamente decidere di prestarsi a tali pratiche in quanto dispone «liberamente del proprio corpo» (p. 172), viene negato ricordando che i contratti impongono la consegna del prodotto e, quindi, la donna gestatrice non può abortire se ci ripensa. È una contraddizione dare liberamente il controllo del proprio corpo ad altre per nove mesi. E citano la Corte costituzionale italiana che parla di «mercificazione del corpo» (p. 174).
Eva Benelli si chiede, invece, perché negare a priori la possibilità che una donna possa scegliere liberamente di prestarsi a portare avanti una gravidanza in forma altruistica. Perché escludere a priori la possibilità di una scelta autonoma da parte della donna? Abbiamo sempre bisogno di essere indirizzate e tutelate da qualcuno o da un’istituzione? Ci sono dunque diversi gradi di libertà e autonomia a seconda delle persone?
Si sofferma poi sulle ragioni che spingono alcune donne ad accettare di portare avanti una gravidanza per altre: su questo argomento esistono ormai numerose ricerche di psicologia, di antropologia (citate e riassunte nel testo) che hanno studiato sia l’esperienza delle gestanti, analizzando le motivazioni che le hanno portate a fare questa scelta e i loro vissuti, sia l’esperienza di giovani nati/e in questo modo e sul loro benessere. Ricerche da cui risulta che «l’assenza di una relazione biologica tra i figli e i genitori non interferisce con il benessere psicologico delle madri o dei giovani adulti o con la qualità delle relazioni familiari» (pp. 128-129.).
Un altro punto cruciale della discussione è: cosa è naturale? Cosa non lo è? E ciò che è naturale è coincidente con ciò che è morale e buono? Perché una delle obiezioni ricorrenti contro la Gpa e, in generale, contro le tecniche di Pma è che esse si contrappongono a ciò che è naturale e per ciò stesso buono.
La risposta di Eva Benelli si colloca su due piani: il primo consiste in un’analisi dei cambiamenti sociologici ed economici della nostra società. Per le donne è molto spesso difficile, se non impossibile, conciliare maternità e lavoro (vista anche la persistente divisione dei ruoli): spesso per ragioni lavorative, appunto, o per la necessità di assistere un familiare anziano (di nuovo compito lasciato quasi sempre alle donne) si rimanda nel tempo la maternità. In secondo luogo, l’autrice considera il tasso di infertilità, che tende, con il passare degli anni, a crescere sia tra le donne che tra gli uomini. E allora — poiché esistono tecniche che permettono di aggirare tali limiti (penso alla crioconservazione) — perché non approfittarne? Perché sono artificiali, artefatte o non naturali? Lo sono, però, anche le trasfusioni, il trapianto di organi, i pacemaker. Come osserva Jonathan Bazzi «sistematicamente interveniamo, quando questa produce malattia o violenza. […] la natura è spesso matrigna, e la legge, la medicina, la scienza hanno da sempre lo scopo di umanizzare il rapporto tra le persone e il mondo».
Per quanto riguarda la famiglia naturale (per inciso le tecniche di Pma e Gpa riguardano, nella stragrande maggioranza, casi di coppie eterosessuali), Benelli osserva, con il filosofo Mariano Croce, che la famiglia nucleare, monogamica, fondata su legami di sangue, è l’espressione, molto più recente di quanto comunemente si creda, di un ben definito contesto storico e culturale. E, rifacendosi a studi di D. M. Scheider, sostiene che furono alcuni studiosi del XIX secolo — Jonathan Bachofen e Lewis Henry Morgan, tra gli altri — ad avanzare la tesi della famiglia nucleare, costituita da un padre, una madre e la loro prole come cellula primaria della società.
«Perché sottrarre alla società civile la possibilità di confrontarsi sui nuovi modelli di genitorialità resi possibili dall’evolvere delle tecniche di riproduzione medicalmente assistita cui anche la GPA appartiene?» (qui il link di Eva Benelli all’articolo completo).
Michela Murgia osserva in Dare la vita (Milano, Rizzoli, 2024) che le lotte femministe hanno costretto la società «a ripensare la maternità fino a definire madre solo quella che accetta di esserlo, trasformando in scelta individuale quello che era un destino collettivo» (p. 87). Recenti studi di neuroscienze negano l’esistenza di una vera diversità tra uomini e donne nei comportamenti di cura verso bambini e bambine e hanno, inoltre, dimostrato come ci siano cambiamenti ormonali anche nei padri quando questi cominciano a occuparsi dei propri figli neonati. Insomma, se anche i padri «sono stati finora un po’ vittime di quella divisione dei ruoli che, abbiamo visto, è culturale non naturale» (p. 75), non ci troviamo oggi di fronte alla possibilità di ridefinire la genitorialità e la soggettività a favore di un’esperienza non chiusa e rigida, ma aperta all’ascolto e all’empatia? È interessante a questo proposito riportare l’opinione di un uomo, che ha avuto figli con la Gpa e scrive: «siccome la cura dei figli è solo femminile, il padre, incapace di fare qualunque cosa, è inutile e può anche disinteressarsi… qui sono le radici del maschilismo, del rapporto distorto tra i generi» (p.123). Questa è una opinione stimolante sulla quale ritengo sia opportuno riflettere. Non potrebbe essere questa un’occasione anche per il maschio per ridefinire il suo paradigma, inserendovi — come orizzonte fondante dell’umano — l’esperienza della nascita, anziché quella della morte, come è sempre stato nella filosofia occidentale?
Al contrario, Cavarero e Guaraldo sottolineano che queste tecniche portano a una frammentazione e alla medicalizzazione della maternità; è possibile e non infrequente che ci siano tre madri: una donatrice di ovuli, una gestante, una intenzionale. Non solo le pratiche a cui sono sottoposte (per la produzione e il prelievo di ovuli) sono invasive per le donne, ma la conseguenza è che la donna viene ridotta a un utero: si ha la rivalutazione del padre genetico che, quasi sempre, è anche il padre intenzionale. Dunque, la sua figura di padre ne esce perfino rafforzata.
Per quanto riguarda il libro di Benelli segnalo altri due aspetti. Il primo è l’ampio spazio dedicato all’analisi delle posizioni che la Chiesa Cattolica ha espresso nella Dichiarazione Dignitas infinita circa la dignità umana, del 2024: l’autrice non contesta le ragioni teologiche e di fede ma le discute, secondo quello che definisce «un approccio laico nelle persone di fede», soprattutto riguardo la ripetuta posizione della Chiesa, secondo la quale la Gpa nega la dignità della donna e del nascituro/a. Alle opinioni della Chiesa cattolica giustappone le riflessioni contenute in un documento del 2023, La gestazione per altri, una prospettiva etico-teologica delle Chiese Evangeliche italiane.
Un’altra parte rilevante del volume è dedicata allo studio delle legislazioni di diversi Paesi, diversissime tra loro, come l’India, l’Irlanda, la Spagna, la Gran Bretagna e altri. Ampia l’analisi della legge italiana n.40, della sua applicazione, delle marcate disuguaglianze che esistono tra le regioni, ma anche dei limiti posti alle trascrizioni anagrafiche, che limitano non il ricorso alle Pma o alla Gpa quanto i diritti di bambine/i già nati, senza alcun rispetto per le loro esigenze affettive.
Rimane misterioso e poco argomentato per me, madre adottiva di due figli ormai grandi, il definire la proposta delle adozioni, come alternativa alla Gpa, crudele, in quanto «l’interesse etico prioritario dovrebbe essere quello di rimediare all’impossibilità di crescere con i propri genitori e non una soluzione di riserva» (p.156) per chi non può avere figli. Eppure, anche nella Gpa l’interesse del nascituro/a dovrebbe essere in primo piano, così come nell’adozione c’è un desiderio di genitorialità.
Dal punto di vista teorico poi Cavarero e Guaraldo avanzano alcune obiezioni significative cui accenno sommariamente.
Viviamo in una cultura dell’Illimitato, in cui si ritiene che non debbano esserci vincoli alla libertà dell’individuo. Ma è giusto così? Non dobbiamo invece riconoscere la fragilità, la vulnerabilità, la mancanza che caratterizzano ogni essere umano e quindi il limite, la frattura che — se ben intesa — ci apre all’altro? «Il femminismo della differenza sessuale afferma che ciascun essere umano, nella sua concreta singolarità incarnata, nella contingenza di essere così e non altrimenti, ha dei limiti» (p. 174): ci sono donne che vogliono figli, altre che non li vogliono e altre non possono averli, pur volendoli, e se, il desiderio incontra dei limiti, «il problema è appunto non scambiarlo per un diritto» (p. 175).
C’è poi un argomento che è, a mio parere, alla base della posizione di Cavarero e Guaraldo. Le autrici rivendicano l’idea della differenza sessuale — dato biologico e fatto inoppugnabile — e l’essere, tutte e tutti, nati da una donna. Specificità rimossa dalla nostra cultura: Luce Irigaray parla di una «rimozione del materno» che ha origine in Platone, espressa nel mito della caverna, metafora non troppo nascosta dell’utero e luogo di ombre e opinioni superficiali; solo uscendo da essa l’umanità può guardare verso l’alto, verso il Sole/Bene e guadagnare capacità di pensiero razionale. La donna è invece schiacciata sulla Natura che, nella tradizione occidentale, è intesa come il regno dell’animalità e della necessità (ogni giorno il sole sorge e tramonta ineluttabilmente). Il sesso femminile, come la natura tutta, è risucchiato nella funzione animale del generare. Al «sesso che non genera, ossia che svincola dall’animalità» (p. 20) spetta il compito di rappresentare l’umano in senso pieno.
Ritornando, dunque, alle radici della nostra società, «la cultura patriarcale […] è caratterizzata da un ordine simbolico nel quale il fatto della differenza sessuale viene significato come naturale superiorità, preminenza, predominio degli uomini sulle donne» (p.18).
Con la riappropriazione e valorizzazione della corporeità, alla maternità è consegnata un’occasione impareggiabile. Alle donne e al loro essere tutte potenzialmente madri Cavarero e Guaraldo affidano la possibilità di rovesciare l’ordine simbolico patriarcale e di istituire un legame con la Natura, non di dominio e sfruttamento, ma di armonioso rispetto. E questo fonda la centralità dell’esperienza della maternità naturale nel loro pensiero.
In sintesi? Rileggo e confermo che questa non è una recensione ma solo un tentativo, molto incerto, di mettere ordine tra tante idee, che rimangono confuse… Dobbiamo tutte pensarci. Insieme.



Adriana Cavarero, Olivia Guaraldo
Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa)
Frecce Mondadori, Milano, 2024
pp. 216
Eva Benelli
Gravidanza per altre persone. Tra disinformazione, discriminazioni e diritti negati
Bollati Boringhieri, Torino, 2024
pp. 176
Michela Murgia
Dare la vita
Rizzoli, Milano, 2024
pp. 128
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Articolo di Angela Scozzafava

Si è laureata in filosofia della scienza con il prof. Vittorio Somenzi e ha conseguito il Diploma di perfezionamento in filosofia. Ha insegnato — forse bene, sicuramente con passione — in alcuni licei. Ha lavorato nella Scuola in ospedale, ed è stata supevisora di Scienze Umane presso la SSIS Lazio. Attualmente collabora con la Società Filosofica Romana; scrive talvolta articoli e biografie; canta in cori amatoriali e ama i gatti.
