A rischio di estinzione. Ultima parte

Siamo giunte/i al termine del report di Amnesty International A rischio d’estinzione. Omobitransfobia e leggi anti-Lgbtqia+ in Africa ed è il momento di tirare le somme di quanto abbiamo approfondito nelle scorse settimane.

In un mondo che si dichiara sempre più attento ai diritti umani, è doloroso constatare che in 31 Paesi africani e 61 nel mondo l’amore tra persone dello stesso sesso è ancora un crimine. Una realtà che divide famiglie e nega a milioni di persone il diritto di essere semplicemente se stesse. Eppure, i grandi pilastri del diritto internazionale parlano chiaro: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani difende la privacy e l’autonomia personale, mentre il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici tutela la libertà di espressione e il diritto a non essere discriminate/i. Anche la storica sentenza Toonen v. Australia ha affermato con determinazione che gli Stati devono proteggere ogni individuo, anche — e soprattutto — in base al proprio orientamento sessuale.

Anche il continente africano ha compiuto passi importanti. La sua Carta dei Diritti Umani e dei Popoli (approvata nel 1981) proclama con fermezza che nessuno deve essere discriminato, e la Commissione africana ha chiarito che questo vale anche per tutte le comunità. Con la Risoluzione 275, è stato affermato un principio inequivocabile: l’amore non è un reato; infatti, afferma che la violenza e la discriminazione legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere — reale o presunta — così come le persecuzioni verso chi lavora su queste tematiche, rappresentano una violazione degli articoli 2, 3, 4 e 5 della Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli. Ma la discriminazione non è solo una questione di leggi: è un solco che attraversa il tessuto stesso delle nostre società. Per le persone della comunità Lgbtqia+, il peso della stigmatizzazione sociale non si limita all’esclusione: significa isolamento, dolore, insicurezza, negazione dell’accesso ai diritti più fondamentali — salute, giustizia, dignità. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e la Carta Africana dei Diritti Umani e dei Popoli lo dicono in maniera inequivocabile: ogni essere umano ha diritto al rispetto, alla libertà, alla sicurezza e alla dignità, indipendentemente dall’identità di genere o dall’orientamento sessuale. Eppure, come abbiamo letto nel rapporto, in troppi Paesi queste parole restano sulla carta. I pregiudizi radicati generano violenze, discriminazioni sistemiche e una giustizia che spesso distoglie volutamente l’attenzione.

Le aggressioni, l’odio, le pene inumane e degradanti sono lesioni profonde dei valori universali che dovrebbero proteggerci e tutelarci. Il diritto alla vita, alla salute, alla protezione davanti alla legge — sanciti nei trattati internazionali — viene spesso negato, lasciando le persone della comunità Lgbtqia+ invisibili e indifese. E il prezzo di questa indifferenza è altissimo: chi ha bisogno di cure mediche si trova a lottare contro medici giudicanti o servizi inesistenti, inefficaci, le cui barriere dello stigma sociale allontano sempre di più l’accesso a tali servizi. L’accesso alla salute, garantito dal Patto sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, resta un diritto solo sulla carta. Ma qualcosa, forse, si sta mettendo in moto e tra le crepe del sistema si fanno largo segnali di speranza. Paesi come Mauritius, nel 2023, hanno scelto di cambiare rotta, decriminalizzando questo tipo di amore; altri stanno discutendo aperture, adottando leggi contro la discriminazione e dando voce ai Principi di Yogyakarta (chiamato anche Principi sull’applicazione del diritto internazionale dei diritti umani in relazione all’orientamento sessuale e all’identità di genere) — la cui redazione è stata richiesta da Louise Arbour e altre/i 16 esperte/i di diritto internazionale — e sanciscono 29 linee guida in materia. Il cammino è ancora lungo, è vero, ma ogni passo avanti è un atto di giustizia: perché nessuno debba mai dover nascondere chi è per essere accettato e perché i diritti umani valgono per tutte/i, sempre. Ogni cambiamento verso la giustizia conta. Anche il più piccolo può cambiare il corso di una vita. È con questo spirito che, nel 2016, le Nazioni Unite hanno compiuto un gesto carico di significato: la nomina di una figura esperta indipendente per i diritti della comunità.

Dall’Africa, un segnale incoraggiante è arrivato nel 2023 con l’adozione della risoluzione 552 da parte della Commissione Africana dei Diritti Umani e dei Popoli. Per la prima volta, si è alzata la voce in difesa delle persone intersex, spesso invisibili, troppo spesso violate: questa risoluzione dà finalmente visibilità alle loro sofferenze: interventi medici non necessari, discriminazioni diffuse, isolamento, violenze, perfino infanticidi. È un atto di consapevolezza che rompe il silenzio, anche se non senza contraddizioni: definizioni come “anomalia cromosomica” rischiano infatti di alimentare lo stigma invece di abbatterlo. Ma c’è un messaggio potente che filtra tra le righe: non si tratta più di correggere corpi, ma di proteggere persone. Eppure, mentre si accende una luce, non si possono dimenticare le zone oscure: come quanto è accaduto nel 2015, quando la stessa Commissione ha negato lo status di osservazione a organizzazioni fondamentali, come la Coalizione delle Lesbiche Africane e altri gruppi che ogni giorno si battono per i diritti civili. È la prova che il cammino verso l’uguaglianza è fatto di slanci e battute d’arresto, ma anche che ogni conquista nasce dal coraggio di chi continua a credere in un mondo diverso, anche quando sembra lontano. Motivazioni come “contrario alle virtù dei valori africani” dimostrano quanto sia ancora difficile, per molte istituzioni, riconoscere che tali normative non sono opinioni culturali ma strumenti legislativi tutelativi: negare spazi di rappresentanza significa silenziare voci, frenare il cambiamento e ostacolare chi, ogni giorno, lavora per un’Africa più inclusiva, libera da pregiudizi. E, nonostante tutto, le voci del cambiamento si moltiplicano, resistono, avanzano e la lotta per la dignità continua.

In un mondo apparentemente più consapevole, non possiamo più chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie che colpiscono milioni di persone solo per chi amano o per come si identificano. È arrivato il momento di riconoscere apertamente i diritti umani di tutte le persone, senza eccezioni, senza condizioni. Ogni legge che criminalizza le relazioni tra persone dello stesso sesso va eliminata, perché l’amore — quando è libero e consenziente — non può essere punito. Servono riforme vere, e l’appello di Amnesty International è questo: abrogare le leggi discriminatorie, modificare quelle che, con il pretesto dell’“ordine pubblico”, colpiscono chi vive la propria identità. L’uguaglianza, sulla carta e nella società, non può più aspettare. Nel nome della giustizia, bisogna liberare chi è stato arrestato o condannato solo per aver vissuto la propria intimità in modo diverso da quello che la società considera “normale”. Ogni violazione dei diritti umani legata all’orientamento sessuale o all’identità di genere va indagata con serietà e imparzialità, fino in fondo: non possiamo più tollerare il silenzio, né la complicità. Un sistema giudiziario che non discrimini, che protegga tutte e tutti allo stesso modo, in ogni fase, dalla denuncia al tribunale; e servono strumenti chiari per dare voce e giustizia a chi subisce maltrattamenti o discriminazioni, senza più paura.
Per un mondo dove nessuno debba nascondersi, dove ogni amore possa essere vissuto alla luce del sole, dove l’identità non sia una. Il cambiamento ha bisogno di coraggio.
E soprattutto, ha bisogno di tutte e tutti noi.

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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.

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