La pittura di Leonor Fini, artista ribelle e visionaria, è arrivata al Palazzo Reale di Milano, a quasi cent’anni dalla sua prima personale nella capitale lombarda, alla Galleria Barbaroux nel 1929, preceduta dalla mostra Italian Fury alla Galleria Tommaso Calabro di Milano, nel 2022. La mostra, una delle più complete e importanti retrospettive a lei dedicate, aperta dal 26 febbraio al 22 giugno 2025, nel titolo, Io sono Leonor Fini, fa riferimento a un’affermazione stessa dell’artista rilasciata in un video presente nel percorso espositivo: «Sono una pittrice. Quando mi chiedono come faccia, rispondo: “Io sono”». Si intuisce già da questa risposta la sua volontà di sottrarsi a qualsiasi giudizio, la libertà con cui ha vissuto la sua vita, sfidando ogni pregiudizio.


Nel 2024, anno delle celebrazioni ufficiali per i cent’anni del Surrealismo, tante sono state le mostre dedicate a questo movimento, molte focalizzate sul riconoscimento delle artiste che vi hanno aderito, del loro ruolo nella società e nella cultura. Da settembre 2025 a gennaio 2026 il Palazzo Reale di Milano ospiterà la prima grande mostra italiana dedicata a Leonora Carrington, altra figura centrale del Surrealismo e artista dalla visione straordinaria. Sarà il corrispettivo autunnale dell’allestimento primaverile dedicato a Leonor Fini. Entrambe le artiste hanno fatto da modello per intere generazioni; Fini è stata una figura dirompente, ha infranto le convenzioni del proprio tempo senza esitazioni e con una libertà stilistica che la rende protagonista nel panorama artistico del XX secolo. Purtroppo è rimasta a lungo nell’ombra e sconosciuta al grande pubblico, anche nel nostro Paese nonostante le sue origini italiane, ed è stata riscoperta da poco.
Ne avevamo già parlato in un precedente articolo apparso nel n. 246 di Vitamine vaganti, lamentando le rare mostre a lei dedicate nei musei importanti, dovute probabilmente al fatto che la critica non le aveva perdonato il suo anticonformismo, la sua vita sregolata, e l’aveva condannata alla damnatio memoriae. Quindi ben venga questa mostra milanese, che pone riparo a una mancanza e mette in risalto la sua importante e preziosa attività, ripercorrendo le tappe principali della sua carriera artistica e chiarendo le influenze che l’hanno ispirata: la cultura mitteleuropea di Trieste, i grandi maestri come Piero della Francesca e Michelangelo, e la cerchia di artisti e intellettuali surrealisti tra cui Max Ernst, Salvador Dalí e Jean Cocteau.
Nove sono le sezioni tematiche in cui è organizzata la mostra, che evidenzia la poliedricità dell’artista e ci trasporta nel suo mondo onirico, ispirato alle rappresentazioni freudiane del sogno e dell’inconscio, e popolato da figure femminili, forti e combattive, streghe, dee, sfingi, guerriere, capaci di dominare maschi deboli e arrendevoli. Le sue opere, intrise di realtà e fantasia, sono enigmatiche e comunicano un senso di inquietudine, ma sono anche espressione di un talento indiscutibile, non comune.


Il progetto espositivo riunisce circa cento opere dell’artista, tra cui settanta dipinti, disegni, fotografie, costumi, libri e video, mostrando una produzione multiforme che va dalla pittura al design di moda, dalla letteratura al teatro, dai costumi alla fotografia, tutto frutto di un ingegno libero da schemi e rigide definizioni, capace di declinare l’arte in tutte le sue forme. Un ingegno che mira a esplorare la propria identità attraverso la metamorfosi, a mettere in discussione il genere, l’appartenenza, i modelli, a riconoscere la sua forza ma anche la sua fragilità. In tutti i suoi dipinti si coglie lo spirito autonomo dell’artista, che la rende un’artista profondamente attuale, anche se è nata agli inizi del Novecento. Fu anche una grande colorista e la mostra si illumina dei suoi arancioni, anche il cappello rosso del suo Autoritratto in realtà è un cappello arancione, come arancioni sono anche tanti suoi costumi, e arancione è la stoffa cangiante che Ea sta passando sotto la macchina da cucire.

Queste le parole rilasciate in un’intervista da Carlos Martin, uno dei curatori della mostra insieme a Tere Arcq: «Fini è un’artista interessante, perché ci sono tanti aspetti del suo lavoro che riflettono sul mondo contemporaneo, come i tipi di famiglia non normativa, un suo concetto dell’intimità e dell’identità; prendiamo ad esempio L’alcove, dipinto che rappresenta la stanza dell’artista dove una donna giace insieme a un uomo seminudo, che rappresenta molto bene la sua visione del corpo maschile, il suo stravolgimento dei ruoli di genere e della tradizionale rappresentazione del pittore con la sua musa, del pittore con la sua modella. Invece qui è la donna che ha l’aria di amante, di dominatrice in un certo senso, ed è l’uomo che rimane più passivo». Spesso Fini ritraeva il corpo maschile nudo, i suoi compagni mentre dormivano, nudi o agghindati in pellicce e velluti rinascimentali, o, come in Femme assise sur un homme nu, una donna vestita con sontuosi abiti che sta letteralmente seduta su un uomo nudo addormentato.


Fotografa e designer, Fini ha frequentato artisti, scrittori e cineasti come Federico Fellini, per il quale ha realizzato uno dei costumi del film Otto e mezzo, presente nella mostra milanese.


Tra l’Italia e Parigi, tra le Amazzoni e strane figure a metà tra essere animale e umano, tra corpi nudi e capelli indomabili, in un clima pervaso di un erotismo fluido, il mondo di Fini suona come una storia del tutto nuova, anche a tanti anni di distanza.


Stryges Amaouri raffigura una donna con tratti sia di sciamana che di strige, un uccello rapace notturno, evidenziando la sua doppia natura magico-animale.
In mostra anche tante fotografie dell’artista in maschera, che amava giocare con i travestimenti, video che la mostrano mentre scala rovine sul litorale laziale indossando scarpe coi tacchi, citazioni in cui parla del suo amore per i gatti, audio in cui racconta che fu una bambina coccolata e viziata.
Ripercorriamo brevemente la sua vita e la sua carriera.
Leonor Fini nasce a Buenos Aires il 30 agosto 1907, da madre italiana e padre argentino. A seguito della separazione dal marito, la madre torna in Italia con i figli, stabilendosi a Trieste. Nel 1933 a Parigi Leonor fa la conoscenza dei surrealisti e comincia a sperimentarne i metodi e le tecniche del movimento, come ad esempio l’automatismo, accostando casualmente forme e materiali. Pur non aderendo mai ufficialmente al movimento surrealista, l’artista vi contribuisce con una spinta classicista, frutto della sua formazione italiana e dello studio del Rinascimento. Così nelle sue immagini prendono forma creature ambigue che abitano scenari tenebrosi e disseminati da oggetti dall’enigmatica simbologia psicanalitica.
La sua prima personale si tiene nel 1938 alla Julien Levy Gallery di New York con un’introduzione al catalogo di Giorgio de Chirico. Durante la Seconda Guerra Mondiale risiede a Montecarlo e dipinge numerosi ritratti, mentre nel periodo tra il 1945 e il 1969 si dedica alla creazione di costumi per il teatro, l’opera, il balletto e il cinema. I gatti che la circondano nella vita quotidiana popolano, insieme alle sfingi, le sue opere maggiori realizzate tra gli Anni Trenta e gli Anni Cinquanta. Fini continua a lavorare in Francia, fino alla morte, avvenuta a Parigi il 18 gennaio 1996.

Concludendo il percorso espositivo, le persone sono invitate a riflettere sulla propria identità attraverso un’installazione interattiva: una serie di specchi e aggettivi che definiscono l’artista. Si può scegliere l’aggettivo che più ci rappresenta, scattarsi una foto e condividerla sui social, partecipando così a un dialogo collettivo sull’identità e sull’autocoscienza.
«La realtà, il quotidiano, possono rivelare aspetti strani e meravigliosi. Tutto sta a saper guardare le cose con occhi diversi e niente potrà più sembrarci banale o di facile comprensione», Leonor Fini.
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Articolo di Livia Capasso

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte nei licei fino al pensionamento. Accostatasi a tematiche femministe, è tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile. Ha scritto Le maestre dell’arte, uno studio sull’arte fatta dalle donne dalla preistoria ai nostri giorni e curato La presenza femminile nelle arti minori, ne Le Storie di Toponomastica femminile.
