L’arte della smaltatura è un’arte antica, antichissima, che affonda le sue origini nel bacino del Mediterraneo del II millennio a.C., tra Micene e Cipro.

Manifestazione del potere di imperatori e imperatrici, re, regine e condottieri, è stata anche espressione dell’autorità religiosa sia in Oriente, con Bisanzio, che in Occidente, spesso utilizzata in modo complementare nell’oreficeria. Principali vie di diffusione degli smalti sono state le rotte dei traffici commerciali, ma anche quelle delle invasioni e delle conquiste militari, in un intreccio di ricchezza e avidità, sangue e bellezza che spesso costituisce una parte importante della storia dell’arte.
L’Europa è stata una delle culle della lavorazione degli smalti, con diversi centri regionali come l’area renana vicino alla città di Colonia, la zona intorno a Liegi, dove fiorì la scuola mosana, e il territorio di Limonges. Chissà quante donne avranno lavorato con gusto e precisione i preziosi oggetti destinati a corti e cattedrali, creatrici raffinate ma sconosciute: se spesso gli artisti delle arti cosiddette minori restano protagonisti senza nome, per le artiste questa legge vale ancora di più. Una di loro però è riuscita a uscire dalle pieghe della storia della smaltatura, a divenire talmente importante e famosa da essere ricordata. Il suo nome è Suzanne de Court, di professione pittrice di smalti, attiva tra il XVI e il XVII secolo.

Poche le notizie biografiche. Si pensa che sia stata figlia di Jean, anch’egli pittore di smalti e discendente di una genia di artisti proprietari per molte generazioni di un’efficiente bottega di Limonges, nella Francia sud-occidentale. Proprio perché figlia d’arte, Suzanne avrebbe avuto modo di conoscere in casa i materiali e la tecnica. In altro modo non sarebbe stato possibile: mai una ragazza sarebbe potuta andare in un laboratorio ad apprendere l’arte da un maestro, mai sarebbe stata libera di sedersi con gli altri apprendisti su uno sgabello della bottega, mai avrebbe potuto misurarsi con gli strumenti del mestiere; mai, in seguito, sarebbe potuta diventare artista-artigiana indipendente, guidare una propria bottega con maestranze per lo più maschili, acquistare materiali, confrontarsi con la committenza, ricevere pagamenti. Al contrario, se si apparteneva a una dinastia artistica, la carriera si apriva anche per una donna che poteva raggiungere, non senza difficoltà, pregiudizi e discriminazioni, successo e benessere economico. Questo è quanto sembra essere accaduto a Suzanne de Court, che dal padre Jean avrebbe ereditato lavoro e laboratorio insieme ai fratelli.

Esiste una seconda ipotesi, che Suzanne abbia preso il cognome de Court per matrimonio; in questo caso si dovrebbe supporre che anche la sua famiglia d’origine avesse a che fare con il mondo dell’arte della smaltatura e che, all’interno di quei legami familiari, fosse avvenuta la sua formazione artistica e tecnica.
Gli studi e le ricerche di settore hanno individuato tra il 1575 e il 1625 il periodo in cui sarebbe stata attiva, il suo nominativo è pressoché solitario in mezzo a quelli di tanti uomini. La figura di Suzanne, scomparsi o non ancora rinvenuti altri documenti su di lei, è stata identificata anche grazie alla firma apposta su alcune creazioni, come il piatto raffigurante Apollo sul Monte Elicona con le Muse appartenuto alla collezione Waddesdon Besquet che il barone Ferdinand Anselm de Rothschild lasciò al British Museum di Londra alla fine dell’Ottocento. Il nome Susanne Court appare chiaramente leggibile sulla superficie blu del piatto, racchiusa in una elegante cornice dorata.


Si tratta di una creazione di carattere mitologico, tratta da una stampa dell’incisore mantovano Giorgio Ghisi (1520-1582): Apollo, in alto e al centro, domina la scena suddivisa in due parti dal serpentino corso d’acqua; a sinistra e a destra si distribuiscono le nove Muse intente a suonare, guidate dal dio alle prese con un liuto e non con la più tradizionale cetra. Emerge la cifra stilistica della pittrice: l’uso dei colori blu e verde stesi in numerose varianti tonali, i riflessi bianchi per gli incarnati delle figure rese vivaci non solo attraverso la sicura ed elegante tecnica pittorica, ma anche grazie all’attenzione rivolta ai tratti delle fisionomie, come testimoniano numerose altre opere.

Spesso Suzanne de Court si è lasciata ispirare dal mondo mitologico e dalla cultura classica, lo dimostrano alcuni pezzi conservati nella Waddesdon Mannor, come gli specchi raffiguranti Giunone con le Furie di fronte a Cerbero di guardia all’ingresso degli inferi; Minerva sul monte Elicona con le Muse; Orfeo che incanta gli animali con la cetra, temi ispirati da stampe cinquecentesche di Bernard Salomon presenti nel libro La Métamorphose d’Ovide figurée pubblicato alla metà del Cinquecento.

Nella stessa istituzione museale Waddesdon Mannor sono conservate due lastre rettangolari dedicate alla vita di Cristo con la Natività e l’Annunciazione.

In quest’ultima scena, alla base dell’inginocchiatoio sul quale si trova Maria, compare ancora una volta la firma Susanne Court F., dove la “f”, per fecit, indica la cognizione del proprio agire artistico.

Forse la pittrice era anche consapevole che la sola maestria non sarebbe bastata a renderla immortale, che la firma sulla superficie delle sue creazioni avrebbe potuto salvarla dall’oblio: più volte infatti ha voluto testimoniare il suo nome sulle opere, in alcuni casi in modo esteso, altre volte con le sole iniziali. Forse prefigurava la repentina sospensione dal ricordo nel suo destino di donna artista.

Suzanne de Court sembra aver avuto un proprio spazio sociale ed essere stata interprete del gusto raffinato di molti (e probabilmente anche molte) committenti di rango, che potevano permettersi oggetti di devozione o di uso comune — come saliere, specchi, casse per orologi — impreziositi da quella mano inconfondibile e brillante; successivamente le sue creazioni hanno attirato l’attenzione di collezionisti e collezioniste d’arte, come la baronessa Alice de Rothschild, che amarono arricchire le loro raccolte coi suoi capolavori di smalto.



Ora le opere di Suzanne de Court sono conservate in molti musei europei e statunitensi come, solo per citarne alcuni, il British Museum, il Metropolitan Museum of Art e la Frick Collection di New York, il Walters Arts Museum di Baltimora.
Qui le traduzioni in francese, spagnolo e inglese.
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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.
