Nella composita e sfaccettata realtà della Secessione romana la presenza di Élisabeth Chaplin, il cui cognome si scrive così ma si pronuncia “sciaplen”, alla francese, fu un’occasione per confermare l’apertura verso linguaggi moderni e non accademici. La pittrice fu presente a tutte e quattro le mostre, dal 1913 al 1916-17, ed espose, nel complesso delle sue partecipazioni, 8 dipinti tra i quali il ritratto della sorella Nanette intenta a suonare il violino, presentato nella mostra del ’14 e poi alla Biennale di Venezia dello stesso anno, con l’onore dell’immagine nel catalogo.

Il quadro, entrato a far parte delle collezioni permanenti della Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma fin dal 1916, è rimasto chiuso a lungo nei depositi museali senza essere esposto, neppure al momento dell’acquisto, destino comune a molte opere di artiste alle quali per lunghissimo tempo, nel buio dei magazzini, sono stati negati il riconoscimento della visibilità e l’onore della memoria, concessi più largamente e generosamente ai colleghi maschi. Apprezzata in vita, presente in numerose mostre in Italia e all’estero, premiata in Francia con la medaglia d’oro durante l’Esposizione internazionale di Parigi del 1937 e l’anno successivo con la Legione d’onore, la più importante onorificenza francese, anche a Élisabeth Chaplin è toccata in sorte la sospensione del ricordo.

Forse la volontà di affrontare il lavoro e la carriera di artista Élisabeth l’ereditò col DNA. Nipote di Charles Joshua Chaplin, importante ritrattista della società parigina durante il Secondo impero, era figlia di William e Marguerite Bavier-Chaufour, scultrice e poeta che, per la giovane figlia alle prese con la costruzione della propria identità umana, artistica e intellettuale, deve essere stato un significativo modello di emancipazione e creatività femminile. Nata a Fontainebleau nel 1890, Élisabeth si trasferì in Italia con la famiglia all’inizio del Novecento, prima soggiornando in Piemonte e in Liguria, poi a Roma nel 1904; ma furono Firenze e la Toscana a colpire lo sguardo e l’animo della famiglia Chaplin, e di Élisabeth in particolare, che eleggerà Fiesole a luogo del cuore per l’intera esistenza.
Se nei primi anni di formazione, molto probabilmente guidata dai consigli e dalle attenzioni del nonno e della madre, aveva studiato come autodidatta e con risultati eccellenti, come dimostra il dipinto Ritratto di famiglia in giardino, una volta a Firenze Élisabeth cominciò a copiare le opere degli Uffizi e a seguire le lezioni dei pittori Francesco Gioli e di Giovanni Fattori, solide basi per la sua carriera.


Non aveva ancora vent’anni, nel 1908, quando realizzò un autoritratto sotto la cupola di un ombrello verde, in cui le influenze impressioniste, la pennellata rapida e il senso di compenetrazione con la natura circostante costituiscono i tratti distintivi del dipinto. Lo sguardo serio e intenso della ragazza restituisce l’idea di un’artista già consapevole nonostante la giovane età, quasi prefigurasse una collocazione prestigiosa dell’opera.
E infatti il museo degli Uffizi nel 1947 richiese in dono il dipinto, per collocarlo nella collezione degli autoritratti un tempo esposta nel Corridoio Vasariano. Il quadro è uno dei tanti della pittrice, che si è spesso raffigurata con tavolozza e pennelli, in pose apparentemente casuali e con angolazioni non prive di riferimenti alle inquadrature fotografiche.

Attraverso i suoi autoritratti è possibile seguire l’evoluzione del linguaggio pittorico di Chaplin: dagli influssi dell’arte impressionista alla luminosità cromatica dell’autoritratto del 1910, dove l’intensità della luce esterna avvolge l’artista che si volta verso di noi quasi colta dal richiamo improvviso di una voce; dagli effetti coloristici in un autoritratto del ‘12, in cui la melodia cromatica si carica di intensità espressiva e le forme conquistano sintesi, all’Autoritratto in rosa del 1921, dove la distribuzione dei toni si accompagna al gusto decò e a «una così spontanea larghezza decorativa, da dar vivo piacere a chi li vede», come scrisse il critico Roberto Papini nella sua Rassegna artistica pubblicata nel ‘23 sulla rivista Almanacco della donna italiana.



Col trasferimento a Roma, tra il 1916 e il 1922, si aprirono per Élisabeth le porte di Villa Medici e dell’Accademia di Francia e, tramite il suo direttore Albert Besnard, la conoscenza della pittura Nabis di Maurice Denis, riecheggiante nel quadro Giovani ragazze in giallo attraverso la resa bidimensionale della scena, la sinuosità delle linee e la sintesi delle forme.

Furono conoscenze e approfondimenti importanti quelli condotti negli ambienti della capitale, anche se è importante precisare che Élisabeth Chaplin seppe mantenere, nella naturale evoluzione della sua arte, un linguaggio personale non facilmente inseribile e catalogabile in specifiche tendenze, apprezzato dalla critica a lei contemporanea che nel 1925, con le parole di Nello Tarchiani sempre sulle pagine dell’Almanacco della donna italiana, si spinse a definire «maschia e sprezzante» la sicurezza con cui la pittrice costruiva le sue figure. Ha gusto Nabis anche l’opera Riposo in Egitto, datato intorno al 1923 e intitolato in un primo momento più semplicemente Oasi, un titolo che esprime il modo personale di interpretare il racconto evangelico.

Sulla tela le figure, costruite per piatte campiture di colore, formano un blocco unico, con i corpi e le teste ravvicinate quasi a isolarsi e proteggersi dal contesto, e Maria dolcemente abbracciata al figlio per ripararlo col mantello rosso. In primo piano, in basso a destra, un quadro nel quadro, una natura morta formata da una brocca, dai frutti e da un pezzo di pane riuniti in una cesta.

Nonostante le incursioni in tematiche religiose, bibliche e simboliche proseguite negli anni, la sua esperienza pittorica mantenne una coerente linea di indagine e narrazione in cui protagoniste furono le persone e i luoghi della sua vita e dei suoi affetti.

La famiglia, in primo luogo, cui dedicò più di un quadro nell’intimità dei gesti e dei tempi quotidiani, le sorelle e il fratello ma anche Ida Capecchi, la loro istitutrice, bibliotecaria e amministratrice entrata nel nucleo familiare Chaplin grazie all’interessamento di Edmondo De Amicis, che per circa settant’anni costituì per Élisabeth una presenza costante e un affetto duraturo.

Dedicò molti dipinti, schizzi e disegni anche alla villa Il Treppiede a San Domenico di Fiesole, la bella casa in cui con la famiglia andò a vivere nel 1911 e che fu fino alla sua morte, avvenuta nel 1982, il luogo in cui ogni volta tornare, rifugiarsi, lavorare, elaborare il linguaggio della ricerca pittorica. Di questa dimora restano immagini e scorci spesso ripetuti in orari differenti della giornata e in periodi diversi dell’anno, coi colori caldi di un tramonto o quelli scialbi di una giornata nuvolosa, con la luce incantata di primavera o con le ombre bluastre delle fronde nella calura estiva.


Fu un luogo fisico e un luogo mentale villa Il Treppiede, al quale Élisabeth tornò dopo il periodo romano e dove rimase fino ai primi anni Trenta, quando fece rientro in Francia fermandosi a Parigi fino alla fine della Seconda guerra mondiale.
Il legame con la Francia non fu secondario per l’artista che nel ’22 espose al Salon parigino. Col suo linguaggio, sempre caratterizzato da linee di ricerca personali seppur orientate verso le contemporanee tendenze artistiche, si cimentò in opere di grande formato, dalla realizzazione di arazzi decorativi alle pitture murali nella cappella di Notre-Dame-du Salut (andate perdute) e nella chiesa di Saint-Esprit dove dipinse l’episodio di San Benedetto che fonda l’abbazia di Montecassino.
Quando il secondo conflitto mondiale ebbe termine, Élisabeth Chaplin tornò in Italia e le prime mostre del dopoguerra le tenne nel ‘46 a Roma e a Firenze. Di nuovo nella sua seconda patria (o forse la prima?), di nuovo nella sua casa Il Treppiede, il luogo del cuore.

Nelle opere da cavalletto ricominciò a raffigurare scorci della sua dimora, particolari del giardino, i volti e i corpi delle persone care che la circondavano, da sempre filo conduttore della sua ricerca.


E ancora autoritratti, questa volta in là con gli anni, ma con lo stesso sguardo sicuro e diretto, i colori e i pennelli a identificare il suo lavoro e se stessa, per tutta la vita alla ricerca di una vita piena e indipendente.
In copertina: Elisabeth Chaplin, Villa Il Treppiede, olio su tela, Firenze, Galleria degli Uffizi (part.).
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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.
