L’identità e la percezione di sé. Claude Cahun

Claude Cahun (1894–1954), oltre a esser stata un’artista e fotografa surrealista, è stata anche una rivoluzionaria silenziosa. Nata Lucy Schwob, scelse presto di rinominarsi Claude — un nome neutro che era già rottura, sfida. In un’epoca in cui il mondo voleva risposte nette su chi si dovesse essere — uomo o donna, artista o musa, realtà o apparenza — lei rispondeva con l’ambiguità, con il gioco, con il rifiuto di ogni etichetta. Il suo stile androgino, nella vita quanto nei suoi autoritratti, ha rappresentato più di una scelta estetica: fu un linguaggio, una provocazione, ma soprattutto un’esplorazione lucida, poetica della soggettività. Cresciuta a Nantes in una famiglia borghese ebraica intellettualmente vivace, Claude respirò fin da piccola l’aria frizzante del pensiero libero: suo padre, Maurice Schwob, dirigeva un quotidiano progressista; suo zio, Marcel Schwob, era una mente brillante della scena letteraria simbolista, in dialogo con autori come Oscar Wilde e Stéphane Mallarmé. In questo terreno fertile, germogliarono i temi che sarebbero poi diventati centrali nella sua opera: la metamorfosi come condizione esistenziale, l’identità come maschera, il linguaggio come forma di resistenza. Immersa nella cultura simbolista, Cahun apprende presto che la realtà non è una verità assoluta, ma qualcosa di interpretabile, filtrata dall’inconscio, dai sogni e dall’intuizione: l’identità, in questa visione, non è una maschera da togliere per arrivare a un’essenza, ma una costruzione mutevole che può cambiare, mescolarsi, trasformarsi. Anche la sua esperienza personale la porta a prendere le distanze dai ruoli sociali imposti. Fin da adolescente si percepisce diversa: attratta dalle donne, insofferente al modello femminile dominante, si scontra con i pregiudizi e l’antisemitismo, soprattutto durante gli anni di studio a Parigi. Queste ferite contribuiscono a rafforzare in lei un atteggiamento radicale, critico verso ogni forma di classificazione imposta: di genere, di religione, di nazionalità o di classe.

Negli anni ’30, insieme alla compagna di vita e d’arte Marcel Moore, Cahun entra in contatto con il gruppo surrealista guidato da André Breton. Frequenta i loro incontri, partecipa alle pubblicazioni (come Le Surréalisme au service de la révolution) e intreccia legami con figure radicali come René Crevel e Georges Bataille. Tuttavia, pur sentendosi vicina alla loro voglia di sovversione, Cahun mantiene una certa distanza critica. Il motivo è una lucida consapevolezza femminista: mentre molte artiste surrealiste vengono relegate al ruolo di muse, presenze decorative o ispiratrici silenziose, Cahun prende la parola e si impone come autrice autonoma; non accetta il machismo velato del gruppo, e usa il surrealismo a modo suo: come strumento per decostruire ogni gerarchia, anche quella all’interno degli stessi movimenti rivoluzionari. Cahun non si è mai dichiarata apertamente surrealista: eppure, le sue opere condividono molti dei tratti distintivi del movimento: l’identità come travestimento, come maschera da cambiare a piacimento. I suoi autoritratti mostrano una serie di personaggi che smontano l’idea di un io unico e fisso; il rifiuto della logica binaria, la fusione tra maschile e femminile, sogno e realtà, vita e morte: un gioco continuo di slittamenti e opposizioni che si annullano; la metamorfosi continua, che attraversa ogni sua fotografia: clown, dandy, figura mitologica, spirito androgino. Ogni scatto è una scena teatrale, un atto poetico di ribellione. Infatti, negli anni ’20 e ’30, Parigi è il cuore pulsante delle avanguardie: il dadaismo, il surrealismo, la poesia automatica… tutto spinge verso una liberazione dell’inconscio, un rifiuto della logica e delle regole sociali. Ed è qui che si inserisce la visione di Cahun, che trova nel surrealismo un linguaggio affine ma non vincolante: una vera e propria fonte di ispirazione che arricchisce il suo percorso senza mai dominarlo.
Un momento decisivo della sua vita è appunto l’incontro con Suzanne Malherbe, che diventerà la sua compagna affettiva e artistica, nota con il nome di Marcel Moore. Il loro legame è profondo, simbiotico: insieme esplorano il linguaggio dell’immagine, del teatro e della scrittura, dando vita a una produzione che è sempre il frutto di un dialogo a due; nonostante l’omosessualità fosse ancora oggetto di stigma e repressione, la loro relazione è diventata poi simbolo di resistenza e libertà. Proprio attraverso la loro arte, Cahun e Moore mettono in discussione sia il genere, ma anche il concetto stesso di identità come qualcosa di stabile o “naturale”: nella loro concezione, l’identità è un gioco, una messa in scena, una possibilità continua di trasformazione. Tutto questo porta Cahun a fare dell’arte uno strumento di disvelamento: un modo per scardinare le norme troppo strette, per rifiutare le etichette, per mettere in discussione le strutture di potere che definiscono cosa possiamo essere e come dobbiamo apparire. E che proprio in questa fluidità risiede la possibilità più radicale di libertà.

Quando, negli anni ’30, il surrealismo si avvicina alla politica — soprattutto all’antifascismo e al comunismo — anche Cahun e Moore scelgono di mettere la loro arte al servizio della resistenza. Durante l’occupazione nazista dell’isola di Jersey, dove si erano trasferite, intraprendono un’azione clandestina incredibile: scrivono e diffondono volantini sovversivi, ironici, provocatori, destinati ai soldati tedeschi. Firmati con lo pseudonimo “Der Soldat ohne Namen” (“Il soldato senza nome”), questi testi giocano con il linguaggio della propaganda, lo rovesciano, lo deformano, lo rendono surreale. In questi anni bui, la creatività di Cahun è fervida: le sue fotografie, i suoi testi, i travestimenti che continua a mettere in scena anche nel chiuso della loro casa, diventano atti di disobbedienza visiva. Sfida l’autorità non solo del regime nazista, ma anche di ogni sistema che impone identità fisse, ruoli prestabiliti, silenzi forzati. Attraverso il suo corpo, trasformato e moltiplicato nelle immagini, Cahun manda un messaggio potente: l’identità non è prigione, è possibilità. La ribellione non è solo nei gesti eclatanti, ma anche negli sguardi, nelle forme, nei simboli. Le loro azioni non ebbero risonanza pubblica all’epoca. Eppure, oggi riconosciamo in esse qualcosa di straordinario: una resistenza che passa attraverso l’arte, la parola, l’immaginazione. Cahun e Moore ci insegnano che la libertà può essere affermata anche nei gesti più sottili, che l’immagine può essere un’arma, e che l’atto di immaginare un’identità nuova è, in sé, un gesto rivoluzionario.
Per entrare nel mondo di questa incredibile artista, non possiamo fare altro che ripercorrere insieme alcune delle sue opere attraverso cui narrava sé stessa e il suo universo.

Autoritratto con testa rasata (1920 circa)

In questa immagine, Cahun appare con la testa completamente rasata, lo sguardo diretto e penetrante rivolto all’obiettivo. È una delle sue fotografie più famose: l’assenza di capelli — simbolo sociale della femminilità — è una dichiarazione netta di rifiuto del genere imposto. Lo sguardo è fiero, consapevole, sfida lo spettatore a riconoscere un’identità che non si lascia definire. È uno dei primi esempi di autorappresentazione androgina nel panorama dell’arte moderna.

Autoritratto con maglione a scacchi e specchio (1928 circa)

Qui Cahun si ritrae con una maglia a scacchi, in una posa riflessiva. Dietro di lei, uno specchio mostra il retro della sua testa, creando un gioco di duplicità e moltiplicazione. L’identità è allo stesso tempo presente e riflessa, visibile e sfuggente. L’immagine riflette l’idea che non esista un solo sé, ma infinite proiezioni.

Autoritratto in veste di figura mitologica (anni ’30)

In alcune fotografie, Cahun si trasforma in creature al confine tra umano e simbolico, vestita con abiti teatrali, maschere o elementi esoterici. Una di queste la ritrae con un mantello, i capelli arricciati e un’espressione ambigua: né uomo né donna, né reale né immaginario. Sono immagini profondamente surrealiste, in cui la metamorfosi è centrale.

What do you want from me? (1928)

Questa fotografia mostra Cahun in giacca e cravatta, seduta accanto a un manichino simile a lei. Il titolo, scritto su un cartello posto davanti, recita: “Que me veux-tu?”, ovvero “Cosa vuoi da me?”. È una delle sue immagini più dirette e concettuali: l’io si confronta con il suo doppio, con l’alter ego, con lo sguardo dell’altro. È una sfida, un’invocazione, una domanda ancora oggi attualissima sulla pressione sociale a “essere qualcosa di preciso”.

Fotomontaggi da Aveux non avenus (1930)

In collaborazione con Marcel Moore, Cahun realizza una serie di fotomontaggi per il libro Aveux non avenus. I loro volti si fondono con statue, occhi, elementi grafici. Queste composizioni visive non rappresentano, ma evocano, scompongono, spiazzano. Sono opere sperimentali, in cui il corpo si perde tra sogno e pensiero, dissolvendo ogni confine.

Claude Cahun è stata una voce fuori dal coro, e soprattutto un’autrice che ha saputo trasformare l’arte in uno strumento di pura sovversione: con tutto il suo operato, è riuscita a scardinare le rigide impalcature dell’identità di genere, della norma sociale e del potere politico. Il suo lavoro è stato un gesto continuo di rottura, una sfida lanciata al mondo per affermare la complessità dell’essere umano: ogni sua fotografia, ogni parola scritta, ogni azione compiuta è un richiamo a osare, a interrogarsi, a rifiutare le etichette e le costrizioni dell’apparenza. In un presente che ancora fatica a riconoscere la pluralità delle identità, Claude Cahun rimane una figura visionaria e attualissima: un faro per chi cerca nell’arte un luogo di verità, per chi nella vita reclama il diritto di essere, semplicemente, sé stesso — o sé stessa, o nessuno dei due.

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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.

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