Quando, nel 1998, l’editore Feltrinelli chiede a Clara Sereni di raccogliere in volume gli scritti non narrativi degli anni precedenti, la scrittrice s’interroga sulle differenze tra la scrittura giornalistica e quella letteraria che lei sente complementari, in quanto ispirate a una visione politica ed etica che non conosce contraddizioni tra l’agire concreto nella realtà contingente e il lavoro di scrittura “puro”.
Condividendo, nell’introduzione, con chi legge interrogativi e difficoltà, muove dalla considerazione che l’atto dello scrivere è un’avventura non priva di rischi in generale. Si tratta infatti di «una rappresentazione di sé che ha bisogno di molta fiducia per affidarsi — con un atto che è del corpo ma mette in gioco l’anima — al segno e alla carta. Segno e carta in grado di vivere un’esistenza autonoma, fuori di ogni protezione e ogni controllo: ogni lettera tracciata è un pezzettino di sé libero di andarsene in giro per il mondo in totale autonomia, esposto a rischi e fortune incontrollabili. E il tal pezzettino di quella che chiamo anima può tornarti incontro chissà quando e dove, con esiti non calcolabili, come un fantasma, come il testimone che non si può disconoscere né smentire di un’emozione dimenticata o da dimenticare, di un sentimento che ormai si è trasformato nel suo contrario, di una passione spenta o divenuta incomprensibile, di un progetto ormai illeggibile».

Subito dopo cerca di fare chiarezza sui motivi che spingono lei ad affrontare questo rischio e crede di individuarne il principale: «la sensazione magica di poter dare ordine, con le parole, al mondo: un mondo che nell’allinearsi delle righe, nell’accumularsi delle pagine, nel contenimento garantito dalla copertina trova momentaneamente una comprensibilità, e la coerenza che alla vita non appartiene».
Ma questa coerenza, afferma subito dopo, appartiene solo alla scrittura letteraria. Perché «tutt’altra impressione mi ha fatto riprendere in mano i “pezzi sparsi” scritti nell’arco di oltre un decennio».
E solo il fatto che fossero già pubblici, in quanto pubblicati appunto sui quotidiani e le riviste con cui collaborava, la induce ad affrontare «un percorso di riappropriazione complicato», che la obbliga a riconoscere come sue parti di cui credeva di essersi liberata.
La prima difficoltà è quella di trovare un criterio per raggrupparli, quei pezzi : «L’ordine cronologico non mi offriva un filo di discorso: perché il continuum temporale difficilmente si riflette nella scrittura, esposta alle frantumazioni di un tempo interno che segue calendari differenti da quello solare ed eclissi diverse da quelle della luna. […] un criterio rigidamente tematico è forse applicabile a una scrittura giornalistica classicamente intesa, ma non alla mia, […] perché mi sembra che nessuno di questi pezzi sia separabile non solo e non tanto da un’opinione, quanto da un’esperienza emotiva che è la mia di un momento o di una fase, qualunque sia la notizia da cui prendono spunto».
In questa introduzione si trovano parole fondamentali per comprendere il modo in cui tutta l’opera di Sereni si pone nel punto esatto di intersezione fra i due generi di scrittura; che è insieme il punto di intersezione tra scrittura breve o racconto e romanzo; e ancora tra autobiografia e fiction.
Davanti al suo stesso turbamento, la scrittrice si chiede «cosa c’era, di così profondamente diverso e perturbante, come un segreto, in questa scrittura destinata a un pubblico (quello dei lettori dei quotidiani, soprattutto) per sua natura anche più “pubblico” di quello dell’altra?»
La prima differenza Sereni la individua in quella «ambizione di utilità» che i pezzi destinati ai giornali avrebbero «nel proprio Dna», ambizione non estranea neppure alla sua scrittura letteraria, ma più sfumata in quest’ultima: «Porsi un obiettivo di utilità significa la speranza di incidere, scrivendo, sulla realtà. […] Scrivere un editoriale per un quotidiano o un intervento per una rivista specializzata alimenta fortemente questa speranza. Il nodo problematico può esser affrontato in maniera diretta e frontale. Ma lo scotto da pagare a questa sensazione gratificante di potere è alto».
Perché si tratta di testi scritti su commissione, a partire da un evento totalmente esterno a chi scrive, che vengono prodotti in tempi brevissimi, il che comporta che «il tempo di limare, di ripensare (e quindi anche di celarsi) è ridotto al minimo» con la conseguenza che: «questa scrittura che dovrebbe essere più impersonale dell’altra provoca disvelamenti quasi mai previsti o calibrati, e invece dovuti più che altro alla fretta, come quando — uscendo di casa all’improvviso — si dimentica di truccarsi o pettinarsi o appuntare l’orlo scucito. È come la differenza tra un’istantanea e una fotografia in posa».
Vale la pena di osservare come la metafora scelta a indicare la sciatteria che può rintracciarsi, a distanza di tempo, in un pezzo dato alle stampe sull’urgenza di un fatto contingente, sia tratta dall’esperienza femminile, così come il timore di una caduta del velo con cui le donne si proteggono da sguardi indiscreti e la fretta che ne caratterizza costantemente le giornate.
L’ordine dei pezzi così come li leggiamo nel Taccuino corrisponde alla ricerca di un filo interno che la scrittrice cerca dentro di sé. Ovvero alla sua storia, a come lei “si racconta la sua storia”. E conclude: «Non fingo alle quattro partizioni di questo libro un’oggettività esterna, ma le dichiaro come i quattro spicchi dei quali, con continui sconfinamenti, mi sembra di compormi: ebrea per scelta più che per destino, donna non solo per l’anagrafe, esperta di handicap e debolezze come chiunque ne faccia l’esperienza, utopista come chi, radicandosi in quanto esiste qui e oggi, senza esimersi dall’intervenire sulla realtà quotidiana, coltiva il bisogno di darsi un respiro e una passione agganciati al domani.
La fatica di dare coerenza a queste parti, e gli sconfinamenti dall’una all’altra sono peraltro la rappresentazione più fedele di una fase diversa da quella di “scrittrice pura” che vantavo fino a pochi anni fa».
L’identità frantumata che qui si esprime nella metafora dei quattro spicchi altrove diventa un mosaico fatto di «tessere mal tagliate, come quella di tutti e, più, delle donne». Ma questo riconoscersi fatta di pezzi diversi comporta che l’esistenza si risolva nella fatica incessante di dare coerenza a sé stessa, prima ancora che alle proprie scritture, per restare intera.
Il libro è diviso in quattro sezioni che raccolgono gli scritti non narrativi che danno voce di volta in volta a ciascuno degli “spicchi”, pur con continui sconfinamenti dall’uno all’altro. A fare da collante fra le diverse sezioni una serie di elementi lessicali ricorrenti: deflagrazione, esplosione, frantumazione, frammentazione, lacerazione, divaricazione, dispersione, sgretolamento e sconfinamento.
Essi non ci sorprendono nella prima sezione, intitolata Shalom, che raccoglie testi scritti a commento degli episodi del conflitto israelo-palestinese, sono forse inattesi nella seconda sezione, L’agenda dei desideri, dedicata all’essere donna. Essa si apre con una ninnananna che Sereni compone per suo figlio Matteo e prosegue con il racconto del percorso accidentato che la porterà a sentirsi autorizzata a definirsi scrittrice, benché aiutata dal fatto di essere nata e cresciuta in una famiglia di donne, di avere quindi alle spalle una genealogia femminile, capace di dare forza a quel desiderio di “una stanza tutta per sé”, cui molte donne non credono di avere diritto. Le ci vorrà molto tempo per capire che «l’atto di autonomia profonda che la scrittura rappresenta determina quasi inevitabilmente un sentimento di gelosia». Così quando fa leggere al suo compagno le cose che va scrivendo, lui ha una reazione che la scrittrice percepisce giustamente come violenta: «Mi chiese: “Ma tu, per chi scrivi?”, e io a quella domanda non seppi rispondere. […] Mandai al diavolo lui e la sua domanda senza potermi però sottrarre a un senso di colpa e inadeguatezza. […] Cominciai a capire allora che non ero una donna nuova, ma tutt’al più una donna emancipata, e che la strada da fare era lunghissima, tanto lunga da non vederne la fine. Ne ebbi un effetto di choc […] che poi non abbia scritto per tredici anni, a questo punto credo non debba stupire […] un gran buco nero di obblighi di lavoro, famigliari e domestici».
Perciò, racconta: «Quando ripresi a scrivere lo feci praticamente di nascosto: non di nascosto dagli altri, di nascosto dame. Scrivevo su piccoli fogli volanti, senza il coraggio di dirmi che stavo componendo il libro che poi sarebbe stato Casalinghitudine. […] Il mio compagno […] mi snocciolò una bibliografia ragionata di tutto quello che avrei dovuto leggere e capire per affrontare l’idea che avevo in mente. […] Gli risposi che se mai avrei letto dopo, rivendicando un mio modo (femminile!) di lavorare diverso dal suo, (maschile). Intuizione contro sintesi, per così dire, ma allora non ero minimamente in grado di parlare in questi termini, né tanto meno di rivendicare come valore una specificità di genere. Casalinghitudine uscì accolto da molte donne come una cosa che apparteneva non solo a me ma a tante: la domanda “per chi scrivi?” trovava così una prima risposta».
Ma l’esperienza della lacerazione, o della divaricazione, appartiene anche ad aspetti più banali e quotidiani della vita di ogni donna, costrette a destreggiarsi fra ruoli che non di rado entrano in conflitto: «Di questi tempi le casalinghe come si deve hanno già compiuto quell’atto fondamentale della vita famigliare che va sotto il nome di “cambio di stagione”.
Le casalinghe un po’ meno per bene, invece, trascinano questa operazione per mesi e in genere non la concludono mai. A loro resta la consolazione di aver sempre un maglione a portata di mano per i freddi improvvisi: ma si tratta di una consolazione magra, perché società e famiglia continuano a guardare con sospetto e fastidio ai loro tempi imprecisi, alla loro disponibilità mai totale, al loro continuo divaricarsi fra un qui e un là che non riescono ad armonizzare».
E ancora: «I lavori di casa ci assediano, tutte: come impegno, come senso di colpa, come rifiuto, come rifugio. Mangiare e abitare, coccolare e coccolarsi, ospitare e vestire: ogni verbo tanti gesti, gli elettrodomestici e la colf eventuale non ci affrancano comunque dal programmare, dal prevedere, dall’organizzare. Possiamo magari decidere di non fare, ma la libertà di non pensarci non l’abbiamo mai. […] a ogni attimo una scelta, togliere la polvere o leggere il giornale, fare la doccia o cambiare l’acqua ai fiori, fettine in padella o stufato con gli odori, manicure o letto sfatto».
La terza sezione, intitolata Benvenuto, contiene scritti ispirati al terzo spicchio dell’identità di Sereni, che si definisce “madre handicappata”, perché l’handicap di un figlio si riflette inevitabilmente sulla madre. Ma anche come vicesindaca di Perugia con delega agli Affari sociali, la scrittrice fa esperienza delle lacerazioni e dalla sofferenza provocate nei singoli individui e nelle famiglie dalla fragilità, dalla malattia, dalla vecchiaia, e da tutte le forme in cui si può manifestare la diversità. Compresa la devianza. «L’idea di affidare mio figlio e il grumo di difficoltà che si porta dentro a un gruppo di violentatori non era certo rassicurante. Si chiama “messa alla prova”, mi spiegava l’assistente sociale, significa sostituire al processo e alla condanna del reo confesso un periodo di impegno nei servizi sociali. La natura del reato mi rendeva oltretutto particolarmente poco incline a comprensione e pietà. […] quando li accolsi sulla porta di casa, la prima volta, non dico che mi aspettassi occhi iniettati di sangue, ma poco ci mancava. Sulla soglia mi specchiai in sguardi incerti, pieni di altrettanta paura e disagio. […] Tre ore di ansia molto difficili da tenere a bada, poi Matteo tornò, con uno sguardo diverso e anche gli occhi degli altri due erano cambiati. Cominciò così un’avventura durata un anno, durante il quale, nel corso di ogni settimana, Matteo s’informava tante volte su quando sarebbero venuto a prenderlo “i suoi amici”».
La quarta sezione, infine, intitolata La partita truccata. Calendario di un conflitto, racconta per frammenti la Sereni utopista, dalle prime esperienze politiche nel movimento studentesco, fino all’impegno nelle istituzioni. Impegno che significò per lei misurarsi con la politica così come l’aveva intesa e praticata quel padre famoso, da cui aveva cercato di differenziarsi, ma da cui aveva ereditato la certezza che prendersi cura del mondo e contribuire a renderlo migliore sia l’unico obiettivo che dà senso all’esistere. «La primavera mi ha portato a misurami con un cambio di ruolo inaspettato e con una parola che avevo sempre dribblato, potere […] I conti nei miei rapporti con il potere dovrò farli soprattutto con me stessa: se riuscirò nella scommessa di non soffocare le altre parti di me — madre handicappata e scrittrice e donna con voglia di parrucchiere e vetrine — un aiuto forse mi verrà dall’ascolto, dall’attenzione ai bisogni e ai desideri. Degli altri e miei».
Anche in questo ruolo, Sereni sconta l’effetto delle molteplici lacerazioni, più gravi a partire dalla fine degli anni Ottanta con il crollo dell’Urss e del muro di Berlino, che hanno messo in crisi «quella che fino a poco tempo fa chiamavamo sinistra». Ma resta tuttavia la possibilità di una scelta di campo non ambigua, «Che i sogni servano a vivere lo afferma oramai da cent’anni la psicanalisi. […] Ma bisogna distinguere tra sogno e utopia. I sogni, angosciosi o rosei che siano appartengono soltanto al privato… L’utopia no, l’utopia non è qualcosa che si possa vivere nel chiuso della propria animuccia. L’utopia non può che essere pensata, costruita, sognata insieme ad altri. […]
Il cammino è incerto, bussole consolidate per orientarsi non ce ne sono: indistinguibili le classi, invisibili i poteri, unico dato certo è che gli “ultimi” restano fuori dalla Storia più che mai, benché, probabilmente, più numerosi. Il prezzo più alto lo pagano loro, e in cambio di niente. Dicendomi ultimista provo a confrontarmi con la loro espulsione, ad assumere come punto di vista il loro stare dalla parte degli ultimi, provare a ragionare con la loro testa la loro pancia e la loro pelle inizialmente mi è capitato per ventura, per un pezzo di me che era ineluttabilmente in gioco, più che per cultura o scelta. Dichiararmi ultimista significa alla fin fine dirmi che tanto dolore non è inutile, e che a questo mondo finalmente — se non giustizia — può esserci almeno una scelta di campo non ambigua».
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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.
