“La uccide perché l’ha lasciato…”

La percezione della realtà crea effetti concreti, tanto da modificare la realtà stessa. Le parole sono le porte e le finestre della nostra percezione, hanno funzione generatrice: costruiscono le narrazioni e ne creano le cornici, delimitano i contesti e le dinamiche degli eventi, descrivono i soggetti con le loro caratteristiche e le loro intenzioni.
Chiamare i delitti misogini con il termine ‘femminicidio’ rimuove la generalizzazione che deriva dall’uso di parole non specifiche quali ‘omicidio’ o ‘uccisione’ o ‘assassinio’ e aiuta a comprendere i fattori determinanti, la loro diffusione. Non si è trattato solo di un termine in più ma di un’evoluzione, culturale prima, giuridica poi: ci ha aiutate a uscire dalla cornice emergenziale e a sostituirla con un approccio strutturale.
Non esiste il ‘maschicidio’ perché non esiste una cultura che insegni a odiare e uccidere gli uomini per il solo fatto che siano uomini. Non esiste un sistema che storicamente, socialmente, economicamente li abbia schiacciati, oppressi, privati della libertà, costretti a temere per la propria vita semplicemente per il fatto di esistere in quanto maschi o per aver difeso la propria autodeterminazione, il proprio diritto ad essere nel mondo.

Solo da pochi anni si discute della violenza maschile sulle donne cercando di ricondurla non a singoli casi isolati ma alle conseguenze di una cultura patriarcale e proprietaria e a un suo colpo di coda: una perversa risposta contemporanea al “mondo messo sottosopra” dalle mutate relazioni tra i sessi.
La violenza è diventata visibile: ciò che non si vuol ancora vedere è il suo fondamento.
L’analisi storica e sociologica aiuta a comprendere.
Non è perché gli uomini sono malvagi che alcuni di loro umiliano o picchiano o uccidono le loro compagne, ma perché la società nel corso dei secoli ha creato in loro la convinzione di essere i legittimi proprietari del corpo femminile e che il loro desiderio fosse il solo a contare.
Cito dalla Convenzione di Istanbul del 2011:
«la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione».
Se da una parte la sensibilizzazione è aumentata portando a galla un problema rimosso per secoli — e questo è un fatto molto importante — dall’altra sono aumentate anche la banalizzazione e la spettacolarizzazione, caratteri dominanti di questo secolo.

Chi controlla la percezione della realtà?
Pochi mezzi di informazione ormai ne negano l’esistenza, ma per altro verso pochi citano la tesi — ormai condivisa da una gran quantità di ricerche in tutto il mondo — secondo cui la violenza di genere è frutto di una storia che ha assegnato alla donna un ruolo sociale subordinato, che prevede la sottomissione e conosce perfino la soppressione fisica quando se ne discosta.
Ben pochi criminali godono di tanto implicito appoggio sociale.
L’impegno quotidiano di chi affronta il femminicidio continua a scontrarsi con un muro di gomma fatto di stereotipi, di luoghi comuni, di pregiudizi, di abitudini secolari. Esso è scomodo ma eloquente punto di riflessione sulla paura del cambiamento, sull’ansia causata dalla sparizione dei ruoli tradizionali, sull’incapacità maschile di gestire in modo maturo la frustrazione narcisistica dell’orgoglio ferito, sul legame come protezione fobica rispetto alla solitudine che si traduce nel controllo, ossessiva prassi consueta nell’era dei cellulari.

I fatti da soli non parlano: sono i media a farli parlare.
Se i quotidiani e le tv offrono al pubblico informazioni banali sulle caratteristiche di questo particolare tipo di delitti, senza dare peso alla cultura che vi sta dietro e che accompagna da millenni le relazioni tra gli uomini e le donne pur assumendo oggi sembianze nuove, è probabile che per la gente comune e perfino per la politica sarà difficile formarsi un’ idea corretta del fenomeno e chiedere interventi pertinenti.
Il nodo è la definizione della situazione: il significato che diamo e facciamo dare dalla pubblica opinione alla violenza maschile sulle donne. Una riflessione sul linguaggio è necessaria.
Se il problema è strutturale e culturale, la narrazione mediatica di questa violenza diventa uno dei fattori principali per il cambiamento.
Vengono ripetuti con estenuante, quasi ossessiva frequenza cliché frusti e impropri quali l’ossessione amorosa, la passione: un contorno che si riproduce nella narrazione delle storie di violenza compiute all’interno della coppia, e che nella sostanza — sia pur involontariamente — adotta il punto di vista del carnefice, additando una causa esterna, più forte di lui, ritenuta plausibile a scatenare la dinamica dell’assassinio. Le agenzie e i giornali concordemente scrivono di troppo amore e di furia omicida per motivi passionali, oltre che di gelosia. Pazzo di gelosia, malato di gelosia, accecato dalla gelosia.
Scrivere così significa comunicare — con un vago sapore romantico — alle ragazze che quell’uomo che hanno davanti e di cui non sanno liberarsi, in realtà è solo troppo innamorato. Purtroppo ne sono già convinte in molte. Le vittime stesse fanno fatica a riconoscere la gelosia ossessiva come comportamento inaccettabile, sottovalutano i segnali.
Così si asseconda la tendenza a confondere l’amore con il tormento rabbioso, con la ferita narcisistica, con il terrore della solitudine. Si alimenta un immaginario tossico. Moltissime persone vedono nella gelosia un’espressione dell’amore e non della possessività o della prevaricazione. Estrema, certo, in questi casi: ma universale e quindi “normale”. Oggi come ieri, in età adulta come in età adolescenziale.

Si devono smentire gli stilemi: l’amore non arma le mani, non distrugge, non nega la vita; lo fanno il potere, il dominio e il possesso. Non si uccide perché si vuol bene ma per eliminare dal mondo l’immagine della propria sconfitta. Il delitto appare il mezzo di controllo estremo: perché non si riesce a concepire la propria compagna al di fuori della funzione che le è stata assegnata, la si considera un’estensione della proprietà, si è abituati a scambiare i propri desideri per diritti. La libertà di una donna merita una punizione esemplare.
Pur se la misoginia prende molte forme, il messaggio comune a tutte è che le donne esistono per soddisfare desideri altrui. È stato per secoli il messaggio principale della socializzazione di genere per le femmine.
Un’altra definizione fuorviante cerca la causa dell’assassinio in una turba mentale, il famoso raptus smentito dalle associazioni degli psicologi e degli psichiatri.

Grazie alla sensibilità di molte colleghe (si pensi ad esempio al lavoro fatto dal 2011 in poi dalla 27esima ora del Corriere della sera), non solo si è rotto il silenzio ma una parte della narrazione della violenza è cambiata; eppure follia e raptus nelle cronache sono ancora parole ricorrenti.
Quando lo identifica con la malattia, il racconto dei fatti lega l’atto criminale ad una patologia psichica, che lo inserisce tra gli eventi imprevedibili e quindi inevitabili. La violenza viene attribuita a una turba momentanea anche se l’uccisione della donna avviene al culmine di lunghe storie di maltrattamenti e di abusi, dopo anni di violenze familiari o di stalking, e le indagini rivelano che il delitto era stato ampiamente premeditato.
Si evocano poi circostanze avverse, negative per la stabilità psicologica: depressione, delusione, disoccupazione, povertà, solitudine, infelicità …
In molti articoli si sottintende nella struttura narrativa, o si esplicita direttamente, che a provocare la reazione distruttiva del compagno sia stato un comportamento “sbagliato” della donna. Il comportamento violento dell’uomo è presentato allora come reazione all’azione altrui e l’aggressione viene descritta come il risultato di un’interazione di coppia.
Negli articoli di cronaca danzano frasette assolutorie, spesso surrogate dalla testimonianza dei vicini di casa o dei parenti: “era un bravo ragazzo”, “un uomo mite” “un professionista irreprensibile”, “un uomo molto attaccato alla famiglia”, solo “accecato da una vertigine che eclissa sentimenti e volontà”, o “sconvolto” da una “lite degenerata”.

Definire conflittualità di coppia l’agire violento del partner maschile o ricercare nella vittima, nel suo comportamento e/o nella sua psicologia, le cause della violenza, dà luogo a un processo che è stato definito di vittimizzazione secondaria, che consiste nel cercare la causa della violenza in tratti di personalità, in particolari comportamenti delle donne o in caratteristiche morali di queste ultime.
È sempre la voce dell’assassino a parlare. E riduce il lungo, lento percorso della sofferenza e della distruzione a un obnubilamento momentaneo, quasi automatico, visto come causa e addotto come giustificazione. Noi l’assecondiamo perché in fondo questo allontana la violenza da noi, dalle nostre vite “normali”, dai nostri contesti rassicuranti. È faticoso accettare che per lo più non si tratta di perversi sconosciuti, di mostri senza volto. Sono i nostri compagni di vita, gli uomini che abbiamo amato; sono i padri dei nostri figli.
Stupri e femminicidi vengono raccontati diversamente a seconda di chi sono gli autori. È rassicurante cullarsi nella convinzione che se si asfalteranno i campi nomadi, si chiuderanno le frontiere e si terranno fuori i migranti, l’Italia diventerà un paese sicuro per le donne. Difendiamo le nostre donne non è un discorso che richiami gli uomini a una maggior responsabilità: è solo un incitamento a proteggere il corpo femminile come demanio pubblico.
Siamo restii a indagare il lato perturbante della “normalità”, quello che rende assassini soggetti di ogni ceto, di ogni professione, di ogni età, di ogni paese. L’umanissimo desiderio di pensare che quella vicenda non ci riguardi, che non potrebbe accadere a noi è forte, ma fa parte del problema.

È indispensabile evidenziare quanto il privilegio di genere non sia connesso a fatti emergenziali ma alla percezione antica di un ordine gerarchico tra i generi. Finché questi aspetti rimangono nascosti continuiamo ad esecrare la violenza stessa quando assurge a fatti di cronaca straordinari per efferatezza e crudeltà, ma lasciamo inalterato il tessuto sociale che alimenta ogni giorno i mille atti quotidiani nascosti in quella che viene considerata normalità.
La scena è una scena di potere, non bisogna dubitarne più.

Fino a che non si sovvertirà quest’ordine simbolico ogni discorso sarà inefficace. Se non ci si rende conto che ogni discorso sulle relazioni è un discorso sul potere, le parole non hanno peso.

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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.

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