È arrivata l’estate e molti/e di noi probabilmente hanno in programma di passare qualche giorno al mare, per rinfrescarsi dalla calura dei giorni cocenti, e godendosi momenti di relax, sorseggiando bevande fresche, leggendo un buon libro sotto l’ombrellone, o immergendosi nelle bellissime acque che circondano il nostro Paese. Questa scelta ha, però, un’importante conseguenza sull’ambiente: proteggendoci dal sole con creme solari, spesso ignoriamo che molti di questi prodotti, una volta entrati in contatto con l’acqua del mare o dei fiumi, rilasciano sostanze chimiche dannose per il territorio. Diversi studi hanno indagato l’impatto che alcuni filtri UV comunemente utilizzati causano ai coralli, sostanze che alterano anche lo sviluppo della fauna marina, contribuendo all’inquinamento delle acque dolci. La soluzione non consiste nello smettere di farne uso: negli ultimi anni, la crescente consapevolezza di questo problema ha portato alla nascita di guide e strumenti per orientarci verso scelte più sostenibili, che rispettino ciò che ci circonda, senza mettere in secondo piano la nostra salute; imparare a leggere le etichette, riconoscere gli ingredienti più problematici e adottare buone pratiche in spiaggia è un gesto semplice, eppure fondamentale: proteggere la nostra pelle non deve significare danneggiare il mare.
Ma prima un po’ di storia. La protezione solare viene sviluppata in origine come risposta all’esigenza di difendere la pelle dai danni provocati dai raggi ultravioletti, in un momento in cui la crescente esposizione al sole — soprattutto con la diffusione del turismo balneare nel Novecento — rende necessario tutelare la salute cutanea. Già a fine Ottocento, la comunità scientifica inizia a osservare la relazione tra eccessiva esposizione solare e fenomeni come scottature, invecchiamento della pelle e tumori cutanei, ma le prime forme di protezione erano unguenti a base di ossido di zinco o vaselina, pensati più per lenire che per prevenire. La svolta arriva negli anni Trenta con l’introduzione delle prime lozioni solari commerciali, tra cui quella sviluppata nel 1935 dal chimico francese e fondatore di L’Oréal, Eugène Schueller. Durante la Seconda guerra mondiale, invece, l’aviatore americano Benjamin Green elabora una pasta a base di petrolato per proteggere i soldati nel Pacifico, che in seguito diventerà il celebre marchio Coppertone.
Successivamente, negli anni Sessanta, grazie al progresso della chimica cosmetica, vengono messi a punto filtri più efficaci e gradevoli da usare, come l’avobenzone e il benzofenone, mentre il farmacista austriaco Franz Greiter introduce il concetto di SPF (Sun Protection Factor), che diventerà lo standard internazionale per indicare il livello di protezione solare: un indicatore che tutt’oggi rappresenta il punto di riferimento nel settore. A partire dagli anni Ottanta, l’uso delle creme solari si diffonde ampiamente, non più solo in spiaggia, ma anche nella vita quotidiana.
Ma alcuni filtri chimici contenuti nei solari — come ossibenzone e ottinoxato — possono avere effetti devastanti sugli ecosistemi marini, in particolare sui coralli, alterando i processi di crescita, riproduzione e fotosintesi.
Proteggere la pelle dai raggi UV è fondamentale, ma non possiamo ignorare la controparte di questa abitudine: molti filtri solari, una volta entrati in contatto con l’acqua, possono avere effetti devastanti sugli ecosistemi marini e acquatici. Ingredienti come l’ossibenzone, l’ottinoxato, l’avobenzone e persino il biossido di titanio in forma nano finiscono in mare ogni volta che ci tuffiamo, ci facciamo una doccia all’aperto o laviamo via la protezione. Una volta rilasciate, queste sostanze interagiscono con l’ambiente in modi preoccupanti. I coralli, ad esempio, risultano particolarmente vulnerabili a questi processi: anche minime concentrazioni di ossibenzone e ottinoxato possono causarne lo sbiancamento, danneggiare il DNA delle larve e interferire con la crescita delle alghe simbionti, fondamentali per la loro sopravvivenza. Ma non sono solo i coralli a soffrire: molti organismi marini — pesci, molluschi, crostacei — subiscono alterazioni ormonali causate da molecole che agiscono come interferenti endocrini, con conseguenze su sviluppo, riproduzione e comportamento. Alcune particelle, come quelle metalliche in forma nano, tendono ad accumularsi nei sedimenti o nei tessuti degli animali, generando effetti tossici.
Anche le acque dolci non sono al sicuro: tracce di filtri solari sono state trovate in fiumi, laghi e persino nelle acque potabili, segno che questi composti resistono ai sistemi di depurazione e persistono nell’ambiente. Studi come quello di Danovaro et al. (2008) hanno evidenziato la capacità dei filtri UV di provocare rapidamente lo sbiancamento dei coralli; l’approfondimento di Downs et al. (2016) ha dimostrato l’elevata tossicità dell’ossibenzone per i coralli giovani; mentre Tovar-Sánchez et al. (2013) ha documentato il massiccio rilascio di sostanze chimiche e metalli nelle acque delle Baleari da parte dei bagnanti estivi. Una visione ancora più ampia è offerta da Sánchez-Quiles & Tovar-Sánchez (2015), che presentano le creme solari come una nuova forma di inquinamento associato al turismo di massa, con conseguenze sulla biodiversità marina e sulle catene alimentari. E non va dimenticato lo studio di Buser et al. (2006), che ha rinvenuto filtri UV anche in corsi d’acqua interni e acque reflue trattate, sollevando interrogativi anche per la salute umana. In risposta a questa crescente consapevolezza, alcune regioni come Hawaii, Palau e diverse zone dei Caraibi e delle Filippine hanno introdotto divieti sull’uso di solari contenenti ingredienti nocivi per l’ambiente marino.
L’Unione Europea, nel frattempo, sta valutando una revisione delle normative sui filtri UV sospetti: ma, in attesa di regolamentazioni più ampie, il cambiamento può partire anche dai nostri gesti quotidiani. Esistono alternative più sostenibili, come le creme solari a base di filtri minerali non-nano — ossido di zinco o biossido di titanio — e i prodotti certificati reef-safe (anche se è importante fare attenzione al greenwashing: non tutte le etichette sono garanzia di reale sicurezza ambientale).
Tra le altre risorse autorevoli ci sono la guida annuale dell’Environmental Working Group (EWG), che valuta l’impatto dei prodotti solari sulla salute e sull’ambiente, e il Coral Reef Conservation Program della NOAA, che fornisce informazioni scientifiche e linee guida per la protezione delle barriere coralline.

Utilizzare magliette protettive, ridurre l’esposizione diretta al sole o preferire l’ombra sono piccoli gesti che, sommati, possono avere un grande impatto.

Esistono già alcune aziende che producono protezioni formulate per proteggere la pelle dai raggi UV senza danneggiare coralli ed ecosistemi marini: sono privi dei principali ingredienti tossici (oxybenzone, octinoxate, octocrylene, parabeni) e usano filtri minerali non-nano, come zinco e titanio. Fra queste Badger Sunscreen SPF 30, con certificato biodegradabile, cruelty-free e adatto anche per pelli sensibili e bambini/e, ThinkSport SPF 50+ di orgine 100% minerale, Attitude Mineral Sunscreen SPF 30 che è vegano, plastic-free (con packaging in cartone), Alga Maris Laboratoires de Biarritz SPF 30/50 con ingredienti marini e filtri minerali, Raw Elements SPF 30 perfetta da usare in aree protette e infine Green People SPF 30 Scent Free che possiede certificato Ecocert e reef-safe.
Possiamo proteggere la nostra pelle e prenderci cura del mare.
Copertina via Freepik.
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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.
