Con Passami il sale Clara Sereni si misura con la forma tradizionale del romanzo, ma è un romanzo dichiaratamente autobiografico, pur con qualche concessione alla fantasia.
Il libro racconta in prima persona, seguendola passo passo, l’esperienza di vicesindaca che la scrittrice visse fra il 1995 e il 1997 a Perugia: da Roma si era trasferita a vivere con il compagno e il figlio disabile in quella città che sembrava garantire condizioni di vita più sostenibili per una famiglia speciale come la sua.
Figlia di Emilio Sereni, ministro nell’immediato dopoguerra e dirigente del Pci, Clara, schierata, senza tessere, nell’area che si poneva alla sinistra di quel partito, si era sempre tenuta alla larga da ogni attività istituzionale, pur non rinunciando a usare il suo lavoro di intellettuale come strumento per intervenire nella realtà e cercare di modificare il mondo a beneficio degli “ultimi”. Quando, in seguito a quella tornata delle elezioni amministrative che videro l’elezione diretta del sindaco e la propaganda della sinistra per il coinvolgimento della società civile nella gestione diretta del potere, nonché l’esigenza di rispettare la regola che prevedeva almeno un terzo di rappresentanti per ciascuno dei due sessi, le fu proposto di assumere il ruolo di vicesindaca con delega alle Politiche sociali, la scrittrice esitò a lungo: «Prendersi cura di una città, invece che prendersi cura di sé […] Avanzai domande e le risposte mi parvero interessanti: e c’era quell’urgenza di dover fare qualcosa, le parole e la scrittura non più sufficienti a intervenire su una realtà che andava affollandosi di paure. Iniziai a valutare alcune possibilità di azione […] cominciai a prendere gusto all’idea di muovere, da assessore, l’organizzazione dei Servizi e qualche destino […] sarei entrata in Giunta come indipendente, lo ero e intendevo continuare a esserlo».
Il libro racconta, con toni che variano dall’appassionato, al disilluso, all’ironico, la lotta che la scrittrice sostiene faticosamente fin dal primo giorno in cui siede in consiglio comunale per conciliare con l’impegno istituzionale due esigenze vitali: continuare a prendersi cura di sé stessa come persona e come donna e non delegare totalmente ad altri, neppure al padre, la cura del figlio, bisognoso della presenza materna e di tempi rilassati più di altri figli.
Così il linguaggio del cibo, il suo acquisto quotidiano e la sua preparazione, assumono anche in questo libro un’importanza fondamentale; e il tema del sale, oltre che nel titolo, ricorre un’infinità di volte, complice la tradizione del pane sciapo diffusa nel Centro Italia. Perciò la richiesta che durante una cena di lavoro le rivolge Giulia, una delle altre due donne della Giunta, di passarle il sale, assume un significato simbolico profondo, che parla di solidarietà femminile, ma evoca anche l’invito di Gesù a discepoli e seguaci, contenuto nel Vangelo di Matteo, a essere “il sale della terra”.
Perciò, ancora, il libro si apre con il racconto del primo provvidenziale intervento di un personaggio dallo strano soprannome, Zattera, il cui ruolo ufficiale nel partito che ha suggerito il coinvolgimento di Clara resta misterioso, ma che troveremo accanto alla protagonista dall’inizio alla fine del romanzo (e della sua breve vicenda politica) con la funzione di un insolito angelo custode: «Mi ha dato da mangiare tre volte. La prima è durante un congresso del Partito. Dopo mezzanotte, quando tutto sembra che stia per finire, vengono al pettine i nodi e capisco che non me la caverò presto: ho già saltato il pranzo per una riunione della commissione di garanzia, la cena che avevo sperato si allontana indefinitamente […] Ho i crampi allo stomaco e una sola soluzione possibile: lui, che stranamente si è tenuto lontano, fuori […] mi mette sul tavolo una vecchia busta del pane, molto sgualcita, poco piena. Chino gli occhi sul dono: due fette di pane sciapo, e all’interno dell’originaria confezione di plastica un resto di pancetta affumicata, appena ingiallita ai bordi. Con le mani sotto il tavolo per non ostentare il privilegio […] infilo la pancetta fra le due fette di pane, e poi stacco con le dita un pezzettino che metto in bocca subito. Mastico lentamente perché il movimento di mascelle e mandibole non sia troppo evidente. La fame mette in secondo piano l’insofferenza verso questo pane insipido, cui mai mi abituerò».
In modo più esplicito che nei libri precedenti, Passami il sale racconta la disabilità di Matteo —che come in Casalinghitudine porta il nome di Tommaso — che si manifesta a volte drammaticamente, magari durante una passeggiata per la città che può risolversi in uno scontro fisico difficile da contenere: «Lungo la strada una crisi di Tommaso, quando mi sembrava che potevamo essere madre e figlio a passeggio per il centro. Inattesa, intollerabile di delusione: forse per questo fui incapace di gestirla. Giovanni [nome dato nel libro al compagno Stefano] irraggiungibile e il panico dei calci di Tommaso, il suo aggrapparsi ai miei capelli, le urla alle quali molti si voltavano, severi o incapaci di aiutarmi […] Tenendolo distante con la mia gamba tesa, in bilico ridicolmente sull’altra tremante, riesco a prendere il cellulare, a comporre il numero di Zattera […] Dopo pochi secondi è lì. Occupa lo spazio pericoloso tra me e Tommaso, scherza con lui, lo invita in un bar e la tempesta si placa. Ci accompagna fino a casa […] Salii le scale con Tommaso. A casa le mie pantofole erano accoglienti, il tepore del forno non era spiacevole nella serata molto fresca. Le zucchine si erano raffreddate, le aggiunsi al composto di uova, versai il tutto in una teglia appena unta. Tommaso le adagiò nel forno e cominciò a spogliarsi, pronto per il bagno di ogni sera […] Sapeva di buono, i suoi capelli erano teneri e la barba ancora soltanto una peluria, avrei voluto baciarlo, ma non potevo permettermi di dimenticare il pericolo di un contatto tra lui e me, nei momenti bui mai sua madre, ma un pezzo di sé da annientare. Rovesciai in un piatto la frittata, bella come un soufflé».
Nella quotidianità la ‘diversità’ può manifestarsi nell’attrazione ossessiva per alcuni cibi che portano il ragazzo a riempirne il carrello del supermercato in quantità che è impossibile consumare. Ma spesso è proprio il linguaggio del cibo a consentire il dialogo, nel contributo che Tommaso vuole dare alla preparazione di pietanze e dolci, rivendicando il compito di tagliare in piccoli pezzi verdura e frutta — e Clara ha imparato a non vietargli l’uso del coltello — e riservandosi sempre quello, delicato e fondamentale, di aggiungere il sale: «Molto nella mia cucina è cambiato negli anni, e non solo perché l’arte del cibo non è una scienza esatta, esposta com’è alle modifiche di mode, esigenze, disponibilità di tempo, materie prime e denaro. Chi ha cambiato quel che si mangia in casa è mio figlio. Perché cucinare insieme è stato uno dei pochi linguaggi che sono riuscita a condividere con lui, e perché la sua voracità malata di alcuni acquisti mi ha costretto ad inventare ricette che, utilizzandoli, dessero senso alla spesa e insieme al dialogo fra di noi. Il latte, come le uova e la farina, per tanto tempo a ogni girare di sguardo finiva nella tazza del gabinetto, o sparso sul pavimento. C’è voluto il coraggio di affrontare il coltello e la fiamma, per smettere finalmente di sprecarli, benché anch’io — per tante e tante volte — avessi trovato più semplice buttarli via, e senza l’obbligo dell’uso e dell’invenzione. C’è voluta, anche, la disponibilità ad ammettere che i desideri e i gesti di Tommaso potessero avere un significato: diverso da quello che io avrei avuto in mente, e tanti — la maggioranza — come me, e però preciso per lui e realizzabile, utile per altri, foriero di verità non spiacevoli. Così poi è capitato che la minestra di latte, creatura disperata di giornate senza luce, fosse buona: e allora ci si può limitare a dire che non tutto il male vien per nuocere. Oppure, con un soprassalto di ottimismo necessario e fertile, riconoscere che sì, davvero, la diversità, anche quella irriducibile, è — o almeno può essere — una risorsa».
Ma l’impegno politico sottrae tempo ed energie e Clara osserva con un senso di impotenza la trasformazione della sua casa, che si riempie di portacenere stracolmi e abiti stazzonati lasciati in giro a impolverarsi; e la sua stessa trasformazione: «Scivolano via i pochi piaceri della vita. Dai miei abiti sempre severi scompare ogni piccola frivolezza, divento brusca nelle parole e contratta nei gesti. […] Lungo il Corso, nella vetrina scura di un negozio ormai chiuso, mi intravedo con la mazzetta dei giornali sotto il braccio., i capelli quasi a zero, la sigaretta, la faccia gonfia di stanchezza e preoccupazioni. Gli occhiali sottolineano la somiglianza con mio padre: quanto ho patito i suoi impegni, la politica, il Partito che sempre lo portavano via. Tanti anni fa ho scelto di volermi diversa: riuscirò a conservarla, la mia diversità? […] Il compleanno dei miei cinquant’anni è giornata di Giunta: gli sfratti, la costruzione di un ponte, le prime ipotesi di bilancio. Contrasti che sfiorano lo scontro. […] Giovanni ha organizzato la baby-sitter. Al ristorante ho la testa piena di problemi e il brindisi è solo stanchezza. Mi arriva il suo amore, non so se riesco a fargli arrivare il mio. Che c’è, ma non so più in quale parte della mente e del corpo. A casa, nello specchio del bagno, ho tutti i miei anni. Mi consolo pensando che finalmente è finita, l’obbligo della seduzione non mi riguarda più: madre di famiglia, moglie, assessore, vicesindaco, non mi resta che vivere i miei ruoli, senza bisogno di inventarmi desideri nuovi ogni mattina». E ancora, in un giorno in cui, tornata esausta a casa, scopre che non c’è quasi nulla da mangiare: «Vorrei urlare che ho voglia di essere accudita, nutrita, sollevata dai mille gesti di cura che solo a me sono affidati e di cui posso godere solo se li organizzo […] Ma non si può. L’abitudine di tanti anni ci aiuta a non esplodere, a ricondurre rabbia e dolore dentro un alveo di parole qualsiasi, di battute innocue, di abitudini rassicuranti per Tommaso e per noi».
L’esperienza di gestione diretta del potere si conclude nel giro breve di un paio d’anni, con l’invito pressante del segretario del partito di riferimento alle dimissioni, perché «i compagni non capiscono». Clara, a suo dire, si occupa di cazzate: le donne, la Banca del tempo, i ragazzi Down e le erbe dei prati. Ma lo scontro vero è nato su due questioni. La prima è la richiesta dell’opposizione di eliminare dallo statuto la clausola di garanzia che assicura una quota di presenze femminili, cui la sinistra decide di dare il suo appoggio; l’altra l’insistenza della vicesindaca sul rispetto delle regole per l’assegnazione degli appalti. Regole che rischiano — e sono d’accordo tutti e tutte, senza distinzioni di area politica — di imbrigliare lo sviluppo della città e far perdere i finanziamenti ingenti promessi da una società cui si vorrebbe assegnare un appalto miliardario senza la gara prescritta. L’opposizione di Clara e di poche/i altri riesce a ottenere che la gara si faccia, ma il risultato non cambia: unica concorrente risulta la società che si voleva favorire.
Dopo un tentativo di resistenza, contrastato nell’intimo dal miraggio di poter tornare padrona di tutto il suo tempo, Sereni si dimette. Resta, a consolarla, la consapevolezza di qualche piccolo successo: «Raccolgo i frutti di un impegno: la chiusura definitiva del vecchio ospedale psichiatrico, imposta da una legge che ho condiviso, trascinata dalle burocrazie. Ho imposto al sindaco di esser presente […] Il sole illumina le finestre con le sbarre, quei nomi sulle facciate dei reparti: “SUDICI”, “AGITATI”, le definizioni che hanno annientato gli esclusi e i dimenticati di cui si popolano i miei incubi […] Dalla borsa, per il mio gesto simbolico senza fotografi, estraggo un pacco di sale grosso. Lo apro, comincio a spargerlo in grandi manciate nell’astanteria, l’ingresso di questo mondo insensato di cui molti non hanno mai visto l’uscita».
Il libro si chiude con una scena al limite del surreale. La società Pannapiù che in cambio della ristrutturazione di interi quartieri del centro da cui sono stati espulsi gli abitanti storici, ha finanziato il celebre monumento simbolo della città, organizza una grande festa cui presenziano le massime autorità civili e religiose: «Dal culmine del timpano, un getto bianco di panna si dirige, come per vita propria, verso la piazza. E si muove, non fa torto a nessuno, gira di qua e di là per soddisfare tutti. La folla ondeggia, poi tutti si lanciano verso la panna. Come formiche. Come fedeli alla Mecca. O come in India, nelle città della fame e delle carestie. Senza pudori o esitazioni, con la felicità negli occhi: seguono il getto, via via più lontano… Arriva l’autobotte che laverà la piazza e le strade, evitando attorno al Monumento un assembramento di mosche che sarebbe fastidioso… l’acqua comincia scorrere e un’ondata di profumo avvolge la piazza: al posto del solito disinfettante al cloro, lo sponsor ha voluto questo sentore di fiori, sintetico e persistente, che accompagnerà a lungo la memoria della festa».
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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.
