Clara Sereni. Le Merendanze

Dopo essersi dimessa dalla Giunta del Comune di Perugia, per i motivi che racconta in Passami il Sale, Clara Sereni decide di fare tesoro delle competenze e della conoscenza della città che quell’esperienza le ha fruttato. Lo fa, in modo particolare, impegnandosi perché la legge Basaglia, che aveva già dal 1980 decretato la chiusura dei manicomi, venga applicata anche nella sua dimensione costruttiva, più importante di quella distruttiva. Il gesto di spargere il sale nei locali dell’ex manicomio, descritto in una delle ultime pagine di Passami il sale, non può bastare.
Un anno dopo quelle dimissioni, dunque, nel 1998, nasce la Fondazione Città del Sole, che ancora oggi, dopo ventisette anni, gestisce progetti finalizzati a sostenere le famiglie in cui ci sono persone con disturbi mentali ed evitarne l’isolamento sociale. A questo scopo nei primi anni la Fondazione realizzò case-vacanza dove chiunque potesse scegliere di passare una o più settimane condividendo la quotidianità con famiglie “handicappate”: perché, come Sereni ha scritto e detto in più occasioni, l’handicap di un figlio o una figlia, di una sorella o un fratello, colpisce inevitabilmente tutti i familiari.

Per farsi conoscere e finanziarsi, la Fondazione organizzò per parecchi anni consecutivi un evento speciale che prese il nome di Merendanzo, a imitazione dell’inglese brunch: una merenda-pranzo, accompagnata però da danze e musica, da letture e dibattiti. C’era anche un mercato variopinto in cui si trovava di tutto: l’importante era che gli oggetti venduti fossero belli e non assomigliassero neanche un po’ a quelli delle vendite di beneficenza, occasione, per i donatori, di liberarsi di paccottiglia varia.
Clara riuscì a raccogliere intorno al progetto intellettuali, artisti e scrittrici; ma anche tante donne cui il Merendanzo offrì l’opportunità di dare uno scopo alla loro creatività, ribadendo insieme il valore degli umili saperi delle donne, indispensabili per tenere in piedi il mondo. Donne da sempre abituate a non sprecare nulla, capaci di inventare piccoli gioielli o indumenti con ritagli di stoffe, vecchi bottoni — come faceva Clara stessa — vaghi di collane e lane sfilate da maglioni diventati inservibili, si ritrovarono a collaborare per dar vita a quell’evento, da cui presero il nome di Merendanze.
Quel nome diventa nel 2004 il titolo di un nuovo libro, ancora una volta un romanzo, che, mescolando autobiografia e immaginazione, racconta l’avventura di cinque donne. Diversissime tra loro e appena legate da una conoscenza superficiale, Giulia, Laura, Lucilla, Francesca e Caterina si alleano per rispondere all’appello del vescovo a favore dei nuovi “ultimi”, gli uomini e le donne venuti da paesi lontani che affollano la piccola città in cui ciascuna di loro vive isolata nella sua routine.

Anche in questo libro il tema del cibo fa da filo conduttore, anzi suggerisce addirittura l’incipit, uno dei più belli tra quelli di Clara: «Il grosso coltello cala con regolarità sulla fetta di filetto, spessa e sanguinolenta. Tanti colpi fitti, netti, prima in orizzontale, poi in verticale. Arrivata al margine, lì dove una minuscola scaglia di grasso macchia appena di bianco il rosso compatto della carne, Giulia fa ruotare di quarantacinque gradi quasi esatti il tagliere, in modo che anche i colpi sulle due diagonali cadano precisi, e nessuna fibra sfugga al suo destino. Con il dorso del coltello, attenta a non perdere neanche una goccia del sangue che suo figlio considera prezioso, trasferisce in una terrina la carne ormai ridotta in poltiglia. Su un tagliere diverso dispone qualche fetta di cipolla insieme a un ciuffo di prezzemolo e un pugno di capperi sotto sale che ha messo opportunamente a bagno mezz’ora prima. Le cipolle la fanno piangere (con il mixer potrebbe evitarlo), pure le riduce in poltiglia con la mezzaluna inseguendo sul tagliere capperi e prezzemolo, e anche questo mescola alla carne: con metodo ed energia, benché il manico della forchetta le infiammi e indolenzisca il palmo della mano. […] E gira, gira: ma soddisfatta, perché nella terrina c’è ormai un composto perfettamente omogeneo. Due foglie di prezzemolo e una rondella di carota per guarnire: copre l’opera con un piatto, la ripone nel frigorifero.
Pensa che col frullatore sarebbe venuto più vellutato, e più in fretta, ma il palmo enfiato della mano è come il pegno che paga a suo figlio, all’uomo della sua vita così esperto di cucina da imporle le preparazioni che considera sane ed energetiche. Anche quando, fra taglieri e terrine, per preparare una semplice bistecca alla tartara finisce che il lavello è pieno di roba da lavare, e su una mattonella spicca — rosso — uno schizzo di sangue. Il sangue le ha sempre fatto orrore (anche il suo, quando c’era). Vorrebbe cancellarlo […] Ma può sperare che il disordine dell’angolo cottura non lo infastidisca, pranzeranno nel tinello, tutto tirato a lucido […] E intanto lei non dovrà star lì a trafficare, potrà farsi bella per lui, e aspettare a mani ferme che lui si sieda a raccontarle il mondo».

Le donne di questo romanzo rassomigliano molto ad alcune di quelle incontrate nei racconti di Manicomio Primavera e di Eppure. La Giulia che qui vediamo alle prese con la preparazione di una bistecca alla tartara ricorda, per esempio, la protagonista di Cristallo: è una donna sola e insicura, il marito l’ha lasciata e il figlio che vive lontano sembra essere l’unica sua ragione di vita, l’unico per cui vale la pena di farsi bella, quello che quando, sempre più raramente, va a trovarla, le racconta il mondo. Eppure è lei che trova il coraggio di prendere l’iniziativa per rispondere all’invito del vescovo. Per tenere a bada dubbi e paure ha bisogno però di condividere l’impresa con qualche altra donna e l’unica che le viene in mente è Lucilla, l’avvocata che l’ha assistita nella causa di divorzio. Lucilla è una donna che ha fatto dell’autonomia una bandiera: vive sola, si dedica con passione al suo lavoro, privilegiando le cause che nessuno vuole, in difesa dei più disperati, ma ci tiene molto alla sua eleganza, al buon cibo, al buon vino. «Alla causa persa per Khaled non riesce a rassegnarsi: sapeva in anticipo che sarebbe stato difficile farlo restare in Italia; ma ora che lo sa clandestino per obbligo ha una rabbia dentro, quasi un furore, che non si placa. […] Per distrarsi, per riempire il vuoto, prende dal frigorifero desolato il torrone al caffè, ancora intatto. […] Prende la scatola dei bottoni, quella grande di latta che l’accompagna dall’infanzia. Prova gli accostamenti, le dimensioni. Per un’intera serata, fino a tardi nella notte, si buca con l’ago, si invischia le dita nella colla, compone spille su spille, di quelle che adornano ogni suo vestito, e quelli delle sue amiche: l’unica sua abilità che metta a frutto i saperi delle donne. Un’abilità del tutto superflua. […] Ripone le spille create stasera in un’altra scatola, grande. Dentro ce ne sono già molte, troppe. Neanche in una vita intera, e neanche se le sue amiche fossero più numerose, riuscirebbe mai a utilizzarle tutte».

Figli non ne ha voluti, Lucilla, ma la notizia che un’amica cara è incinta apre qualche spiraglio di dubbio rispetto a quella scelta ormai irreversibile. Anche per questo forse — il desiderio inconfessabile di un pranzo meno solitario — risponde entusiasta all’invito di Giulia. Questa nel frattempo ha deciso di coinvolgere anche Laura, una donna che incontra a messa e che è l’esatto opposto della giovane avvocata: dedita totalmente al marito, di cui è ancora innamorata, e ai due figli, si dice completamente soddisfatta della sua vita. Le pesa solo di aver dovuto accogliere in casa Valeria, una mamma anziana, ma inappuntabile, di cui rifiuta ostinatamente l’offerta di aiuto che la fa sentire inadeguata. «La tavola è approssimativa, non molto ordinata, ma guardando marito e figli Laura pensa che tutto è proprio come lo ha voluto, come lo ha pensato sempre: le chiacchiere e gli scherzi che si intrecciano, la fame vorace dei figli adolescenti, lo sguardo luminoso di Andrea che ancora oggi, dopo tutti questi anni, la emoziona. Laura conosce la fatica di costruire tutto questo […] di prendere il bello e il buono senza farsi condizionare dal pessimismo, dalla stanchezza che ogni tanto la assale per il gran lavoro che questo equilibrio presuppone. Ma è il suo lavoro, non le è mai venuto in mente di metterlo in discussione. Tutto come lo ha voluto, tutto come lo ha costruito. Tranne sua madre: mai aveva pensato che venisse ad abitare con lei, con loro. […] Ora è qui, che si aggira per la cucina spostando cose, pulendo dove già è pulito, riordinando oggetti che nel disordine complessivo hanno un loro posto […] sempre con quel suo sguardo scontento, con quella richiesta di perfezione che le ha rovinato gli anni verdi e qualcuno in più».

Laura dovrebbe partire per le vacanze sulla neve, ma una malattia la costringe a casa. Perciò accetta l’invito di Giulia che, tra l’altro, le permette di sfuggire a una giornata intera con la madre. «Non riesce a pensarsi, per ore e ore, pasti e pasti, rituali e rituali, sola con sua madre, risucchiata in una spirale di passato che certo le nuoce assai più di un’influenza. […] Decide che deve trovare una via di scampo, allontanarsi, fuggire».
Così si unisce a Giulia e Lucilla; insieme a loro si reca al centro di accoglienza per donne in pericolo e ne invitano tre per il pranzo di Natale. Dopo i primi minuti di imbarazzo reciproco succede un piccolo miracolo: «Il cibo, il vino scaldano a tutte le guance, e finalmente il clima comincia a sciogliersi. Svetlana prova ad aiutare Giulia in quel che occorre e così si avvicinano un po’, Valentina prende a raccontare del Natale al suo paese e la curiosità, l’attenzione delle altre sono reali. Perché lo spazio che intercorre fra i cibi che hanno di fronte e quelli — strani, diversi — di cui lei parla, quello spazio tutte sentono di poterlo attraversare. Perché il teatro degli affetti che lei sta mettendo in scena è frutto di manutenzioni che tutte, magari inconsapevolmente, continuano a voler imparare».

Ma la vista delle condizioni di estremo bisogno in cui le tre donne italiane hanno visto le loro ospiti ha fatto nascere in loro il desiderio di fare qualcosa di più. Così Laura accetta che Liuba, la più giovane, che sta cercando di sottrarsi a un giro di prostituzione, vada a darle una mano nelle faccende di casa di cui è stata sempre gelosa, perché la fanno sentire indispensabile e insostituibile.
Intanto Lucilla si dà da fare per trovare i soldi necessari a far installare la grata che manca a una delle finestre, per garantire la sicurezza. A questo fine vengono coinvolte anche Francesca, che, perso il lavoro, vive in ristrettezze e la sua compagna Caterina, affetta da un disturbo mentale che si è appena manifestato con un gesto di violenza nei confronti di una signora ricca e ben vestita. Lucilla riesce a convincere la donna a ritirare la denuncia e intuisce che l’abilità manuale di Caterina, che sa lavorare il metallo, può rivelarsi utilissima. Risolto il problema della grata, le cinque donne vanno oltre e s’inventano un’iniziativa ambiziosa destinata a raccogliere fondi per la Casa Rifugio. Il progetto è quello di una giornata di festa per la quale Lucilla si occuperà di trovare la sala adatta. Poi ciascuna contribuirà realizzando oggetti originali da mettere in vendita — le spille di bottoni di Lucilla, i pupazzi di stoffa di Giulia, i ricami di Valeria, la mamma di Laura, le sculture di Caterina — e cucinando insieme alle straniere nella loro squallida casa, l’unica, tuttavia, capace di accogliere pentole e attrezzature della misura necessaria. «Tutte attorno al tavolo, a preparare […] Le uova da rompere per le frittate, le verdure da mondare, il formaggio a cui togliere la buccia e da affettare, la carne da tagliare a dadini piccolissimi, perché ce n’è poca e bisogna farla rendere al massimo: i gesti sono uguali per tutte, benché non tutte siano abili allo stesso modo. Così la preparazione del cibo è stare insieme, e le parole vengono meno difficili, e c’è la curiosità d’imparare “cipolla” o “aneto” in una lingua o nell’altra. C’è modo di sentirsi vicine per un progetto comune: non il Merendanzo, la sfida esterna per conquistare denaro, ma semplicemente la preparazione del cibo, un cibo buono per nutrirsi e nutrire. Le pentole che si riempiono lasciano spazio sul tavolo per nuove preparazioni, nuove idee: e per i suggerimenti dell’una o dell’altra nessuna ricetta sarà come d’abitudine, perché ci si fida e si può rischiare. […] Da tanto Caterina ha adocchiato i contenitori, curiosa. […] Un sapore mai sentito prima, un sapore buonissimo: Caterina non resiste, lo dice a tutte, invita ciascuna ad assaggiare. Giulia tenta di ritrarsi, non si è mai rassegnata alle mescolanze di dolce e salato. Resta in un angolo, sospettosa. Non si fida. Finché l’entusiasmo delle altre non contagia anche lei, che si risolve a una puntina piccola, ma proprio piccola: predisposta all’obbligatoria cortesia per chi ha cucinato, preparata al disgusto da mascherare. Macché, Giulia deve ammettere, sorpresa, che quella mistura inaudita le piace proprio, molto».

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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.

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