In visita alla Tate Modern

Non manco mai, quando sono a Londra, di fare una visita alla Tate Modern, uno dei musei d’arte contemporanea più celebri al mondo. Inaugurata nel 2000, ha sede nell’ex centrale elettrica di Bankside, un imponente edificio industriale ormai in disuso sulla sponda sud del Tamigi. Si distingue dalla Tate Britain principalmente perché espone arte moderna e contemporanea internazionale, con opere che vanno dal 1900 ai giorni nostri, e un allestimento delle sale tematico piuttosto che cronologico. La Tate Britain, invece, con sede in un edificio in stile più tradizionale, di epoca vittoriana, si concentra sull’arte britannica, coprendo un periodo che va dal 1500 fino a oggi, con un allestimento cronologico.

Fin dalla sua nascita, la Tate Modern ha dimostrato un forte impegno per una maggiore inclusività delle artiste nel mondo dell’arte, tradizionalmente dominato da figure maschili, e fin da subito ha cercato di correggere questa disparità. Già nel 2000 esponeva opere di importanti artiste come Louise Bourgeois, Eva Hesse e Rebecca Horn. Nel corso degli anni, il museo ha continuato a rafforzare questa politica attraverso acquisizioni strategiche, sia di artiste storiche che emergenti. Il museo nel tempo ha dedicato numerose mostre di alto profilo a figure femminili di spicco, come Yayoi Kusama, Frida Kahlo e più recentemente Magdalena Abakanowicz. Queste mostre non solo celebrano il lavoro delle artiste, ma ne ridefiniscono anche il ruolo e l’influenza nella storia dell’arte.

Anche nell’allestimento le opere delle artiste sono spesso affiancate a quelle dei loro colleghi uomini per creare un senso di parità e dialogo. Questo approccio ha reso la Tate Modern un punto di riferimento per la rappresentazione equa di genere nel settore museale, influenzando altri musei, e dimostra che la storia dell’arte è una narrazione complessa e sfaccettata, che non può essere completa senza la piena inclusione.

Maman, Louise Bourgeois

A maggio 2025, la Tate Modern ha compiuto venticinque anni e per festeggiare l’occasione ad accogliere i visitatori è tornata Maman, la gigantesca scultura in bronzo di Louise Bourgeois. Nel 2000, fu proprio l’iconica opera rappresentante un ragno a inaugurare l’apertura del museo. L’artista francese realizzò l’opera monumentale, la più grande della serie ispirata agli aracnidi, con i suoi più di nove metri di altezza e dieci di larghezza, nel 1999, nell’ambito di quella che sarebbe stata la prima di una lunga serie di commissioni per gli spazi della Turbine Hall. La scultura rappresenta un ragno gigante ed è un omaggio alla madre dell’artista, che era una tessitrice e restauratrice di arazzi. L’artista vedeva nel ragno le stesse qualità della madre, intelligenza e pazienza, protezione, utilità e benevolenza, e paragonava il ragno a una creatura utile che elimina insetti indesiderati, proprio come sua madre la proteggeva dai problemi e dalle difficoltà.

Al momento una delle mostre in corso alla Tate Modern è The Genesis Exhibition: Do Ho Suh: Walk the House, un’esposizione che permette di esplorare il mondo dell’artista coreano contemporaneo Do Ho Suh, visitabile fino al 19 ottobre 2025.

Do Ho Suh nel suo studio
Introduzione alla mostra di Do Ho Suh

Quando Do Ho Suh era un ragazzino a Seul, negli anni ’70, suo padre decise di costruire la casa di famiglia ispirandosi a un hanok, una tradizionale casa coreana in legno con un tetto curvo di tegole. Quella che scelse come modello sorgeva nei giardini del palazzo imperiale ed era stata costruita per il re Sunjo nel 1878. Per lui, era un modo per preservare certe virtù e pratiche tradizionali che stavano rapidamente scomparendo.

Seoul Home 2013-2022, Do Ho Suh

Dopo aver lasciato la Corea del Sud per New York nel 1991, Suh è diventato un artista di fama internazionale noto per le sue installazioni su larga scala che esplorano i concetti di casa, spazio, identità e memoria. I visitatori sono invitati a camminare attraverso i corridoi e le stanze, e a riflettere sul significato di “casa” non solo come luogo fisico, ma anche come spazio di memoria, nostalgia e identità, un tema particolarmente rilevante per l’artista che ha vissuto in diverse città del mondo, oltre che a Seoul, a Londra, New York, Berlino, Providence. L’esposizione alla Tate si concentra su una riproduzione a grandezza naturale della sua casa di famiglia a Seul e delle sue residenze nelle altre città, realizzate in materiali leggeri come la mussola e il nylon semitrasparente, che, pazientemente cuciti insieme con l’aiuto di sarte tradizionali, definiscono meticolosamente ogni dettaglio architettonico, dalle porte alle finestre, fino alle maniglie, ai telefoni e agli interruttori della luce, persino le lievi tracce di chiodi e viti.

Nests, 2024, Do Ho Suh
In alto Nest/s, 2024; in basso: SuhPerfect Home, 2024 (part.), Do Ho Suh

L’altra grande mostra in corso alla Tate celebra l’artista indigena australiana Emily Kam Kngwarray, visitabile fino all’11 gennaio 2026, organizzata in collaborazione con la National Gallery of Australia.

Emily Kam Kngwarray ad Alice Springs
dopo la sua prima mostra, 1980

Emily Kam Kngwarray è nata intorno al 1910 ad Alhalker in una comunità aborigena, situata a circa 250 chilometri a nord-est di Alice Springs. Anziana custode della cultura degli Anmatyerr, popolazione aborigena australiana, aveva dipinto per decenni per scopi cerimoniali, divenendo nota per il suo approccio preciso e dettagliato. Iniziò a dedicarsi al batik solo nel 1977, a quasi settant’anni. L’introduzione del batik segnò una nuova era per le donne aborigene nei Territori del Nord; fino a quel momento il loro ruolo era stato quello di assistere i pittori maschi, e solo poche donne creavano le proprie opere. Nel 1978 Kngwarreye insieme ad altre ventuno donne diede vita all’Utopia Women’s Batik Group, inizialmente un progetto comunitario, che poi si è evoluto nel senso che ogni artista poteva sviluppare il proprio stile individuale.

Batik, Emily Kam Kngwarray

Nel 1988 Emily iniziò a dipingere su tela, descrivendo così il suo passaggio alla pittura:
«All’inizio ho fatto il batik, poi ho imparato sempre di più e sono passata definitivamente alla pittura su tela. Ho rinunciato alla stoffa per evitare tutta la bollitura necessaria per togliere la cera. Sono diventata un po’ pigra, l’ho abbandonata perché era troppo faticoso. Alla fine mi sono stancata. Non volevo continuare con il duro lavoro che il batik richiedeva: far bollire la stoffa più e più volte, accendere fuochi e usare tutto il detersivo in polvere, più e più volte. Ecco perché ho abbandonato il batik e sono passata alla tela: era più facile. La mia vista è peggiorata con l’età, e per questo ho abbandonato il batik su seta: era meglio per me dipingere e basta».

All’inizio degli anni Novanta Kngwarray realizzò alcune stampe, tra cui acqueforti e linoleografie e in un decennio ha prodotto oltre tremila opere, circa una al giorno. La sua arte affonda nella conoscenza approfondita dei luoghi in cui ha vissuto per tutta la vita, dalle piante, agli animali, alle caratteristiche geologiche.

Il suo stile unico e la sua potente visione creativa hanno ridefinito l’arte aborigena contemporanea, guadagnandole l’attenzione di tutto il mondo. Nel 1996 Kngwarray è morta e l’anno dopo ha rappresentato postuma l’Australia alla Biennale di Venezia. Il suo lavoro ha avuto un impatto immenso in Australia e nel mondo, ispirando molte nuove generazioni di artisti aborigeni australiani.

The Alhalker Suite, 1993, Emily Kam Kngwarray
Untitled (Awely) 1994, Emily Kam Kngwarray
Yam Awely, 1995, Emily Kam Kngwarray
Emu woman, 1988-89, Emily Kam Kngwarray

Il percorso espositivo della mostra inizia dai delicati batik su seta e cotone degli anni Settanta e arriva alle grandi tele acriliche. In mostra oltre ottanta opere, incluso materiale inedito per il pubblico europeo. Si parte da frammenti di batik, tessuti drappeggiati che fluttuano nello spazio; segue il The Alhalker Suite (1993), un maestoso trittico di ventidue pannelli che incarnano i mutamenti del paesaggio e i cicli stagionali. Le opere finali, come Untitled (Awely) (1994) e Yam Awely (1995), rispecchiano le cerimonie femminili con segni verticali, ritmici, e intricati strati di colore. Ogni opera nasce da cerimonie, canti e tradizioni ancestrali, tutte insieme formano un archivio vivente della cultura Anmatyerr e ampliano la comprensione delle culture indigene.

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Articolo di Livia Capasso

foto livia

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte fino al pensionamento. Tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile e componente del Comitato scientifico della Rete per la parità, ha scritto Le maestre dell’arte, uno studio sull’arte fatta dalle donne dalla preistoria ai nostri giorni e curato La presenza femminile nelle arti minori, ne Le Storie di Toponomastica femminile.

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